Siamo o non siamo promotori di giustizia sociale?

hands-1022028__180di Elena Giudice*

L’articolo di Joanna Nicolas, pubblicato su The Guardian il 20 ottobre scorso, esplicita il punto di vista dell’autrice sui motivi per cui nella tutela dei minorenni non si persegue realmente un  fondamento della professione: la giustizia sociale.
La Nicolas racconta che è diventata assistente sociale a causa di una forte sensazione che il mondo fosse ingiusto. Ma lavorare nel campo della tutela dei minorenni le ha mostrato che la giustizia non è una priorità. Immediatamente, il suo punto di vista mi ha fatto risuonare tanti campanelli che neanche l’arrivo della slitta di Babbo Natale! La pancia mi urlava ‘ha ragione’. Poi, con calma, ho diradato l’emozione – almeno per oggi! – e riflettuto che concordo in parte con questa percezione. Solo in parte però. E i però sono dovuti principalmente ai motivi specifici per cui secondo la Nicolas non si perseguirebbe la giustizia sociale. L’Italia non è la Gran Bretagna.

Sì, la giustizia sociale ha come obiettivo rimediare allo squilibrio della nostra società. Altrettanto credo che questo scopo si possa raggiungere anche attraverso piccole azioni quotidiane che permettono almeno un riequilibrio di potere tra utenti e servizi sociali. Questo è un mio pensiero, la Nicolas non ne parla. Informare in maniera trasparente tutti gli utenti – anche quelli che non sopportiamo – dei loro diritti e dei nostri doveri professionali. È un loro diritto verificare il nostro lavoro senza sentirci attaccati o pararci dietro il nostro ruolo istituzionale. È un loro diritto conoscere come lavoriamo.
Ecco qui un punto che ci distanzia dal mondo dei servizi sociali anglosassone. La collega sostiene che le procedure che gli operatori sociali sono tenuti a seguire non permettono di accedere ad un lavoro che riequilibri le disuguaglianze perché si dedica troppo tempo alle procedure più che al senso del lavoro sociale, ‘la relazione’. La sua analisi mi ha fatto pensare. Da noi di procedure praticamente non ce ne sono eppure la totale discrezionalità degli operatori sociali comporta un’altrettanta mancanza di giustizia sociale.
Se vivi in un luogo dove gli operatori dei servizi lavorano in maniera critica, consapevole, mettendo in discussione il loro pensiero e confrontandosi con le persone in un dialogo reciproco di condivisione di potere, partendo dalla comunicazione chiara e trasparente allora sei fortunato. Sì perché non esistono in Italia procedure da rispettare – che se mai ci saranno spero siano sentieri e non gabbie – per affrontare il lavoro con le famiglie e i minorenni. Esistono linee guida che non sono obbligatorie. Ecco qui che partendo da punti opposti si raggiunge lo stesso risultato: l’ingiustizia sociale.

In Italia non si parla della gestione del potere, dell’oppressività dei servizi sociali. In Gran Bretagna sì, anche se questo dibattito ha portato purtroppo ad un’eccessiva proceduralizzazione del lavoro sociale e ad una enorme frammentazione delle persone in pezzi di ‘utenti’.
Un’ulteriore differenza, infatti, con la Gran Bretagna è che i servizi sociali in Italia, almeno in teoria non lasciano indietro nessuno. Joanna sostiene che in Inghilterra l’attenzione è posta sul minorenne e sul suo bisogno di protezione, non sull’ingiustizia sociale che può aver portato la sua famiglia a trovarsi in quella situazione. Insomma ci si occupa solo dell’adulto genitore, poi se non ha un’istruzione che gli permetta di trovarsi un lavoro cavoli suoi! Invece la discrezionalità e l’organizzazione dei servizi sociali italiana in questo aiuta, o almeno potrebbe.
In Italia i servizi sociali, almeno quelli di base, sono universalistici. O almeno dovrebbero esserlo. Perché se è vero che chiunque può andare in comune e prendere appuntamento con l’assistente sociale è anche vero che spesso le colleghe dei servizi sociali di base sono oberate dalla burocrazia, dall’essere come il prosciutto in un sandwich: schiacciate tra le richieste dell’utenza e l’incapacità di molte amministrazione di essere chiare su ciò che vogliono o non vogliono dare per paura di perdere voti. Altrettanto vero è che i servizi cosiddetti di Tutela Minorenni, nella loro discrezionalità, possono lavorare come vogliono e coinvolgendo chi decidono loro. Pertanto nulla osta ad affrontare anche quelle tematiche inerenti l’ingiustizia sociale che limita le potenzialità degli adulti intorno al bambino.

