L’arte del dialogare nella vita privata e professionale

di Pietro Vigorelli*

Imparare dall’esperienza. Questo è stato il motore della mia crescita personale e professionale.

La mia età mi fa classificare tra i giovani vecchi ma non mi sono ancora stancato di imparare e di evolvere. In particolare da vent’anni mi occupo del mondo Alzheimer: anziani smemorati e disorientati, familiari e operatori. Ho incontrato migliaia di persone e ogni volta ho vissuto l’incontro con sorpresa. C’era sempre qualcosa di inatteso e di diverso da cui imparare.

Il Lettore vorrà perdonarmi l’idealizzazione della mia esperienza ma posso assicurare che gli incontri della vita quotidiana sono stati i miei maestri e continuano a esserlo, sia nella vita professionale che in quella privata.

Che cos’ho imparato nella mia esperienza professionale

Sono un medico psicoterapeuta e le circostanze della vita mi hanno portato a occuparmi di anziani, poi di anziani con esiti di ictus, poi di anziani con demenza. Ho studiato a lungo, come medico e come psicoterapeuta, mi sono specializzato in medicina interna e in psichiatria ma di fronte alle persone con demenza mi sono trovato privo di strumenti adeguati. Covavo dentro di me un senso di insoddisfazione e di frustrazione, un disagio profondo perché mi rendevo conto che tanto studio non mi era sufficiente per venire incontro ai bisogni e alle richieste dei miei pazienti. Sentivo il bisogno di qualcosa di diverso.

L’obiettivo prioritario della medicina, la guarigione del paziente, era utopico. Anche il metodo della medicina, basato sulla raccolta di informazioni dal paziente o dai suoi accompagnatori era poco utile: le domande che facevo ai pazienti quando andava bene creavano imbarazzo, quando andava male irritazione e chiusura. Le risposte che ottenevo dai pazienti non erano attendibili, quelle dei familiari mi sembrava che prevaricassero il paziente, che lo mettessero in grande disagio, che lo facessero sentire escluso, proprio lui che avrebbe dovuto essere al centro dell’attenzione.

Per operare nel contesto in cui mi trovavo, il mondo Alzheimer, era necessario cambiare obiettivo e cambiare metodo. Mi sono messo alla ricerca e, passo dopo passo, ho messo a punto l’Approccio Capacitante.

Un nuovo approccio

Il cambiamento è nato da una prima osservazione: le demenze per definizione sono malattie croniche e progressive. La guarigione non è un obiettivo raggiungibile.

Poi ho fatto una seconda osservazione: ci sono persone con lo stesso grado di demenza che vivono abbastanza bene e altre che vivono in grande sofferenza. Perché mai? Evidentemente la sofferenza non è correlata solo con la malattia ma c’è il contesto che ha una grande influenza. I familiari e gli operatori, noi operatori, abbiamo una grande influenza nel favorire il benessere o il malessere dei nostri pazienti.

Il Lettore si sarà accorto che in base a queste osservazioni ho cominciato a spostare il mio obiettivo dalla guarigione al benessere e ho iniziato anche a trovare la chiave per un metodo nuovo: io operatore non sono solo un professionista che fa diagnosi  e prescrive cure, che somministra le terapie o che si cura dell’igiene o che organizza attività ludico-riabilitative. Io operatore sono, posso essere, anche un fattore di benessere. Io operatore sono una medicina se imparo a somministrarmi in modo adeguato. L’arte di somministrare se stesso nell’incontro con il paziente l’ho chiamata Approccio Capacitante.

Il nuovo obiettivo l’ho identificato nella felicità possibile in ogni stadio di malattia o, meglio, in una convivenza sufficientemente felice nel qui e ora dell’incontro con la persona di cui mi sto occupando, come medico, psicologo, assistente sociale, educatore, operatore sociosanitario…

Il nuovo metodo è basato sull’ascolto del paziente e sulla scelta delle parole da dire, quelle parole che riescono a tenere aperta una conversazione difficile e che sono più probabilmente seguite da un benessere relazionale.

