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Come un fragile respiro tra gli interstizi della guerra

di Cristina Sironi*

Quante volte rimaniamo turbati dalle brutte notizie che quotidianamente ci mostrano giornali e telegiornali! Ma quanto dura il turbamento? Poi la vita va avanti, la quotidianità esige decisioni e azioni e l’indifferenza ricuce velocemente gli strappi con il filo dell’oblio … fino al prossimo video. E intanto facciamo altro.

Altro invece è leggere. Leggere la cronaca di un’azione eroica di resistenza di una piccola comunità, pacifica e mal in arnese contro un regime oppressivo e crudele, dotato di bombe e di un’efficace propaganda. Leggere questa cronaca vuol dire seguirla nelle azioni, conoscerne i protagonisti, aver paura e soffrire con loro, indignarsi di quanto viene loro fatto, ammirare il loro coraggio, la loro abnegazione, il loro senso del bene comune. Continua a leggere

Durante le vacanze, divertitevi a scrivere!

Quest’estate vogliamo immaginarvi così…

rilassati, godendovi le meritate vacanze.

Ma potreste cogliere il periodo di pausa anche per fare qualcosa che magari durante l’anno non riuscite a fare: scrivere.

Scrivere per voi, prima di tutto, che fa sempre bene, e magari anche per Scambi di Prospettive!

Aspettiamo i vostri contributi. Potete anche inviarli a pss@irsonline.it in qualunque momento.

Se invece preferite leggere, o avete bisogno di ispirazione, potete sempre sfogliare il fascicolo estivo di Prospettive Sociali e Sanitarie.

Buone vacanze a tutti! A presto!

Il tempo che resta

di Cristina Sironi *

Spesso capita di andare al cinema a vedere un film tratto da un libro (generalmente preferiamo il libro).  In questo caso  invece si tratta di un film che precede il testo, scritto successivamente. Stiamo parlando di “Tra 5 minuti in scena” del 2013 (ora anche in DVD, vedi anche post su Scambi di Prospettive) di Laura Chiossone, regista di corti e di “Mamma a carico” (Einaudi, 2015) di Gianna Coletti, attrice, ispiratrice del film, oltre che autrice del libro. Continua a leggere

Letture ad alta voce

SAMSUNGdi Patrizia Taccani*

Leggo: “Nel 2012 il 73,3% delle coppie che si sono separate avevano figli. E per i divorzi le coppie con figli erano il 66,2% del totale. Solo il 48,7% delle separazioni e il 33,1% dei divorzi riguardava coppie con un figlio minorenne.”   Non mi stupiscono le percentuali in sé, quanto l’avverbio “solo” posto a suggerirci il valore di una misura, di una quantità. Riformulo a modo mio: quasi la metà delle coppie separate e un terzo di quelle divorziate aveva figli minori.

Allora ai miei occhi compare una nutrita schiera di bambini e ragazzi che si sono trovati coinvolti in una vicenda molto difficile sia da comprendere sia da gestire a livello emotivo. Fossero anche pochi il disagio individuale andrebbe comunque intercettato. La psicologa Alba Marcoli che dedicò la sua professione a prendersi cura delle difficoltà famigliari mise in luce nei suoi testi come, con la separazione della coppia, tutti i membri affrontino un profondissimo lutto. È pur vero che ciascuno si trova a gestire questa sofferenza con risorse e strumenti ben diversi. In una certa misura lo spaesamento degli adulti, che pure c’è, ha avuto una fase “preparatoria” a livello sia razionale sia emotivo. Per il minore, soprattutto se bambino di piccola età, lo scenario della propria quotidianità cambia senza preavviso ed egli si trova ad affrontare un’esperienza dove nulla è più come prima. Questo succede anche al figlio preadolescente, a quello adolescente che hanno però capacità più mature di interlocuzione con i genitori, e non solo con loro. Lo spaesamento è lo stesso, sentimenti forti come dolore, rabbia, paura, vergogna, senso di colpa possono nascere analogamente nel bambino molto piccolo e nel ragazzo vicino alla maggiore età: diverse saranno le manifestazioni di disagio e il modo di affrontarlo. E poi, lo sappiamo, ogni famiglia costruisce la sua peculiare storia e ciascuna storia va vista nella sua unicità. Continua a leggere

Lavoro di comunità, la paziente fatica di portarsi dietro il peso del vocabolario

waves-circles-285359__180di Andrea Pancaldi*

Oggi si discute molto di “Lavoro di comunità” nei servizi sociali, complice la crisi. Escono libri, partono corsi di formazione, percorsi di consulenza.

E’ chiaro a tutti che i servizi sociali si devono addestrare ad una ottica di comunità, ma spesso, mi pare, si da come per scontato che gli interlocutori delle comunità con cui ci si rapporta, e si dovrà farlo sempre più (a volte sono chiamati associazioni, a volte terzo settore, a volte volontariato, con qualche aggiunta di parrocchie e centri sociali), siano per definizione:

  • in una ottica di comunità
  • una massa sostanzialmente omogenea mentre così non è, e l’abbondantissimo lessico che li ha definiti in questi ultimi venti anni e parimenti ha definito l’oggetto di cui si occupavano, lo sta a testimoniare.

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