“Benvenuti in Galera”

di Francesca Susani*

Sarà che io quando cucino mi rappacifico con la vita (mio marito dice che “seguo il mio flusso”) e che il mondo della ristorazione mi affascina ormai da molti anni… ma dal momento in cui mi sono seduta in sala ho goduto di ogni passaggio di questo bellissimo documentario che racconta l’esperienza del primo ristorante aperto in un carcere, ho riso e mi sono commossa. Ho provato tanta stima e simpatia per i protagonisti della storia. E ho cercato di capire e di vedere le cose con occhi diversi.

Abbiamo davanti delle persone che ci stanno offrendo un servizio e per loro è un momento importante per interagire con chi viene da fuori, dall’altro lato delle mura.

Ci raccontano dell’imbarazzo che provano quando viene chiesto loro: “cosa hai fatto?” e della difficoltà a farsi accettare (trovare una casa, un lavoro) quando possono vivere parte della loro vita fuori dal carcere. Queste reazioni giustamente provocano rabbia, dispiacere, frustrazione.

Ma non voglio mettermi subito dalla parte del “buono”. Il detenuto fa paura, non sai chi hai davanti, cosa ha fatto: è diverso da te. Ma perché? Come è arrivato lì?

“Non siamo nati ladri”. Questa frase pronunciata da un protagonista nel film è uno stimolo a cercare di capire, ad avvicinarci. Sono persone che in qualche momento del loro percorso di vita sono inciampate e hanno preso una strada sbagliata. Ma le persone che trovo in questo racconto mi appaiono una più bella, simpatica e sensibile dell’altra. Sono persone che vorrei conoscere.

A partire dalla responsabile del ristorante, Silvia Polleri, che racconta (vedi anche il suo Ted Talk qui) di non essere mai entrata in un carcere prima che la chiamassero ad aprire un catering con i detenuti 20 anni fa, proposta che ha accettato a condizione di poter offrire un servizio che non fosse “della misericordia”, prima di tutto per rispetto dei detenuti.

Ma perché pensare di avviare un servizio di catering proprio in un carcere? Ce lo racconta con disarmante semplicità:  “cucinare permette di risvegliare tutti i nostri sensi (…), e in più permette di accogliere l’altro, che per l’essere umano è una delle funzioni più importanti (…). E dare questa possibilità ai detenuti è come dargli la possibilità di saltare oltre il muro (…). Ma il problema più grosso – ci avverte – non è dare un lavoro a queste persone. Il problema è la loro credibilità. La magistratura un fine pena quasi sempre lo da. Siamo noi che non lo diamo, le persone oltre il muro”.

Allora conoscere diventa il primo passo per superare i pregiudizi e la paura.

Da qui è nata quella che Silvia ha chiamato  “la proposta indecente”, fatta  7 anni fa agli amministratori del carcere: aprire un ristorante per il pubblico all’interno delle mura di Bollate in modo da far conoscere al pubblico la vita, la realtà, le persone che qui vivono, e dar modo agli ospiti in sala di farsene un’idea meno stereotipata. (Vedi anche il racconto per Scambi di Prospettive di Diletta Cicoletti, che ha cenato lì pochi mesi dopo l’apertura).

SI tratta di un’esperienza unica al mondo, che è stata anche notata all’estero e, ci auguriamo, faccia scuola.

Ma torniamo al documentario, nel quale le interviste ai protagonisti del racconto si alternano a momenti veri di vita quotidiana e di lavoro dei detenuti all’interno del ristorante, e poi le riunioni organizzative, le serate in sala con i commensali, e i colloqui di Silvia con i detenuti che vogliono lavorare lì; uno dei quali, alla domanda “perché non hai chiesto di lavorare nella cucina del carcere” risponde imbarazzato “ci sono detenuti e detenuti…,” non è chiaramente facile neanche tra loro e sentendo una frase così mi sento “giustificata” ad avere un po’ paura anch’io.

Ma poi seguo il cuoco Davide, con i suoi occhi chiari e i modi bruschi e il suo modo scherzoso di rapportarsi con Silvia, cercando di rabbonirla quando lui vuole fare di testa sua; ascolto i ragazzi fare battute sulle possibili vie di fuga dalla location del prossimo servizio catering, guardo Said servire ai tavoli e raccontarsi con un bellissimo sorriso e lo sguardo ricco di sensibilità; seguo il colloquio di un giovane detenuto che si dichiara di essere stato “scioccato” (quanto noi persone libere?) quando ha saputo di questo progetto.

In questa narrazione mi sembra emerga l’importanza per i detenuti di essere riconosciuti come essere umani, di come il lavoro permetta il riscatto, pur senza dimenticare di portare rispetto a chi ha subito il torto. Come racconta ancora Silvia nel Ted Talk: le due gambe su cui poggiano queste persone rappresentano da una parte il torto che hanno inflitto e che non li lascerà mai, dall’altra la speranza di potersi riprendere la loro vita e diventare persone migliori di quando sono entrate in carcere. Questo risultato è importante per loro ma anche per noi, per la società.

