Un approccio multidisciplinare ai Patti d’Inclusione Sociale del Reddito di Cittadinanza

Guglielmo Propersi* 

 

Lo sappiamo: il Reddito di Cittadinanza (RDC) terminerà a fine 2023. Quello di cui forse siamo meno consapevoli è il lavoro che è stato svolto dai Servizi Sociali con i Patti d’Inclusione Sociale (PaIS).

Per lo sviluppo di un sistema di welfare la cosa più importante non è tanto la fine del RDC quanto organizzare quello che si è capito in modo da apprendere dall’esperienza. In questo senso faccio riferimento al lavoro che ho svolto come psicologo nei Servizi Sociali in equipe multidisciplinari composta da assistenti sociali ed educatori. Allo scopo di creare questo tipo di equipe, il Fondo Povertà 2019 ha dato la possibilità di potenziare i Servizi Sociali assumendo, oltre ad assistenti sociali, anche educatori e psicologi. Ricordiamo che i Servizi Sociali con i Patti d’inclusione Sociale, e i Centri per l’Impiego con i Patti per il lavoro, sono gli enti deputati al lavoro sul territorio con i beneficiari di Reddito di Cittadinanza.

Quale mandato?

Nel documento “Linee guida per la definizione dei patti per l’inclusione sociale” (MLPS, 2017), si legge che il RDC si propone di progettare e realizzare percorsi di uscita dalla povertà, anche attraverso la stipula di un Patto d’Inclusione Sociale con i Servizi Sociali. Il Patto d’Inclusione Sociale è uno degli obblighi cui è condizionata l’erogazione del RDC: un documento che il cittadino firma dopo uno o più colloqui di Analisi Preliminare con i Servizi Sociali, durante i quali si impegna a raggiungere degli obiettivi volti al miglioramento della propria situazione.

Credo che il primo passo per attuare questo mandato sia declinarlo negli obiettivi a cui i Servizi Sociali possono lavorare con i cittadini. Per farlo serve capire meglio i due temi che lo fondano: inclusione sociale e povertà (De Capite, 2023a).

La povertà è un costrutto complesso, trattato ampiamente dalla letteratura. Qui basterà ricordare le considerazioni dell’economista premio Nobel nel 1998 A. Sen, citato anche nel documento del Ministero del Lavoro. Sen intende la povertà non solo come un fatto quantificabile in numeri, ma come una categoria che riguarda le capabilities (Sen, 2000) e, potremmo dire, i vissuti con i quali ci si rapporta al contesto: servizi, lavoro, rete sociale e familiare. In questo senso il Servizio Sociale, con le equipe multidisciplinari, si presenta come l’ente più adeguato a intervenire non solo sulle condizioni materiali ma anche su quelle relazionali e psicosociali collegate alla povertà.

Prendiamo ora in considerazione l’inclusione sociale. Il termine Patto d’inclusione sociale richiama ad una collaborazione, allo stabilire un accordo tra servizio e cittadino, che è quindi parte attiva del lavoro. Per diverse ragioni però può succedere che il cittadino si veda e venga visto non come risorsa ma come utente: contenitore di bisogni da colmare con interventi standard, come se qualcuno conoscesse già la cosa migliore da fare. Tra le diverse ragioni che possono portare a questa situazione c’è sicuramente il fatto che il beneficiario RDC non chiede spontaneamente l’intervento dei Servizi Sociali ma viene convocato, spesso non sapendo di essere sottoposto all’obbligo del PaIS o in cosa consista. Accedere spontaneamente o essere convocati sono due modi diversi di instaurare un rapporto, diversità troppo spesso ignorata o derubricata a mera sfumatura procedurale. Credo invece che nella creazione del rapporto tra persona e servizio influisca moltissimo la modalità di contatto. In questo caso, essendo il Servizio Sociale a convocare la persona, la domanda d’intervento (Carli & Paniccia, 2003) è più del servizio che del cittadino, il quale incontra un ente che ha il mandato di aiutarlo senza che lui lo abbia richiesto, allo scopo di affrontare dei bisogni ancora da concordare. Si capisce bene come questo tipo di rapporto influisca in modo molto concreto sulla costruzione del PaIS.
Passando alle altre due parole che formano il PaIS: Inclusione Sociale, possiamo dire che questa non è uno stato che c’è o non c’è ma un processo non lineare che si può raggiungere dopo un percorso lungo, tortuoso, con strozzature e ingorghi, dall’esito non scontato e dai tempi incerti (De Capite, 2023b). Può cambiare nel corso del tempo e non riguarda solo condizioni materiali: avere un lavoro o una casa. D’altronde anche chi ha un ISEE elevato può non essere incluso socialmente. È spesso il caso di anziani, disabili, o persone che a seguito di un evento come il pensionamento, una malattia o la perdita del lavoro si trovano in percorsi di desocializzazione.

