Disabili intellettivi millennials

Perchè i ragazzi escono dalle superiori con poche life skills e inadeguate competenze lavorative di base?

di Paola Miglio*

 

Negli ultimi anni le associazioni di genitori di disabili hanno dato voce al disagio esistenziale dovuto alla mancanza di prospettive dei loro figli dopo la fine del percorso scolastico.

Eppure nel 2009 il Ministero dell’Università e della ricerca aveva pubblicato, riprendendo i contenuti della legge quadro del 2000, le “Linee guida sull’integrazione scolastica degli alunni con disabilità”, un documento molto ben articolato, che prefigurava la dimensione inclusiva della scuola, e il ruolo del dirigente scolastico per conseguirla. Secondo tale documento il dirigente è responsabile del progetto di vita di ciascun studente con disabilità inserito a scuola, finalizzato ad un “futuro possibile” per lui nella società. Un decreto legislativo del 2017 ha poi ridefinito e valorizzato il ruolo dell’insegnante di sostegno come parte integrante dei consigli di classe, e il sito del MIUR alla voce “Alunni con disabilità” affronta vari argomenti fondamentali per l’integrazione. Vi si leggono indicazioni che hanno l’obiettivo di migliorare l’inclusione nelle scuole, alcune sono generali, altre molto specifiche e chiaramente maturate dall’esperienza degli ultimi anni. Tutte sono condivisibili, le più importanti fanno riferimento alla diffusione delle buone pratiche e alla necessità di costruire reti di scuole per migliorare l’insegnamento di sostegno. Oltre a ciò il MIUR fa riferimento ai GLHI, gruppi di lavoro di istituto per l’integrazione dell’handicap, che dovrebbero affrontare questo tema con la collaborazione di tutte le componenti del mondo della scuola e del territorio, enti locali e associazioni compresi.

Non è un compito da poco. Tutti coloro che lavorano nel sostegno nelle secondarie superiori o che conoscono personalmente dei ventenni con problemi intellettivi medio-lievi hanno ben presente la triste realtà: per loro un inserimento lavorativo, anche solo parziale o limitato nel tempo per mettersi alla prova, è un miraggio. Certo esistono progetti di integrazione lavorativa che hanno successo: sono così rari e atipici che li conosciamo perché vengono additati a modello dai mass media. La realtà è che il novanta per cento di coloro che hanno goduto di sostegno scolastico e hanno avuto una neuropsichiatra del sistema sanitario nazionale per più di quindici anni vive la propria “vita dopo la scuola” in compagnia dei famigliari, più o meno angosciati per il futuro, o viene parcheggiato nei centri diurni.

Mentre in passato molti disabili intellettivi lievi trovavano mansioni manuali esecutive, sufficienti per la loro autosufficienza economica e sociale, oggi, nonostante tutte le persone con disabilità possano usufruire di tredici o più anni di scolarizzazione con il sostegno, e dell’aiuto di vari servizi e figure professionali, il cammino dell’inclusione sociale è giunto ad un punto morto.

I GLHI, che esistono sulla carta da tempo, ma che sono stati riportati alla luce dal MIUR, dovrebbero essere costituiti con tutte le componenti previste, presieduti dai dirigenti scolastici, e attivarsi per migliorare la situazione, prendendo contatto con il mondo delle imprese e delle cooperative, che in genere preferiscono pagare delle multe piuttosto che impiegare delle persone con disabilità. La realtà del sostegno e la ben nota autoreferenzialità del mondo della scuola non lascia, però, molto spazio all’ottimismo. Non esiste alcun controllo, incentivo o raccolta di dati sulle buone pratiche, sulla costituzione di reti di scuole che mettano in comune materiali e banche dati utili al sostegno, sul fatto che i PEI, Piani Educativi Individuali, siano non solo sulla carta, ma anche condivisi dai consigli di classe. Si può prevedere che il lavoro dei GLHI sarà sulla stessa falsariga. Il problema è che la qualità del sostegno erogato da una certa scuola, la stabilità del suo corpo docente e, soprattutto, la sua efficacia come effettiva integrazione sociale, non sono considerati importanti nella valutazione dei dirigenti scolastici e della loro capacità di leadership.

Questa situazione si constata visitando i siti delle scuole, che mettono in risalto i successi dei propri studenti nel mondo del lavoro o dell’università, con dettagliate statistiche, ma raramente parlano di ciò che riguarda i disabili iscritti e di quello che fanno in ASL (alternanza scuola lavoro). I pochi dati resi obbligatoriamente disponibili dalle scuole sono presenti nel PAI (Piano Annuale Inclusione), che quasi sempre è solo uno stringato documento amministrativo.

In effetti tutte le scuole superiori hanno o un referente o una funzione strumentale per il sostegno, a cui viene delegata da tutti i dirigenti scolastici l’organizzazione del sostegno, trattata così come una delle tante aree di attività della scuola, e non quella che impegna risorse molto ingenti in termini di personale, e con risvolti sociali molto importanti. Gli incarichi di questa, come di tutte funzioni strumentali, vengono approvati e poi valutati dal Collegio docenti di anno in anno, con criteri che non riguardano mai il successo formativo dei disabili intellettivi, cioè come superano l’esame di stato, che implica un orizzonte temporale di quattro o cinque anni: quasi sempre il numero di studenti con disabilità iscritti è l’unico elemento preso in considerazione. Le figure citate svolgono alcuni compiti: il lavoro di “continuità” con le scuole medie, cioè i contatti con i genitori che devono decidere a quale scuola iscrivere un figlio/a e il suo o suoi insegnanti di sostegno.