Il regista Michele Rho ci invita a seguire la storia senza pregiudizi. Ci fa conoscere i detenuti per quello che sono. Ci racconta che superare questo muro è stato faticoso anche per lui (ascolta qui l’intervista). Per quanto mi riguarda è riuscito nel suo intento permettendomi di fare un primo passo per avere un po’ meno paura. Il prossimo sarà probabilmente andare a cenare lì e farsi dire “Benvenuti In Galera”.

 

*Prospettive Sociali e Sanitarie, IRS; Welforum.it, ARS

Grazie a Cristina Sironi senza la quale probabilmente non mi sarei decisa ad andare a vedere il documentario, e per i suoi suggerimenti per questo post.

Il documentario è in programmazione ancora per qualche giorno al Cinema Arlecchino a Milano e inizierà poi un tour in Italia.

7 pensieri su ““Benvenuti in Galera”

  1. Alessandra Cicalini

    Il post mi ha fatto pensare al bellissimo film “Ariaferma” con Silvio Orlando e Toni Servillo. Nel documentario di cui si parla qui, però, c’è una sorta di sviluppo ideale delle buone relazioni instaurabili tra chi sta dentro e chi sta fuori dalle mura carcerarie, ossia di quelle che dovrebbero esistere tra chi – come scritto – ha scelto una strada sbagliata e chi potrebbe farlo molto più facilmente di quello che si pensa in quanto essere umano, per definizione fragile e imperfetto. Senza buonismi, le storie narrate in entrambe le opere parlano insomma di noi, di ciò che siamo stati e di ciò che possiamo diventare aprendoci agli altri anche solo un po’ di più di quanto individualmente già facciamo. Grazie per la segnalazione: se becco il film in qualche sala di provincia, cercherò di andare a vederlo!

    Rispondi
  2. Sirio

    Ho visto con estrema emozione questo documentario perchè ho bisogno di storie positive, di sperare che anche all’umanità considerata più pericolosa sia data la possibilità di esplorare nuovi orizzonti, che chi abbia violato le regole di convivenza sociale possa credere in una possibilità di cambiamento. I buoni progetti nel sociale funzionano, ma hanno bisogno di audacia, passione, coraggio, perseveranza da parte di tutti gli attori coinvolti in misura molto maggiore del denaro che serve. E quando funzionano bisogna farli conoscere, divulgarli, per aiutare tutti noi a credere che è davvero l’inclusione che fa la differenza, non l’esclusione. GRAZIE!

    Rispondi
  3. Elena Sironi

    Non ho ancora visto questo documentario, ma ne conosco altri che affrontano la questione della riabilitazione nelle carceri. Sono importanti perché inducono lo spettatore a farsi delle domande, a guardare oltre a quello che pensiamo e agli stereotipi del ” delinquente”. Insomma ci danno la possibilità di RESTARE UMANI…

    Rispondi
  4. Patrizia Taccani

    Dopo aver visto questo documentario mi è passato per la mente, e mi è rimasto a lungo il pensiero: “Non distogliere gli occhi” . Poi ho capito da dove veniva: da un incontro con alcuni piccoli gruppi di detenuti di San Vittore dove mi ero recata nella Green Week del 2019 per conoscere il lavoro che ciascun gruppo aveva svolto in alcuni spazi del giardino e in una sorta di triste terrazzo dalle alte mura. Erano riusciti a dissodare la dura terra e piantare fiori e cespugli, pulire un piccolo giardinetto ombroso, a far crescere a cascata da pallet appoggiati al muro scrostato tutte le erbe aromatiche del nostro clima. Proprio lì ho capito come, inizialmente, la cosa difficile non era tanto il battere le mani per lodarli e incoraggiarli, ma chiedere spiegazioni, parlare magari della nostra lavanda che stentava a fiorire, chiedere il nome di un’erba, guardandoli dritti negli occhi, non distogliere lo sguardo da loro.
    Anche “Benvenuti IN Galera” non solo nella bella ripresa cinematografica, ma soprattutto nella realtà di un incontro fra persone in carne ed ossa, per un momento conviviale, penso richieda sin dal primo incontro con chi accoglie (sì, perchè sono loro, i detenuti che ci accolgono nel loro ristorante) un modo universale di dichiararci a nostra volta accoglienti, curiosi, interessati a loro e alla loro impresa, senza morbosità, senza diffidenza.
    Essere lì con loro, parlarsi, non distogliere lo sguardo.

    Grazie a Francesca e Cristina!

    Rispondi
  5. Anna Claudia

    Conoscere è sempre un primo passo verso un oltre. Grazie per questo scritto e questo invito a riflettere all’accogliere e al raccogliere vita ed esperienze talvolta impensabili. Da vedere oltre che da leggere questo invito a cena.

    Rispondi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *