“Il tiro con l’arco”: uno spunto zen nel lavoro sull’autodeterminazione

Michelangelo_buonarroti,_schiavo_detto_atlante,_1525-30_ca.,_04di Davide Pizzi*

Docente di filosofia a Heidelberg (Germania), Eugen Herrigel nel 1924 fu invitato dall’Università Imperiale di Sendai (Giappone) a tenere dei corsi. Giunto in terra nipponica chiese e ottenne l’opportunità di apprendere l’arte del tiro con l’arco diventando allievo presso uno dei maggiori maestri di quel periodo: il maestro Awa. Terminato il suo incarico di docenza nel 1929, tornò in Europa, e nel 1948 pubblicò uno dei primi libri che contribuì a introdurre in occidente il pensiero Zen. Il famoso libro s’intitola, per l’appunto: Lo Zen e il tiro con l’arco.

 

L’operatore sociale… un po’ “maestro”, un po’ “educatore”

Nel libro sono contenuti spunti significativi anche per le professioni psicosociali. Nella storia ho scorto delle analogie tra il maestro zen e la mia professione, in particolare, nel processo di autodeterminazione. L’operatore sociale e l’utente compiono un delicato percorso, sicuramente non facile, fatto di pazienza e di tappe da raggiungere; l’utente deve capovolgere e rivedere le sue idee, il suo stile di vita, e la sola buona volontà certe volte non è sufficiente, serve una guida. Scrisse Herrigel riferendosi a coloro che si accostano alla disciplina: “All’inizio con grande pena e sconcerto, dovrà infatti riconoscere prima di tutto che parte dei suoi gesti sono sbagliati, poi, che sono sbagliate parte delle sue intenzioni, infine, che proprio le cose su cui fa affidamento sono i suoi più grandi ostacoli”. Il maestro (operatore), aiuta l’allievo (utente), a scrollarsi di dosso parte di sé stesso, a restare “vuoto per accogliere, quasi senza accorgersene, l’unico giusto gesto, che fa centro, quello di cui gli arcieri Zen dicono: «Un colpo – una vita». In un tale colpo, arco e freccia, bersaglio e Io si intrecciano in modo che non è possibile separarli: la freccia scoccata mette in gioco tutta la vita dell’arciere, e il bersaglio da colpire è l’arciere stesso!”

“Un giorno, in un esauriente colloquio con il signor Komachiya, gli chiesi perché il Maestro si fosse limitato per tanto tempo a osservare i miei vani sforzi per tendere l’arco ‘spiritualmente’ […]. «Un grande maestro» rispose «deve essere allo stesso tempo anche un grande educatore, da noi una cosa vale l’altra. […] I suoi tentativi dovevano prima naufragare perché lei fosse pronto ad afferrare il salvagente che lui le offriva. Mi creda, lo so per mia propria esperienza, il Maestro conosce lei e ciascuno dei suoi allievi meglio di quanto noi conosciamo noi stessi. Egli legge nelle anime dei suoi allievi più di quanto essi vorrebbero ammettere».”[1]

 Due tappe essenziali nel cammino verso l’autodeterminazione:

  1. Dai tentativi naufragati, nasce il desiderio di afferrare il salvagente!

“I suoi tentativi dovevano prima naufragare perché lei fosse pronto ad afferrare il salvagente che lui [il maestro n.d.r.] le offriva”. (pag. 39). “E questo ostinato insuccesso mi abbatteva tanto più perché avevo già superato il terzo anno d’insegnamento”. (pag. 66)

Dietro l’insuccesso del filosofo Herrigel, da lui definito “ostinato”, si nascondeva però la volontà altrettanto ostinata di apprendere e di imparare. La figura del maestro, distaccata e silenziosa, si limitava apparentemente a osservare gli insuccessi. I consigli e le tecniche del maestro, Herrigel le aveva soltanto ascoltate ma non interiorizzate, e per questa ragione non producevano i risultati da lui attesi. In questa fase il maestro, rispettoso dell’allievo, non poteva fare altro che attendere che il discepolo chiedesse veramente il suo aiuto, che afferrasse il salvagente! Durante il periodo caratterizzato dagli insuccessi, dallo scoraggiamento, e a tratti anche da una certa insofferenza, Herrigel rischiò addirittura di essere espulso dalla scuola di tiro con l’arco. A questo punto però, avvenne la svolta, una “sana ostinazione” lo spinse a seguire pedissequamente gli insegnamenti del maestro, e la forza volontà a lungo affinata dagli insuccessi, lo spinse ad afferrare ogni singola parola detta dal maestro. La regola che si può ricavare è: che ogni crescita avviene solamente quando si è disposti a seguire i consigli e a cooperare attivamente.

