Vengo anch’io!

giano bifronte2di PierLuigi Emesti*

L’autore di questo post ci propone un’analisi, necessariamente incompleta, relativa alla vicenda della ragazza che non è andata in gita. Voi cosa ne pensate? Aspettiamo i vostri commenti e nuovi post!

“Legnano: disabile esclusa dai compagni di classe , il Ministero interviene e blocca la gita”

“Legnano, ragazzina disabile rinuncia alla gita :”Tam tam su whatsapp, nessuno la vuole in camera”

Questi i titoli di due articoli apparsi sui giornali che mi hanno fatto indignare.

Poi ho letto gli articoli e ho cercato anche di ricostruire una storia che non è stata scritta, una storia tutta da chiarire.

In sintesi, in una classe di terza media è in programma una gita in Austria e al lager di Mathausen, una gita con fini educativi, non solo un’occasione di svago.

Ma in classe c’è anche una ragazza autistica, e a quanto pare le compagne hanno delle remore a stare in camera con lei. Su whatsapp si scambiano dei messaggi a questo riguardo: “Ci dareste una responsabilità troppo grande”, si sarebbero dette nelle chat.

A questo punto i genitori della ragazza hanno saputo della cosa e hanno chiesto spiegazioni, hanno chiesto incontri che a quanto pare non ci sono stati. Si racconta in seguito,  di una controproposta da parte della scuola di fare dormire la ragazza in camera con l’insegnante di sostegno, che però non è stata accettata da parte dei genitori, ritenendola una situazione di ulteriore esclusione.

I genitori della ragazza hanno quindi deciso di ritirare la figlia dalla gita, rivolgendosi poi ad un consigliere regionale che ha fatto da gran cassa per la faccenda: usando parole altisonanti come “cyber bullismo” e “discriminazione” hanno fatto partire il blocco della gita e la conseguente ispezione del ministero.

Questo è un bell’esempio di inclusione sociale.

Certo si parla tanto di diritti delle persone disabili, di inclusione sociale, ma poi si scarica addosso a dei tredicenni l’onere della inclusione. Che poi a onor del vero sembra più una imposizione.

E’ difficile parlare di integrazione se non c’è interazione. Nel campo della disabilità come in quello religioso, culturale.

L’inclusione è un processo, come tutti noi sappiamo, non qualcosa che può essere deciso unilateralmente.

Nella frase “Ci dareste una responsabilità troppo grande”, Io leggo una richiesta di aiuto e di supporto da parte dei compagni di classe. Una richiesta che sembra essere stata inevasa.

E adesso il risultato è che i ragazzi sono sotto processo mediatico per aver avuto paura di dormire in camera con una persona.

Più passano i giorni e più vengono a galla nuove versioni, ognuno delle parti aggiunge, tralascia, minimizza o sottolinea alcuni fatti della questione. Allo scopo di avere ragione, ogni parte strumentalizza questa storia, cercando di “vendere” le proprie ragioni. Anche la comunità ebraica è entrata nella faccenda offrendo alla famiglia della ragazza di portarla a visitare Mauthausen. Offerta che la famiglia, leggiamo negli articoli, ha accettato, ma in nome di quale inclusione se la ragazza andrà a questo punto da sola e il resto della classe rimarrà a casa?

A me non pare proprio un modo di trattare la questione, non mi sembra un fulgido esempio di giornalismo e/o di comunicazione istituzionale.

Ecco alcuni degli altri articoli usciti sulla vicenda, segnalati dall’autore del post:

Legnano, alunna disabile senza gita: ispezione a scuola. Il provveditore: “Voglio vederci chiaro”

Sarà la Comunità ebraica ad accompagnare in gita la ragazza autistica discriminata

Se sei disabile, la discriminazione non si vede (ma si sente)

Legnano – Alunna accusa la compagna disabile: “Mi chiuse nell’armadio”

Segnaliamo inoltre: Scuola, ecco il vademecum per andare in gita con il compagno autistico

*Educatore professionale

4 pensieri su “Vengo anch’io!

