Dal carcere al tempo del Covid: storie IN – sicurezza

di Claudia Turconi*

“Legami”: è il significativo nome del progetto, gestito dal 2005 da Spazio Aperto Servizi, che accompagna le relazioni tra figli e genitori detenuti all’interno degli istituti di pena milanesi. Cosa succede quando un genitore entra in carcere? Che cosa si muove nella mente e nei vissuti dei bambini? E il legame: si spezza o cambia?

Come altri progetti “Legami” prevede colloqui individuali di sostegno alle genitorialità con il padre o la madre detenuti, colloqui con l’altro genitore che vive all’esterno gli effetti della carcerazione su di lui e sui figli, gruppi genitori. Per primo in Italia e differentemente dagli altri progetti, ha però allestito in un luogo che appare ai bambini freddo e limitante uno spazio caldo e accogliente, che negli anni ha preso il nome di “casetta”.

È stato possibile farlo grazie al supporto lungimirante e coraggioso dell’allora direttrice della casa circondariale di Bollate, la dott.sa Castellano, e dei direttori che nelle carceri le si sono succeduti. Suona strano parlare di casa in un carcere. E una casa non lo è davvero la stanza dove i bambini possono incontrare i loro genitori detenuti. Ma come la casa è un contesto intimo, in cui invece dell’affollata ludoteca, è possibile stare da soli con mamma e papà. Neanche la polizia vi entra ma garantisce la sicurezza attraverso piccole telecamere, di cui, dopo i primi incontri grandi e piccoli si dimenticano. Nella stanza c’è un divano, una cucina, una libreria, giochi e si possono ritrovare momenti di una quotidianità ormai lontana o che d’un tratto si è persa come pranzare insieme, sdraiarsi sul divano. L’intimità che si crea permette anche di affrontare argomenti difficili dell’oggi, quelli che, come racconta  Noemi, “tieni stretti nelle guance fino a che non trovi il momento giusto per urlarli fuori”: perché mamma o papà sono in carcere? Che cosa è successo? Perché siamo tutti siamo costretti a cambiare vita? Ho bisogno di te fuori…Sono arrabbiato con te e non solo perché sei qui ma…. Un operatore del progetto supporta la famiglia nell’affrontare i complicati argomenti che fanno battere il cuore e girare vorticosamente i pensieri ed aiuta a costruire un nuovo equilibrio relazionale.

A febbraio 2020 la porta spessa, rivestita in legno, con la maniglia rossa della casetta si è chiusa. Da febbraio 2020 ad oggi infatti i bambini non hanno più avuto accesso agli istituti penitenziari, fatta eccezione per i mesi da luglio ad ottobre. I più fortunati hanno potuto incontrare i loro genitori detenuti attraverso videochiamate di 20 minuti mentre altri non li hanno visti per mesi e ne hanno sentito la voce durante le telefonate di 10 minuti. Ci sono state volte in cui mamma e papà non hanno risposto al telefono perché sono stati messi in quarantena o si sono ammalati di Covid. Il carcere l’ha comunicato talvolta qualche giorno prima ma talvolta qualche giorno dopo, lasciando un silenzio che si è fatto carico di preoccupazioni.  Il carcere è diventato così ancora più minaccioso, non solo perché quando ci entri sei controllato e non puoi decidere liberamente cosa fare e come muoverti, ma anche perché in esso ci si ammala, si sparisce e forse anche si può morire. Del resto in questi mesi di lockdown per il bambino anche la realtà esterna fuori dalla casa è diventata fonte di pericolo da cui proteggersi. Un pericolo non visibile e sconosciuto anche ai grandi e che per questo ti lascia sempre il dubbio se sei davvero al sicuro o no. Non sempre i bambini mettono in parola quanto pensano e sentono ma i loro comportamenti ci interrogano e ci fanno riflettere. Quelli che abbiamo osservato durante le videochiamate o negli incontri di persona con i genitori ci hanno fatto pensare che in questo periodo una parte delle loro energie è dedicata all’assicurarsi protezione, sentirsi al sicuro. Sono diventati infatti più attenti alle informazioni che arrivano loro dall’ambiente, che mettono insieme per formarsi un’immagine del mondo in tre modi: usando la testa oppure facendosi guidare dagli affetti o anche facendo dialogare mente ed affetti. Predicono così il futuro con ragionamenti come: “è accaduto questo nel passato e in questo ordine, per cui prevedo che accadrà nel futuro“; oppure tenendo sempre un orecchio attento alle proprie emozioni “oh…sento che qualcosa sta per accadere!!“; o ancora arricchendo le informazioni che arrivano da ciò che sentono con ragionamenti o viceversa “sento che sta per accadere qualcosa ma oggi la situazione è diversa dall’altra volta”.

Giuseppe è un bambino che si fa guidare soprattutto dagli affetti. Dopo diversi mesi che vedeva il papà dallo schermo è venuto nel carcere di San Vittore a trovarlo. Tra i giocattoli della stanza lo ha colpito subito un trenino. Ad attirarlo è stato il suo camino nero sbeccato dai tanti utilizzi. Ne è certo: è l’erogatore di un dispenser dove lavare le sue mani dopo che hanno toccato papà e altri giochi. È abituato ad usarne di simili ogni giorno, in tutti i luoghi che non sono casa. Gli hanno detto che da lì esce un liquido capace di distruggere tutti i minuscoli mostri invisibili che tentano di attaccarlo e lui ha deciso di andare spesso a farne rifornimento. Lo stare al sicuro è una priorità e lui non può proprio abbandonarsi ai giochi e alle distrazioni come faceva un tempo con papà.

Manuel è tra i figli che usano il ragionamento per mettersi al sicuro. Il suo papà è rientrato in carcere da poco, proprio adesso che c’è l’emergenza Covid e le carceri, ha sentito in tv, sono focolai di contagi e rivolte. Chissà che mondo ha dentro Manuel. Forse si è arreso: papà non ce la farà a stare fuori dalla “galera”, a cambiare vita e non farlo più, come gli ha promesso l’ultima volta e le volte precedenti. Ma lui è venuto lo stesso a trovarlo in carcere, armato dei suoi 11 anni, di tanti argomenti di cui parlare, di regole che vuole seguire per non ammalarsi. È un colloquio “ordinario” quello che fa con il padre, uno dei tanti del passato e del futuro, solo con qualche burocrazia in più per il solito Covid con cui in questo periodo lo stanno ossessionando. È tutto sotto controllo!

Ci sono anche bambini che mettono in dialogo affetti e ragionamento nel tentativo di adattarsi in modo funzionale all’emergenza Covid. Come Giulia che ha proprio il desiderio di stringere le mani della mamma, anche se sa che non si può. Ha allora infilato nella borsetta bianca, rossa e nera che porta in carcere ogni volta che viene a trovare la mamma una piccola confezione di gel per le mani che ha preso in dispensa, senza farsi vedere. Seduta sul divano rosso della casetta ha detto seria: “Mami devi assolutamente fare una cosa”. E le ha inondato le mani del liquido disinfettante. Poi ha fatto lo stesso con le sue. Ha preso con vigore le mani della madre, le ha strette e se le è avvicinate al viso. “Così siamo al sicuro!

 

*Laureata in pedagogia e in psicologia è specializzata in genitorialità, psicotraumatologia e project management.

Questo articolo è stato pubblicato sul suo sito Spazioapertoservizi.org il 21 ottobre 2020.

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