di Antonella Salamone*
Un’altra mattina sul web, una mattina come tante tra appuntamenti fissi su Facebook ed e-mail da controllare; poi lo spam e i cinguettii che al momento sento solo su Twitter essendo un po’ lontana la campagna.
Mi si schiantano davanti senza chiedere il permesso. Occhi nudi che mi si attaccano addosso esaminando il mio senso di pietà, pronti a graffiare la mia generosità.
Un codice, una sequenza di lettere e numeri per definire una vita, una condizione, quella del rifugiato politico:
“Rifugiato (o, più diffusamente, rifugiato politico) è un termine giuridico che indica chi è fuggito o è stato espulso a causa di discriminazioni politiche, religiose o razziali dal proprio Paese e trova ospitalità in un Paese straniero” .
Con quegli occhi appiccicati sui pensieri, mi alzo e vado in bagno.
Eppure io li conosco quegli occhi, ma dove li ho visti, dove li ho…
Li vedo, fissi e liquidi, allo specchio: quegli occhi sono i miei, cittadina italiana pronta a fuggire a causa di discriminazioni sul lavoro, in cerca di ospitalità in un Paese straniero che restituisca dignità.
Quale differenza c’è, mi chiedo, tra me e lui?
Nessun termine giuridico è ancora stato coniato.
“Il rifugiato lavorativo”, lo immaginate?
Ah, già, adesso si parla di nuovi migranti. Nuove diaspore, scie di delusione a passo lento.
Ho visto tanta gente partire, andare. Stare meglio e riprendersi la rivincita da uno Stato che non lo ha riconosciuto figlio. Ho visto gente “crescere”, avere l’opportunità di farlo e rilassare per qualche momento i muscoli tesi sull’attesa.
Sì, perché cercare lavoro richiede pazienza, determinazione, saggezza, forza d’animo, volontà, ottimismo, creatività. Diventi abitante degli arrivederci e arrotoli con cura, affinchè ci possano stare tutte, le tue radici per metterle in valigia.
“Il lavoro mobilita l’uomo”, ma tu fai di tutto per restare e sei contento, ansioso di dare il meglio quando finalmente arriva quella telefonata per un colloquio.
Ti prepari, studi e senti che l’entusiasmo della tua voglia di lavorare ricomincia a circolare per tutto il corpo fino al viso, spalmandosi sulla bocca e su quegli occhi.
Vai all’appuntamento, ti siedi e aspetti. Davanti a te l’addetta alle risorse umane:
“Dunque, mi dica, lei ha fede dottoressa?”
“Quanti anni ha?”
“Ha una relazione sentimentale?”
“Come va il suo rapporto?”
“Vuole dei figli?”.
I miei muscoli si contraggono, fotogrammi di esperienze, di studio, di sacrificio perdono colore. L’entusiasmo scorre lungo le gambe e lo lascio lì, su quella sedia ad asciugare.
“Mi dispiace il suo profilo non è perfettamente in linea con la nostra posizione, dottoressa”.
Non è perfettamente in linea voler crescere?
Non è perfettamente in linea con la discriminazione tutto ciò?
Il classico “Come si vede fra cinque anni?” non basta più, sarebbe più azzeccato chiedere “Dove si vede fra cinque anni?”, e se me lo avessero chiesto, quel giorno,
io avrei risposto:
“Lontano, al rifugio, con ciò che mi sono presa di diritto: una famiglia e un lavoro”.
Dunque:
*Web marketing specialist in stage presso Irs, Istituto per la ricerca sociale di Milano.