  1. L’esercizio paziente è sempre premiato

«Lei vede che cosa vuol dire non poter restare senza intenzione nello stato di massima tensione. Lei non riesce nemmeno a continuare a imparare senza chiedersi continuamente: ce la farò? Aspetti pazientemente quel che viene e come viene!» (pag. 70)

Si dice che la pazienza è la virtù dei forti. In effetti serve una grande forza d’animo per attendere ciò che si desidera con ansia. Sostenere una tensione emotiva prolungata nel tempo, richiede sforzo e grandi capacità, che non sempre chi le esercita le possiede fin dall’inizio, anzi, il tempo stesso funge da palestra per l’esercizio di una tale costanza. Durante l’attesa però, quando la pazienza viene meno, essa lascia spazio al dubbio, e una domanda assillante come un tarlo s’insinua e offusca la mente: ce la farò? A questo quesito l’unica risposta risolutiva consiste nell’attesa, nell’attesa paziente, e non ansiosa, cosa che non è per nulla semplice. L’attesa che non riguarda solamente l’utente, ma che coinvolge in egual misura anche l’operatore sociale: entrambi sono in attesa, talvolta paziente, altre meno.

Raccogliere i primi risultati  

“Col tempo diversi tiri l’uno dietro l’altro riuscirono a colpire il bersaglio, naturalmente sempre tra molti mal riusciti. […] In quelle settimane e in quei mesi sono passato attraverso la scuola più dura della mia vita, e anche se non mi riuscì sempre facile piegarmici, imparai a poco a poco […] più di cinque anni erano passati”. (pag. 82)

Prima o dopo gli sforzi saranno ricompensati. Quando si lavora con serietà, impegno e dedizione, si raccolgono sempre i frutti. L’esperienza di Eugen Herrigel ne conferma il concetto, e ne costituisce un valido esempio. Imparare ad attendere fu la lezione più dura della sua vita! Imparare a poco a poco fu il passo e la velocità che mantenne.

Il vero bersaglio da colpire

Ma qual è il vero bersaglio da colpire? Su cos’è che occorre fare centro veramente? Il senso del bersaglio e del “far centro”, consistono nel misurare sé stessi, e imparare a conoscersi. Ma quanto l’operatore conosce delle potenzialità dell’utente? Soprattutto, quanto conosce di sé l’utente? Che percezione possiede egli di sé stesso? Nelle parole del signor Komachiya c’è una risposta interessante per noi operatori quando: Egli, (riferito al Mastro), legge nelle anime dei suoi allievi più di quanto essi vorrebbero ammettere. L’allievo si rivolge al Maestro perché necessita dell’occhio esperto di una guida. Il compito del Maestro è quello di accompagnarlo durante il percorso, che da solo l’utente avrebbe più difficoltà a compiere, e di fungere da facilitatore durante le tappe. Se entrambi avranno lavorato bene, la grande lezione della vita sarà imparata dall’allievo: «Credo di capire ciò che lei intende con il bersaglio vero, quello interno va colpito. […] così i colpi centrati confermano all’esterno ciò che avviene internamente» (pag. 77). Imparare a centrare il bersaglio interno! È questo il segreto! Ciò che si manifesta all’esterno è solamente il risultato di quanto accade all’interno di ogni individuo. Quante volte capita di incontrare utenti dotati di buone capacità, ma che per varie ragioni non sono state sfruttate appieno. Quante frecce nelle loro vite scoccate a vuoto, perché alla base è mancato l’aver fatto centro nel bersaglio invisibile, il più importante, il bersaglio interno!

