DSM V e il collezionismo di patologie (2)

di Edoardo Re*

(continua dal post del 31 maggio 2013)

apa-dsm-5“Psychiatry’s Guide is out of touch with science, experts say” titola il New York Times di lunedi 6 maggio. Questo è il risultato, non c’è validità scientifica alcuna malgrado l’enorme accumulo sincretico di singole “evidenze” durato quasi 10 anni.

Il risultato è un nuovo DSM che lascia scontenti tutti, gli organicistici come gli psicologisti per non parlare degli ultimi moicani: i sociologisti. I primi sono ovviamente ipercritici perché ritengono correttamente che non si possa parlare di un’entità nosografica discreta fintanto che non se ne individua un’origine chiara (leggi markers biologici o modelli genetici). Gli altri sono scontenti perché affezionati alla romantica idea del soggetto incomparabilmente unico o della cattiveria della società capitalistica.

A chi serve allora il nuovo DSM V? Solo agli amministratori, agli assicuratori e alle case farmaceutiche con le quali molti degli estensori sono in pieno conflitto d’interesse? Distinguere e classificare l’esperienza umana è un’operazione necessaria e inevitabile? Questa è l’esigenza che ha mosso a superare il grand renfermement foucaultiano per creare il grande manicomio ottocentesco, dove finalmente i melanconici potevano starsene tranquillamente lontani dagli agitati e questi potevano smaniare tra di loro quanto volevano. A cosa tuttavia ci ha portato questa smania classificatoria?

Alla creazione novecentesca di sempre nuove diagnosi, a volte oscure, come la “depressione mascherata”, altre salomoniche, come la psicosi affettiva, che consente di essere sia maniacali che depressi, altre bizzarre come le depressioni intercritiche di depressi che non sono depressi. Qui il tentativo inchiodatorio si scontra con l’impossibilità di fissare nel tempo la diagnosi perché il paziente cambia, ecco allora che ci inventiamo la malattia senza sintomi e continuiamo a dar antidepressivi al supposto depresso per prevenire una supposta crisi con supposti medicamenti per lo più placebo e delle cui azioni sappiamo ben poco.

E se il tentativo inchiodatorio si scontra con il problema della comorbilità? Come fare con tutti quei depressi che sono anche un pochino ansiosi? Quanto e come sono ansiosi gli ossessivi? Ecco allora che aumentiamo il numero delle entità diagnostiche per includere tutte le possibili combinazioni sintomatiche e comportamentali. Cerchiamo di differenziare sempre più nel disperato tentativo di ridurre la psichiatria ai codici medici, di farne una scienza esatta e non più una praticaccia di camicie di forza e estrazioni della pietra della locura.

E’ un tentativo, un trend inevitabile, ma a che pro appunto? Abbiamo tanta vergogna della nostra sostanziale ignoranza ed impotenza? Non possiamo dichiararla e tornarne a discutere criticamente ed umilmente con i nostri pazienti? Non a caso stanno ovunque sorgendo associazioni di utenti che proprio non si pongono il problema di diagnosi e medicamenti bensì di diritto ad essere ascoltati ed accettati. Laddove la cosiddetta malattia perdura queste persone chiedono di essere aiutati a trovare il loro benessere quotidiano e il più possibile a non essere esclusi dalle relazioni, e chiedono un accompagnamento attento, benevolo, competente e speranzoso da parte di un terapeuta accessibile. Cosa nient’affatto scontata in quanto mentre si raffinano le diagnosi e si cercano i markers la gente sta sempre peggio, le risorse si riducono e i servizi implodono.

Certo che è necessario procedere con la ricerca biologica e psicologica, sull’azione ed efficacia dei farmaci così come sull’efficacia ed azione di altri trattamenti meno facilmente valutabili, ma a questo ben poco aiuta la diagnosi stile DSM. Certo che è inevitabile esplorare un campo così sconosciuto e affascinante dove ad esempio cause diverse producono la stessa malattie e uguali cause portano a condizioni patologiche anche molto differenti.

E’ entusiasmante scoprire che stare con gli altri e far del bene aumenta la produzione di endorfine come un orgasmo o che ci ammaliamo fisicamente di meno se siamo meno soli in quanto le nostre difese immunitarie aumentano. Certo è necessario cercare un punto di equilibrio tra oggettività scientifica a discrezionalità terapeutica, e cercare una base solida su cui fondare tutti i nostri ragionamenti bio-psico-sociali, ma altrettanto certo è che a questo ben poco contribuisce l’immane e lodevole sforzo degli estensori del DSM V.

Siamo infatti ancora ben lontani dalla costruzione di una epistemologia convincente della sofferenza psichica e c’è il rischio che strumenti classificatori come questo allontanino questo obiettivo anziché avvicinarlo e possano risultare utili soprattutto ad amministratori ed assicuratori, molto meno ai clinici e ai ricercatori e quasi per nulla a chi soffre. L’unica consolazione è che ora a sognar di poter distinguere la propria cacca blu non sono solo i pazienti, ma anche eminenti rappresentanti della comunità scientifica internazionale.

*Psichiatra, Segretario Nazionale WAPR Italia, redattore del mensile Prospettive Sociali e Sanitarie

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