  1. andrea pancaldi

    Ha molte ragioni l’autore di questo contributo a vedere aspetti contradditori in questa vicenda, che non è la prima che capita in tema di gite scolastiche. Ci sono gli aspetti mediatici che come sempre polarizzano tra buoni e cattivi, tra indifesi e disattenti. C’è la soluzione (“non va in gita nessuno”) che conferma l’antico adagio del rimedio peggiore del male essendoci forti probabilità che alimenti la considerazione del “..si, si, sarà anche stata discriminata, ma alla fine per causa sua e della famiglia nessuno è andato in gita”.
    C’è il contorno degli altri interventi (consiglieri, comunità religiose…) che con l’intento di rimediare o consigliare corrono il rischio di fare anche qualche danno collaterale.
    Sono ragionevoli i consigli che suggerisce lo psicologo che ha in cura la ragazzina e che si leggono in uno dei link. E soprattutto è vera la “richiesta di aiuto” dei ragazzi che si poteva leggere tra le righe dei messaggi scambiati.
    Da quando la disabilità è diventata una questione di politically correct (primi anni 2000) si sono aperte strade interessanti, ma non sempre la gestione di questa prospettiva, da questo particolare punto di vista sulla disabilità, produce esiti solo lineari.
    Due esempi.
    Dovrebbero riflettere i genitori se sia meglio rappresentarsi da soli o sforzarsi di ricondurre il dibattito più su livelli collettivi. L’associazionismo del mondo della disabilità vive una fase opaca, cala l’impegno collettivo delle famiglie, emerge un associazionsmo fatto da operatori e il protagonismo delle stesse persone disabili nelle leadership associative. Nell’autismo in particolare, patologia di fortissimo interesse mediatico perchè in essa convivono (nell’immaginario dei media…ovviamente) genio e sregolatezza, sempre più la parola è lasciata (e presa) ai/dai singoli genitori o ai/dagli esperti. Qualsiasi rassegna stampa dedicata alla disabilità oggi comprende dal 30 al 50% di articoli dedicati all’autismo. Valorizzare un lavoro associativo significa depotenziare i punti di vista troppo soggettivi e ricondurre i temi ad approcci più integrati. Insomma alla lunga, a mio parere, incide culturalmente di più.
    Dovrebbero riflettere le scuole che quando beccano un alunno “bullo” (o supposto tale) lo mandano a fare ore di volontariato con gli allievi disabili di quella scuola, e qui i media prontamente si buttano sul cyberbullismo e titolano “Bullo condannato ad assistere i disabili”, con tutto quello di culturalmente tremendamente deleterio c’è in quel “condannato”.
    Dovremmo riflettere tutti infine se affidare a waths app o facebook ragionamenti delicati e che per loro natura, giustamente, stanno sul crinale tra inclusione ed esclusione, soprattutto se coinvolgono nomi e cognomi precisi. Ha ragione da vendere Emesti a dire che l’inclusione è un processo…e che ha bisogno di “spazio” e non dei 140 caratteri di twitter.

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  2. maxmarena

    Sono d’accordo con la lettura proposta da questo articolo. La gestione di una situazione così delicata non può essere scaricata su dei ragazzini 13enni, ci vogliono attenzione, competenze e responsabilità da parte di educatori adulti.
    Poi, come scrive giustamente Pierre Emesti, tutto finisce nel tritacarne mediatico del giornalismo spazzatura e addio a qualunque inclusione possibile.
    Massimiliano Marena

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    1. Pierluigi

      grazie per aver dedicato tempo e idee alla questione.
      Che rimane ancora una storia senza fine, la cui scrittura definitiva probabilmente non leggerà nessuno, perché nel frattempo passata di moda. Sta a coloro che professionalmente sono coinvolti cercare di trarne qualcosa di buono.
      Che non rimanga solo una “worst practice”… saluti.

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  3. Patrizia Taccani

    Su whatsapp si scambiano dei messaggi a questo riguardo: “Ci dareste una responsabilità troppo grande”, si sarebbero dette nelle chat.

    Tra le tante sconcertanti informazioni (arrivate tramite la stampa) questa è quella che più mi ha sconcertato. Perché trovo che l’affermazione avesse una grande importanza e necessitasse di un interlocutore seriamente impegnato non a fornire una risposta immediata, ma a intraprendere un dialogo che è fatto – come sempre – di ascolto e di parola. Ma dov’era questo interlocutore? Forse le stesse ragazze non sapevano dove cercarlo. Certamente tutto ciò che è stato messo in atto dopo (sempre stando alle notizie dei media) ha bypassato quel momento di sosta necessario per districare i nodi di ciò che stava accadendo, andando forse anche a ripensare – adulti e ragazzi insieme – ad altri momenti, nel percorso scolastico, di difficoltà nell’ “includere” dove, però, ciascuno aveva fatto la sua parte. Facile dire oggi, per me, un’occasione sprecata. Cerco allora di trarre da tutto questo qualcosa di buono, come giustamente suggerisce Pierluigi Ernesti. Qualcosa di buono può essere per me l’impegno a fermarmi a pensare quando mi rendo conto che un bambino, un ragazzo, non mi cerca come interlocutore, pur avendo dentro di sé qualcosa che gli urge, gli preme, gli sta a cuore. Fermarmi a pensare, e domandarmi quale sia la qualità della mia presenza nella sua vita.
    Grazie.

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