“La peggior cosa è il talento sprecato!”

«Io ce l’ho il talento? Certo che ce l’hai […] ricordati nella vita, la cosa più triste è il talento sprecato. Puoi avere tutto il talento del mondo, ma se non fai la cosa giusta non succede niente!»

Questo frammento di dialogo è tratto dal film Bronx. Robert De Niro risponde al figlio per spiegargli in parole semplici che cos’è il talento. Un talento sprecato equivale ad un coltello non affilato. Uno scorcio di vita che è capitato a tutti credo, quello di tentare di affettare il pane con un coltello non affilato: un’esperienza faticosa, in cui serve raddoppiare la forza e ciononostante, il risultato finale lascia molto a desiderare!

L’ostacolo della crisi economica

In questo periodo di crisi economica è più complicato parlare di autoderminazione, specie per gli assistenti sociali che lavorano negli enti comunali. Negli ultimi anni le risorse del Welfare sono progressivamente diminuite, mentre in modo inversamente proporzionale sono aumentate le domande di assistenza economica. Le difficoltà di reinserimento nel mercato del lavoro sono reali, e come riuscire a evitare il circuito dell’assistenzialismo degli utenti è un vero rompicapo. Certe volte si ha l’impressione che non ci sia alternativa all’assistenzialismo in questi tempi bui di crisi, e per fortuna che le deflazione dei prezzi, più marcata in alcune aree dell’Italia, ha reso meno deboli gli striminziti interventi economici, almeno al sud, in città come Bari per esempio. Non solo, con meno stanziamenti è anche più difficile concepire progetti sociali, e verrebbe da dire a chi ha deciso i tagli: cosa credete, che si può fare di più di quel che è stato fatto in passato con meno soldi? Spending review e patto di stabilità sarebbero giusti, se operati altrove, in altri settori, ma volte ho l’impressione che per andare avanti ci si debba affidare all’arte di “arrangiarsi”, e lavorare con inventiva i ritagli di ciò che è avanzato, un po’ come per l’arte culinaria quando inventò i canederli o la jambalaya. Ma c’è anche un altro aspetto da considerare: quale crescita professionale possono avere gli operatori in un contesto simile? Anzi, è probabile che alcuni possano andare incontro a una forma di burn-out causato proprio dai continui tagli di risorse al Welfare[2], e all’aumento delle prese in carico causate in parte, anche dal blocco del turn over. All’interno di questo quadro di cambiamenti austeri, anche resilienza dell’operatore potrebbe venire meno (nessuno è indistruttibile), e forse per proteggersi dal burn-out, non basterà più essere resilienti, servirà uno scafandro da palombaro, barcamenandoci come potremo, per tirare avanti la carretta, alla pane, amore e fantasia!

Considerazioni finali

Consiglia Hannanh Whitall Smith: «Dopo aver dato un onesto consiglio, devi essere assolutamente indifferente al fatto che venga seguito o no, e non cercare comunque di imporre agli altri ciò che è giusto per te. Questo è il segreto per dare buoni consigli». Alla fine del libro, si incontra questa frase: “è necessario molto esercizio paziente, molto esercizio infruttuoso, esattamente come nel tiro con l’arco”. (pag. 84). Lento è il processo di autodeterminazione, che richiede un enorme esercizio della volontà e della pazienza da parte dell’utente e dell’operatore sociale, che reciprocamente si devono adattare facendo attenzione ai tempi senza forzarli frettolosamente.

Note

[1] Herrigel E., Lo Zen e il tiro con l’arco, Piccola biblioteca n° 25, Adelphi Editore, Milano 1975, pag. 39-40.

[2] Per approfondimenti: Pizzi Davide, Il burn-out riletto attraverso Pirandello, su Animazione Sociale n. 262 aprile 2012, Gruppo Abele Editore, Torino.

Ringrazio la mia collega, Regina Gonano, che otto anni fa mi regalò una copia del libro Lo zen e il tiro con l’arco, senza il quale non sarei stato in grado di scrive questo articolo.

*Assistente Sociale, Ordine della regione Puglia

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