Un quarto di milione: dà da pensare. Il valore socio-economico del volontariato

di Benedetta Angiari*

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Negli ultimi mesi spesso mi è capitato di sentire paragonare il numero di disoccupati a quello degli abitanti di una città oppure a quello della forza lavoro di imprese ai più conosciute. Tutte le volte che ho sentito fare questo paragone l’ho trovato molto efficace. È stato per me come rendere più tangibile questo fenomeno che non è scontato comprendere nelle sue dimensioni. Successivamente ho pensato all’effetto che poteva fare adottare la stessa logica, ma per dare maggior sostanza a fenomeni positivi. Prendiamo il volontariato in Lombardia: stando ai dati del Registro regionale del volontariato i volontari attivi nelle sole organizzazioni di volontariato sono all’incirca 240.000, più dei residenti dell’intera provincia di Lodi. E tale dato con ogni probabilità è sottostimato non tenendo conto di chi si impegna in realtà informali non ancora strutturate.

Un esercizio analogo è quello che con sempre maggior frequenza viene fatto tutte le volte che si cerca di tradurre in una dimensione economica il valore dell’attività di volontariato. Ce ne offrono alcuni esempi i contributi sul numero di maggio di Prospettive Sociali e Sanitarie in cui sono proposti tre studi volti a stimare economicamente il valore socio-economico del volontariato rispettivamente nella provincia di Bergamo, all’interno dei Patronati dell’Acli Lombardia, dei volontari attivi in una selezione di organizzazioni nel napoletano.

Sarebbe comunque riduttivo circoscrivere il contributo dei volontari alla stima del valore economico del tempo da loro dedicato gratuitamente, qualora per la realizzazione degli stessi servizi fosse stato impiegato personale retribuito. Infatti svolgere attività di volontariato genera un valore non quantificabile per chi in prima persona ci si impegna per il fatto di partecipare alla vita associativa dell’ente, per le nuove relazioni in cui si è coinvolti, per l’attività di formazione di cui spesso si beneficia, per il senso di benessere che deriva dal fare qualcosa di utile.

È aperto il dibattito tra chi ritiene sia utile far capire quel è il peso economico del volontariato nella bilancia della spesa sociale e chi invece oppone resistenza a tale operazione difendendone il valore sociale e la connotazione solidaristica.

Io non sarei dell’idea di contrapporre questi due sguardi. Penso piuttosto che uno possa aiutare a rendere più tangibile un fenomeno, quello del volontariato, che svolge una funzione sociale importante sia nel sistema del welfare dei servizi sia per chi si impegna in prima persona come volontario.

* Irs, Milano

Il tema qui affrontato viene trattato approfonditamento nel numero di maggio di Prospettive Sociali e Sanitarie, con un inserto dedicato. I tre articoli su PSS sono di: Benedetta Angiari e Daniela Mesini dell’Irs di Milano; Federica Origo dell’Università degli Studi di Bergamo; Marco Musella e Maria Santoro, dell’Università degli Studi Federico II di Napoli. Per informazioni: pss@irsonline.it

Un pensiero su “Un quarto di milione: dà da pensare. Il valore socio-economico del volontariato

  1. Paolo Pozzani

    Il proposito di stimare il valore economico del volontariato, o di altre forme di impegno sociale, non mi vede contrario, anzi. Qualcosa di analogo abbiamo auspicato io ed altri amici quando, in sede di Regione Veneto, abbiamo affrontato il tema dell’utilità sociale del servizio civile. C’è da dire che è difficile. Non solo perché richiede almeno le competenze professionali di un economista ma anche perché tali competenze devono esercitarsi su concetti ed indicatori che solo da (relativamente) poco tempo cominciano ad essere sviluppati e approfonditi. L’esercizio retorico del chiedersi “…e se queste attività fossero svolte da dipendenti pagati ecc… quanto varrebbero?” è intuitivo e comprensibile, ma poco felice e forse anche poco rispettoso (come rilevato) e un tantino controproducente (facile rovesciare in polemica, lamentando che se mi pagassero per fare quell’attività invece che lasciarla al volontario, ci sarebbero più soldi in giro e meno disoccupati…). No. Se devo confrontarmi con i risvolti economici positivi del volontariato devo entrare nel “nuovo mondo” di cui è protagonista il capitale sociale, con le relazioni di scambio disseminate fra esseri e fra istituzioni, con il surplus di fiducia che “fertilizza il territorio” e lo rende più aperto e disponibile al rischio imprenditoriale. Dimostrare che un territorio vivificato e percorso da intensi scambi di natura non profit è un territorio che vive meglio e che cresce meglio anche in termini economici: questa secondo me la scommessa che la ricerca sociale deve vincere (fra le tante).

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