Mandato, limiti e risorse sono essenziali per capire quali obiettivi si possono perseguire. Nel caso del Reddito di Cittadinanza, se è chiara la sua funzione di contrasto della povertà, è molto più nebuloso il modo in cui può realizzare inclusione sociale, inserimento lavorativo e miglioramento delle condizioni di vita, risolvendo problemi strutturali del paese (De Capite, 2023a), specialmente se si considera che ciò dovrebbe avvenire tramite pochi colloqui con il Servizio Sociale. Inoltre, la ricchezza del mandato del Servizio Sociale prevede anche la valutazione e il controllo (pensiamo ai requisiti per il RDC, alla correttezza della situazione anagrafica e di cittadinanza dei beneficiari, o a situazioni maltrattanti e non tutelanti). È quindi importante che il mandato di contrastare la povertà venga integrato con quello appena ricordato, e tradotto in obiettivi che tengano conto di limiti, come il tempo, e risorse, come l’equipe multidisciplinare. L’alternativa è che gli operatori lavorino nell’implicito di poter cambiare le vite delle persone con pochi colloqui o nell’impotenza e nella frustrazione di sentire che il loro operato consiste nell’espletare pratiche burocratiche.

Metodologia: l’equipe multidisciplinare

Nel 2021 all’inizio della mia esperienza presso il Servizio Sociale, l’equipe multidisciplinare per il RDC era una novità ed era necessario capire come organizzarsi operativamente. Si tratta di un tema non scontato perché non è sufficiente che due professionisti diversi si incontrino affinché funzionino effettivamente come equipe multidisciplinare. Per esserlo, nella relazione tra i due professionisti serve una cosa terza (Carli&Paniccia, 2003): un obiettivo da condividere. La collaborazione non si può pretendere ma va costruita attraverso l’incontro con il cliente del servizio. Nel lavoro multidisciplinare, con i colleghi e le colleghe, siamo partiti dalla considerazione che spesso le persone portano al Servizio Sociale bisogni e richieste, più che problemi da sviluppare, e che come ricordato in precedenza questo riguarda la dinamica simbolico-relazionale entro cui ci si incontra e si lavora. Il mio coinvolgimento si è quindi concentrato oltre che sui casi complessi anche su tutti quelli in cui si coglieva che la domanda portata al servizio era ancora da sviluppare.

L’incontro tra due professionisti offre agli stessi un confronto di idee che spesso è l’elemento principale per lo sviluppo del lavoro con il beneficiario RDC. Si può dire che l’equipe multidisciplinare spezza una modalità di lavoro cristallizzata, dando un tempo per pensare senza attivare immediatamente interventi. In teoria infatti le valutazioni richiedono tempo ma nella pratica può succedere che valutazione e PaIS avvengano insieme. Il colloquio congiunto con psicologo e assistente sociale può essere un pretesto per ricostruire la storia delle persone dentro il servizio sociale, storia che crea le rappresentazioni reciproche e che offre molte informazioni per lavorare sul PaIS.

Esiste una formazione e un contributo per entrambi i professionisti e il loro rapporto diventa più competente, sviluppando la qualità dell’intervento anche in termini di creatività. Quando si lavora all’esplorazione del problema con più sguardi, guardando il cittadino come parte attiva e pensante e non come contenitore di deficit da colmare, la conoscenza che si produce è di tipo metodologico e può essere riutilizzata dal cittadino nei suoi contesti di vita, costituendo una caratteristica prettamente creativa dell’intervento.

Verificare l’impossibile?