I genitori di uno studente con disabilità molte volte si affidano, per la scelta della scuola superiore, all’orientamento fatto degli insegnanti delle medie, che, statisticamente, lavorano con ciascun disabile mediamente solo poco più di un anno. Questi ultimi, per gran parte laureati in materie umanistiche, e generalmente senza esperienze nel mondo del lavoro, conoscono bene i licei, ma non le scuole professionali statali e regionali. Di conseguenza non sempre orientano i loro allievi in base alle attitudini, ma per quello che offrono, sulla carta, alcune secondarie superiori.

In questo delicato momento per la vita di una persona disabile, e quello in cui sia lui che la famiglia dovrebbero cominciare a pensare ad un progetto di vita, possono entrare in gioco nella scelta della scuola superiore elementi che nulla hanno a che fare con un’ipotesi di futuro occupazionale di un disabile.

Una volta inserito in una secondaria superiore il consiglio di classe deve fare una scelta importantissima per lui/lei: o decide di valutare lo studente/essa con gli obiettivi minimi del corso, cosa che gli permetterà di sostenere l’esame di stato con prove semplificate ad hoc, oppure decide di fare la valutazione differenziata. La prima decisione, però, è molto inconsueta nei licei e istituti industriali e commerciali, dove nel triennio i programmi delle materie curricolari tecniche sono troppo difficili perché possano essere seguiti da persone con disabilità intellettive. La valutazione differenziata, cioè non riconducibile ai programmi della classe, permette, invece, all’insegnante di sostegno molta discrezionalità nell’attribuire, i voti “differenziati” che porteranno il disabile a conseguire, alla fine del quinquennio, un certificato delle competenze.

In entrambi questi due contesti educativi può capitare che nessuno chieda direttamente allo studente con disabilità se e che cosa si immagina di fare nella vita fino a quando è arrivato al triennio delle superiori. A quel punto, a sedici anni o più, anche se avesse scoperto un interesse particolare per un lavoro pratico, per esempio nella cucina, nella meccanica o nel commercio, non può cambiare scuola per via dell’organico del personale del sostegno che vincola la sua scelta per tutto il quinquennio.

Così accade che le commissioni degli esami di stato constatino, generalmente, che i candidati con disabiltà presentino argomenti sempre lontanissimi dal mondo del lavoro, e i certificati delle competenze contengano, quindi, molti elementi che non possono essere testati oppure del tutto vaghi. Certo l’esame è comunque importante per tutti gli adolescenti come “rito di passaggio”, quindi anche per quelli con disabilità intellettiva, ma il problema è che senza life skills e senza potersi immaginare delle mansioni lavorative il loro progetto di vita è destinato ad arenarsi.

Per migliorare le cose il sostegno del triennio delle superiori dovrebbe cambiare drasticamente ed essere incentrato non solo sul lavoro in classe, ma anche su attività extrascolastiche, ad esempio:

  • contatti e successive visite ad associazioni e cooperative di servizi che operano nel quartiere di residenza del disabile, soprattutto quelle che lavorano abitualmente per le scuole e per gli enti locali per la manutenzione del verde e per la pulizia;
  • uscite per accompagnare le persone con disabilità ad uno sportello postale per aprire un conto, dopo opportuna preparazione sulla gestione del denaro;
  • uscite per recarsi al centro per l’impiego per parlare agli sportelli e proporsi per mansioni alla propria portata e, nelle città dove esistono, visite alle cooperative sociali.

Per quanto riguarda le persone con disabilità le cui famiglie lavorano in attività commerciali e/o agricole, gli insegnanti di sostegno dovrebbero valorizzare queste esperienze lavorative, facendo riflettere i propri allievi sui vantaggi e svantaggi insiti nel lavoro di tradizione familiare e, ovviamente, inserire nei propri programmi i approfondimenti  mirati ed eventualmente  visite.

Quello che succede attualmente è che gli insegnanti di sostegno rimangono vincolati al percorso proposto dalla scuola in cui operano, anche quando si rivela non adatto ad una certa persona disabile, in quanto non hanno motivazioni di nessun tipo nel prendere iniziative impegnative e che richiedono una progettazione ad hoc, ma che lo aiuterebbe a “vivere dopo la scuola”.

La realtà attuale è tale per cui i dirigenti scolastici e gli uffici scolastici di riferimento non fanno mai rilievi riguardo ai contenuti o alla mancanza di contenuti dei PEI (Piani Educativi Individuali) presentati dagli insegnanti di sostegno, che vengono compilati di routine nel didattichese degli eufemismi e delle “buone intenzioni”, che tali, purtroppo, rimangono.

 

*Insegnante di sostegno, ITIS Pininfarina di Moncalieri

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