Da queste premesse sono nate le tecniche capacitanti di cui ho parlato a lungo in alcuni libri (Alzheimer. Come parlare e comunicare nella vita quotidiana nonostante la malattia. Ed. FrancoAngeli) a cui rimando chi fosse interessato.

Dal mondo Alzheimer alla vita quotidiana

In 20 anni ho fatto innumerevoli corsi di formazione e alla fine sono solito chiedere ai partecipanti che cosa portano a casa di utile dal percorso fatto insieme. Le due risposte più frequenti sono:

  • ho imparato ad ascoltare.
  • quello che ho imparato mi serve anche nella vita quotidiana, con i familiari, gli amici e i colleghi.

A questo punto la mia ricerca ha preso un nuovo indirizzo e ho cominciato ad allargare il mio campo d’interesse, da quello della patologia a quello della normale vita quotidiana. Giorno dopo giorno mi sono messo a riflettere sulle esperienze della mia vita privata e sulle notizie della cronaca e ho trovato la conferma che l’Approccio Capacitante è utile anche in un contesto più ampio, quello extraprofessionale.

I dialoghi imperfetti

C’è un’osservazione semplice ma importante da cui sono partito: i dialoghi spesso sono insoddisfacenti, vanno in modo diverso da come vorrei. Non mi sento capito dall’interlocutore e mi irrita il fatto che l’altro non mi capisca e non si lasci conquistare dal mio punto di vista.

Ho provato a ragionare su come dovrebbe essere un dialogo ben riuscito, ideale, e mi sono reso conto di quanto questo atteggiamento sia inutile e fallimentare. I dialoghi, quelli reali, per lo più sono imperfetti. È con questi che devo confrontarmi. Devo partire dai dialoghi imperfetti per mettermi in cammino e costruire relazioni positive e per favorire quella convivenza sufficientemente felice col mio interlocutore che forse è diventata l’obiettivo della mia vita privata e anche di quella professionale.

Le idee forti

Nel breve spazio di un articolo posso solo elencare alcune delle idee forti che propongo alla riflessione del Lettore:

  • I dialoghi reali sono tutti imperfetti, conviene accettarli così come sono.
  • Per ben dialogare bisogna imparare a tacere e ad ascoltare.
  • I dialoghi non sono fatti solo di parole ma anche di silenzi e di attese.
  • I dialoghi non coinvolgono solo le menti ma anche le emozioni, il corpo e il fare insieme.
  • I dialoghi fecondi non cercano il consenso e l’unità ma si nutrono della molteplicità.
  • Per aprirsi al dialogo è importante riconoscere le identità molteplici dell’altro e le proprie.
  • Il dialogo è un percorso; si può conoscere da dove parte ma non dove arriva.
  • I dialoghi sono importanti non tanto per quello che si dice quanto per il fatto che gli interlocutori si rendono disponibili a dialogare.
  • Il fine più alto del dialogo non è una conoscenza reciproca ma una convivenza sufficientemente felice tra i dialoganti.
  • Il dialogo è (quasi) sempre possibile; c’è un tempo per dialogare e un altro per tacere e aspettare.

Dalla vita quotidiana al mondo Alzheimer

Le mie riflessioni sul dialogare mi hanno portato a rimbalzare continuamente dalla vita professionale a quella privata e viceversa, scoprendo ogni giorno come l’una illumini l’altra.

Per me è stata una grande soddisfazione ed è quello che auguro possa succedere anche al Lettore.

Per chi volesse approfondire l’argomento consiglio la consultazione del sito www.approcciocapacitante.it e la lettura del mio ultimo libro DIALOGHI IMPERFETTI per una comunicazione felice nella vita quotidiana e nel mondo Alzheimer (FrancoAngeli/Self-help).

Ndr: Il prossimo 20 luglio dalle 17.45 alle 19.39, Pietro Vigorelli sarà alla LIbreria Popolare di Via Tadino, Milano, per il seminario interattivo in piccolo gruppo: L’Arte del Dialogare. Per informazioni e iscrizioni: info@libreriapopolare.it

*Medico psicoterapeuta formatore, cofondatore del Gruppo Anchise, promotore dell’Approccio Capacitante.

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