Ciò che differenzia l’Italia dalla Gran Bretagna è avere ancora la possibilità di darci delle ‘regole’ chiare, flessibili e altrettanto contenitive che tengano conto dei principi del lavoro sociale come l’autodeterminazione, l’empowerment, la giustizia sociale comprendendo quindi i diritti delle persone, tutte.
E potremmo allora fare marcia indietro dall’eccessivo investimento nel lavoro coatto con le famiglie a favore del lavoro con la comunità e dell’accesso spontaneo ai servizi sociali. Favorire insomma un servizio sociale di prossimità anche per le famiglie, in grado di riconoscere i bisogni del proprio territorio perché vissuto, conosciuto. Un servizio sociale di cui le persone si possano fidare in virtù di una conoscenza diretta, di una visibilità immediata. Quanti cittadini conoscono l’assistente sociale del loro territorio? Quanti sanno che faccia ha? La giustizia sociale nel lavoro con le famiglie e i minorenni parte da come sono pensati i servizi.
Come la collega inglese anch’io durante i miei anni di attività “ho lavorato per garantire che i minorenni fossero tutelati e che potessero stare bene, con chiunque essi vivessero”. Il principio alla base del lavoro degli operatori sociali che si occupano di minori è “il benessere del bambino è fondamentale”. Ho sempre pensato che la protezione dei bambini non fosse in contrasto con la possibilità di lavorare insieme ai genitori a 360°, ma soprattutto insieme a tutte quelle persone significative per la famiglia. I servizi come sono organizzati invece?

Guardiamo già come vengono denominati: Servizio per la Tutela dei Minorenni. E le famiglie dove sono? Se le parole hanno un senso, ecco dovremmo iniziare a pensare a come chiamiamo i servizi, o come noi operatori siamo soliti chiamarli. A me piace pensare ai Servizi per le Famiglie e i Minorenni, o ancora meglio ai Servizi per i Minorenni, le Famiglie e i Legami Comunitari. Pur concordano con la collega che la giustizia sociale in quest’area sia focalizzata sui bambini, almeno come principio, non penso però che questa idea sia sufficientemente buona per i bambini. Nei servizi si parla tanto di loro, si parla poco con loro di loro e di ciò che per loro è importante. Si dà poca voce a tutti i soggetti potenzialmente interessati a quel bambino.
Credo allora come la collega che si dovrebbe ripensare il modo in cui si lavora. Partendo dalle parole – che come ci hanno insegnato formano i pensieri – ripensiamo i servizi nell’ottica inclusiva di lavorare con tutti coloro che potrebbero essere supporto per quel bambino, per quella mamma, per quel papà. Diventiamo, o ridiventiamo, attivatori comunitari di risorse, lavoriamo CON e non SU. Spendiamo tempo fuori dal nostro ufficio vivendo il territorio.
In questo modo, secondo me, riattiveremo una possibile giustizia sociale anche nella protezione dei minorenni perché le persone si fideranno di più di servizi sociali vicini ma non opprimenti, curiosi di conoscere e di sostenere piuttosto che intrusivi quando ormai le situazioni sono sull’orlo del precipizio.

*Assistente sociale libero professionista; www.assistentesocialeprivato.it; info@elenagiudice.it

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