Chi da qualche tempo svolge una professione d’aiuto in ambito sociale (educatore, assistente sociale, psicologo) ha fatto esperienza che i suoi tentativi di rendersi utile con interventi dotati di passione e competenza sono non di rado respinti o lasciati ‘cadere’ più e meno esplicitamente dal destinatario. Ciò sebbene questi si trovi in difficoltà evidenti e magari sia egli stesso a chiedere aiuto. Questo paradosso ha molte possibili spiegazioni e tra queste vi è la portata del cambiamento che il professionista d’aiuto, attraverso il proprio intervento, chiede all’assistito.
Chi ricorre ad un qualunque professionista cerca delle capacità che ritiene di non avere e di cui ha bisogno per realizzare dei progetti come avviare un’impresa o costruirsi una casa, oppure per aggiustare qualcosa che gli si è guastato, dalla salute al frigo della cucina. Un professore universitario di Fisica se ne ha necessità si rivolge senza alcun imbarazzo non solo al medico o all’avvocato, ma qualora la sua auto faccia uno strano rumore anche al meccanico che ha la pratica, che a lui manca, di quegli stessi principi teorici che insegna. A nessuno infatti è chiesto di sapersela cavare in tutti i campi e la competenza dell’addetto ai lavori è di solito molto benvenuta da chi gli si rivolge per avere un aiuto nei propri intenti. Gli unici rischi stanno nell’eventualità che l’esperto non risulti tale o che il suo costo economico sia troppo alto.
Estendendo tali premesse a sé stesso, il professionista dell’aiuto può credere che avrà buona accoglienza dai suoi assistiti nella misura in cui saprà offrir loro una prestazione di qualità. Ma la problematica che lui e loro vorrebbero risolvere è paragonabile all’oggetto di intervento del tecnico o, per restare in un’area prossima, del medico? Guardando al come spesso gli interventi in ambito psicosociale vengono impostati, sembra che una infiammazione al ginocchio e un abbandono scolastico siano pensati entrambi come frutto di un accidente occorso a chi manifesta il disagio o all’ambiente che lo circonda e condiziona. Il professionista e lo stesso paziente cercano l’agente dissonante con il funzionamento normale per eliminarlo. In campo sociale l’analogo del bisturi e dell’antibiotico sarà la rieducazione, la correzione delle storture ambientali, il rinforzo della fiducia in sè.
La letteratura ci indica però che la sofferenza per la quale è chiamato il professionista sociale è così legata all’esistenza passata e presente del paziente da non poterla distinguere dal suo modo di stare al mondo. Quel che chiamiamo sintomo è spesso un fenomeno attinente al suo rapporto più spontaneo con sé stesso e chi ha attorno (S. Cirillo, M. Selvini, A. M. Sorrentino, 2016).
Questo complessifica il concetto di problema e di malattia psicosociali fino a far comprendere che trattare le disfunzioni di questo genere come fossero ‘semplici’ presenze importune da eliminare, cosa possibile se fossero separabili dal ‘corpo’ sano, porta ad interventi che in realtà colpiscono l’intera persona.
Quando il resistere alla fame consente alla ragazza con problematiche alimentari di sentirsi meno impotente, la dieta da proporle per tenerla in vita dovrà tener conto che deve sopravvivere anche emotivamente: non può collassare per il profondo senso di inadeguatezza che la re-invade ogni volta che mette in bocca qualcosa di calorico (M.Selvini Palazzoli et altri, 1998). La funzione salvifica che una persona si dà presso un partner maltrattante (R. Norwood, 1989) può essere così importante da farla resistere ai tentativi di chi la vuol togliere da lì senza considerare a sufficienza la sua necessità di rivestire quel ruolo soccorritivo.
Oltre al professionista anche lo stesso paziente e i suoi familiari possono concepire la problematica come un in più da rimuovere, ma presto l’intervento operato con questa premessa genererà del disagio che si aggiunge a quello già presente e a quel punto è molto probabile il ritrarsi dalle cure o l’inconsapevole depotenziarle (magari resistendo passivamente con la cronicità). In questo modo l’assistito salva la propria integrità, l’unità con la propria storia dove quel che oggi è problema era necessità. Vuol cioè continuare ad utilizzare gli adattamenti che un tempo gli hanno consentito di sopravvivere ad ambienti evolutivi impervi e minaccianti. Un assestamento che è divenuto ben presto (G. Attili, 2007) tutt’uno con l’individuo e le sue relazioni che rimangono sostanzialmente uguali negli anni, a costo del disadattamento all’ambiente che nel frattempo è cambiato: quel che era attagliato al rapporto con i genitori non è detto che caschi bene nella relazione coniugale o presso i figli (Framo, 1992).
Si tratta di un ‘essere e fare’ ad oggi disfunzionale ma in cui l’autore si riconosce, che lo rassicura per la passata efficacia e a cui quindi farà ricorso ancor più rigidamente nelle fasi di vita travagliate (Cancrini, 2006): proprio quelle in cui interviene il professionista d’aiuto.