La verifica è sempre il grande spauracchio degli interventi, in grado di far preoccupare anche il più esperto degli operatori, indipendentemente dalla professione. Se poi si parla di verifica in campo sociale la questione è ancora più spinosa. Cerchiamo di capirla meglio.

Ogni verifica ha bisogno di indicatori che la rendano operativa e possano essere rilevati. Iniziamo quindi con il precisare quale sistema di misurazione si può utilizzare per il Reddito di Cittadinanza. Il lavoro sociale riguarda le relazioni ed è importante che la verifica di un progetto come il PaIS si basi su indicatori che riguardano la relazione, non gli individui. Questo è un elemento di difficoltà perché dalla scuola dell’obbligo in poi si valutano individui e performance, non si verificano le relazioni e i prodotti che generano (Carli&Paniccia, 2017).

Dalla mia esperienza posso dire che il rapporto con il Servizio rappresenta l’intervento stesso con il cittadino, un lavoro che può essere verificato con modalità alternative a quelle utilizzate per unità discrete, ma non per questo meno concrete ed efficaci.

Penso in particolare all’uso di indicatori come: la presenza dei cittadini agli incontri, il modo in cui vengono costruiti gli obiettivi del PaIS, l’andamento dei colloqui di monitoraggio. Vediamoli nello specifico:

  • Il primo, spesso non considerato come tale ma di cui facciamo costantemente esperienza, è la presenza o meno del cittadino al colloquio con il servizio. Il fatto che la persona venga al primo colloquio, o torni nel caso ce ne sia uno successivo, è il primo e più chiaro indicatore di verifica del lavoro che si sta facendo insieme. In particolare verifica la dimensione “chi vuole incontrare chi”, che all’inizio del contributo ho indicato come uno dei fattori che influiscono sul lavoro.
  • Il secondo, altamente predittivo dell’andamento del progetto, è il processo con cui questo si crea, ossia il modo in cui vengono individuati gli obiettivi. Può succedere infatti che nel PaIS, più che costruire obiettivi condivisi si diano buoni consigli o si istituiscano obblighi, che passano dall’operatore al cittadino. Costruire obiettivi implica un processo di condivisione tra domanda del cittadino e competenza del servizio, che crea fiducia e affidabilità, quindi la possibilità realistica che un obiettivo si raggiunga.
  • Il terzo, è la presenza del monitoraggio del Progetto d’Inclusione sociale, poiché monitorare o meno il PaIS influisce sul suo andamento in almeno due modi. Il primo è che un colloquio, che sia di monitoraggio o di altro tipo, è sempre un intervento, e ogni intervento provoca un cambiamento, indipendentemente dal fatto che sia subito visibile. Il secondo è che monitorare significa comunicare una committenza e un interesse verso la persona e il lavoro che si fa insieme, cosa che influisce molto sull’andamento del Progetto d’Inclusione. Inoltre, nei limiti di tempo stringenti che un servizio pubblico incontra, i colloqui di monitoraggio sono una preziosa risorsa per conoscere meglio i problemi del beneficiario RD Questo è possibile se il monitoraggio non viene inteso come mero controllo ma come esplorazione, sostegno e verifica di quanto si fa insieme.

 

Bibliografia

Carli, R., & Paniccia, R.M., 2003. Analisi della domanda: Teoria e tecnica dell’intervento in psicologia clinica. Bologna: il Mulino.

Carli, R., & Paniccia R.M. (2017). Il cammino delle idee. Quaderni della Rivista di Psicologia Clinica, 1, 3-12. Retrieved from http://www.rivistadipsicologiaclinica.it/quaderni

De Capite, N., Contrasto alla povertà e oltre, welforum.it, 22 febbraio 2023

De Capite, N., I percorsi di inclusione, welforum.it, 16 maggio 2023

MLPS, 2017. Linee guida per la definizione dei Patti per l’inclusione sociale, Roma. https://lavoro.gov.it/redditodicittadinanza/Documents/Linee-guida-Patti-inclusione-sociale.pdf

Sen A., 2000. La disuguaglianza. Un riesame critico. Bologna: il Mulino

 

* Psicologo clinico, psicoanalista e ricercatore

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