Educatori, assistenti sociali e psicologi non possono considerare il proprio fare alla stregua di quello dei professionisti in altri ambiti: con il loro intervento quest’ultimi contribuiscono a far sì che il loro cliente realizzi sé stesso, l’operatore psicosociale nel tentativo di far lo stesso va inevitabilmente a minare le fondamenta su cui il suo utente si regge.
Ha quindi da resistere alla tentazione di farsi avanti per liberarlo da ciò che lo grava e vederlo rifiorire.
Contenendo il proprio bisogno di sentirsi incisivi e considerando gli affanni degli assistiti come forme con cui essi stanno già lottando per la sopravvivenza, i professionisti dell’aiuto possono darsi un obiettivo diverso da quello di estirpare le modalità con cui i loro pazienti compromettono la propria esistenza.
In alternativa a quell’intento possono mirare a rendere quegli stili meno impliciti e più noti a chi li mette in atto, offrendo a questi attori l’occasione di un pensiero critico sul proprio copione. L’individuazione di ciò che stanno facendo mostrerà ai loro stessi occhi la peculiarità (e quindi i limiti) delle proprie scelte.
Questo potrà consentire la generazione di prospettive alternative: impossibili finché quelle attuali spiegano ogni cosa.
La possibilità di restituir loro il significato del proprio fare richiede però che il come viene connotato sia accettabile e non lo sarà quando ha un effetto squalificante oppure troppo destabilizzante. A questo fine l’operatore cercherà di cogliere la spinta vitale insita anche nelle condotte più deleterie del suo assistito e di quei comportamenti ne sottolineerà la funzione che ne mostra la determinazione e capacità di resistenza (Barbisan, 2021).
Pensando al ritiro scolastico come analogo a una infiammazione al ginocchio, quindi solo come esito di un qualche danno patito dal ragazzo, a lui e ai suoi genitori darò spiegazioni del tipo: “Non crede in sé, i mancati rinforzi hanno minato l’autostima”, una ferita richiedente quindi assistenza e incoraggiamento che qualcuno più competente di lui dovrà offrirgli.
Sapendo che una ripartenza del ragazzo richiede che creda di aver i numeri per evitare altre sconfitte e chiedendoci quanto l’immagine che gli restituiamo sia funzionale a questo, possiamo decidere che l’attribuirgli poca fiducia in sé e una accentuata vulnerabilità/dipendenza rispetto agli influssi ambientali non lo inorgoglisce per niente.
Una alternativa possibile è riconoscere al ragazzo e far presente ai genitori che la scelta di ritirarsi è prova che ha conoscenza di sé stesso e dei propri limiti, segnale della presenza di un amor proprio che giustamente non intendeva mortificare ulteriormente. Una decisione volta quindi a preservare quella dignità che sarà fondamentale per avviarsi in imprese altrettanto formative, seppur alternative al contesto scolastico tradizionale.
Affinché questa non sia solo una postura strategica del professionista è necessario che egli si interroghi e misuri le eventuali proprie tentazioni patofiliche o gli slanci compassionevoli, quegli atteggiamenti con cui rischia di promuovere solo la propria di immagine.
Considerando, contro-intuitivamente, i pazienti dei soggetti attivi, impegnati in imprese fondamentali per la loro esistenza, così determinati da rischiare di comprometterla con quelle stesse armi con cui la vogliono affermare, il professionista dell’aiuto cercherà di fare da testimone della lotta e dei suoi strumenti che vede usare perché siano palesi e integrabili dal lottatore nella propria persona: “Lavoriamo perché la corazza penetri e diventi carne” (A. Sorrentino, comunicazione personale).
Note
Lo scritto presenta sinteticamente l’atteggiamento mentale e pratico che l’autore reputa consigliabile a chi vuol essere d’aiuto a fronte di condotte disfunzionali. Di questa impostazione si vedrà una declinazione ‘estrema’ nell’articolo previsto per il doppio fascicolo autunnale di Prospettive Sociali e Sanitarie, che racconta dell’intervento presso la gente di strada praticante le sostanze, l’alcol, la prostituzione.
Bibliografia
- Barbisan D. L’Homo faber fortunae suae dimenticato dagli operatori sociali Rivista “Terapia familiare”, 2021, Vol. 126 Franco Angeli
- Cancrini L. L’oceano borderline. Racconti di viaggio Raffaello Cortina Editore, Milano 2006
- Cirillo S., Selvini M., Sorrentino A.M. Entrare in terapia. Le sette porte della terapia sistemica. Raffaello Cortina Editore, Milano 2016
- Framo J. L. Terapia intergenerazionale Raffaello Cortina Editore, Milano 1992
- Norwood R., Donne che amano troppo, Feltrinelli 1989
- Selvini Palazzoli M., Cirillo S., Selvini M., Sorrentino A.M., Ragazze anoressiche e bulimiche, Raffaello Cortina Editore, Milano 1998
*psicologo psicoterapeuta, operatore consultoriale, didatta della scuola Mara Selvini Palazzoli di Milano nella sede di Brescia
Come diceva Elinor Goldschmied (comunicazione personale) è meglio sopportare il grave fardello piuttosto che affrontare la minaccia dell’aiuto….di..uno stregone..