Diventare madre in un paese straniero

di Giorgio Zoccatelli* e Priscilla Zemella**

 

La nascita di un bambino è un evento socioculturale oltre che biologico: infatti da una parte è fortemente regolamentato dal gruppo sociale e dalla cultura di appartenenza, dall’altra è rivelatore delle credenze e della simbologia su cui esso si fonda. La vita di ogni individuo è scandita da un susseguirsi di tappe che segnano diversi status e ruoli all’interno della società di appartenenza. In particolare, in relazione alla donna, Van Gennep individua nella gravidanza e nel parto due riti considerati momenti di transizione allo status di madre, passaggio fondamentale non solo a livello individuale, ma anche comunitario (1).

Questo articolo ha il fine di prendere in considerazione il tema della maternità in altre culture diverse dalla nostra, in particolare il diventare madre da parte di donne immigrate che in Italia hanno scarsa o assente rete sociale o familiare di supporto: quelle donne che hanno scommesso tutto sul progetto migratorio, ma che trovano difficoltà di integrazione nella nostra realtà per solitudine, barriere linguistiche o culturali, procedure amministrative farraginose, ma anche per una non adeguata preparazione da parte di Servizi e professionisti del sociosanitario. È un tema che richiama anche questioni etiche e deontologiche, nonché interroga le policy e le Istituzioni coinvolte su come migliorare prassi e Servizi in situazioni di complessità.

Cenni sull’immigrazione in Italia

La storia dell’immigrazione femminile nel nostro Paese inizia nel corso degli anni ’60 dall’Eritrea, dalla Somalia e dalle Filippine. È un fenomeno che inizialmente rimane nascosto poiché la maggior parte delle donne si colloca all’interno del lavoro domestico, rimanendo in situazione di segregazione sociale che non permetteva loro di entrare in contatto con persone, usi e costumi locali. Successivamente le donne cominciarono ad immigrare attirate dalla crescente domanda di domestiche e badanti. Nel corso degli anni ’90 si ha poi un boom di sex worker(2), provenienti principalmente dai Paesi dell’Est Europa e dalla Nigeria. Negli ultimi anni la protezione internazionale ha costituito un altro motivo di migrazione permettendo anche alle donne di fuggire da regimi dove non vengono garantiti diritti fondamentali delle persone.

Le donne sono, in genere, più regolari dal punto di vista giuridico rispetto agli uomini perché colgono di più le opportunità che arrivano dal mercato del lavoro. La differenza sostanziale tra i percorsi migratori delle donne rispetto a quelli maschili è che le donne partono con una maggiore consapevolezza sul perché lo fanno e sul dove andranno; le migranti dimostrano così la loro capacità di intraprendere autonomamente progetti di vita complessi e impegnativi.

Solitudine e maternità in un Paese che non è il proprio

Tra le donne immigrate è diffusa la tendenza a ritardare le indagini sulla possibile gravidanza per paura di dover affrontare questa situazione e tutto ciò che comporta; naturalmente ciò significa solo spostare temporalmente un problema. Queste donne sono divise tra la voglia di avere un figlio e la consapevolezza di avere pochi supporti adeguati a crescerlo. Vi è poi una frustrante discrepanza tra la maternità che queste donne avrebbero vissuto nel loro Paese e quella che vivono in Italia, con diverse abitudini, attribuzione di significato, aiuti familiari. La conseguenza è una sensazione di solitudine che costituisce il problema principale denunciato da queste madri, soprattutto per coloro che provengono da un ambiente tradizionale, che si trovano ora in una realtà nuova e senza punti di riferimento. A mancare a queste donne è soprattutto la rete delle relazioni femminili del proprio paese che, attraverso varie forme di aiuto, avrebbe permesso loro di vivere il periodo di gestazione con più serenità. Ad esempio, quando il bambino viene alla luce, questa rete mostra alla madre i primi gesti da fare, svolge una sorta di “iniziazione al ruolo di madre”(3): è una presa in carico totale da parte delle altre donne della famiglia che si occupano anche di cucinare, pulire, e di eventuali altri figli; in questo modo la neomamma può stabile con il bambino una relazione solida.

Spesso la mancanza della famiglia di origine rende la donna, almeno in un primo momento, soggetta alla tutela del marito o compagno, se presente, il quale non sempre costituisce un supporto per la donna stessa. Nei Paesi dove la separazione tra il mondo maschile e femminile è molto rigida, il pudore è forte: parlare del proprio corpo, dei dolori e delle paure ad un uomo è considerato un tabù. L’invito al marito ad assistere al parto è pure una sorpresa per alcuni migranti (soprattutto se di fede musulmana), trattandosi, dal loro punto di vista, al limite della pornografia.

Un altro tema è relativo a tutti quegli aspetti culturali e identitari legati alla tradizione del paese di origine. Ad esempio, in ospedale si utilizzano lenzuola e indumenti bianchi per facilità di lavaggio e maggiore igiene, quando in Cina e in alcuni paesi islamici il bianco è segno di lutto, associato al sudario e al pallore della morte; in questo caso i simboli di purezza e salubrità dell’ospedale e in generale della cultura occidentale, lasciano poca attenzione alle differenze culturali.

È vero che non tutte le donne reagiscono allo stesso modo, tuttavia il senso di solitudine provato da chi si trova a vivere questa situazione può essere forte, soprattutto al ritorno a casa dopo il parto laddove la donna si trovi per la prima volta con il bambino, sola (o con un compagno poco supportivo), e senza la propria rete femminile.

La fruizione dei Servizi

La malattia costringe tutti, prima o poi, ad avvicinarsi ai Servizi sociosanitari; è un momento che però il migrante cerca di rimandare il più possibile perché fruire dei Servizi comporta il superamento di alcune difficoltà: organizzazione, tempo, negoziazione con il datore di lavoro in caso di impiego, il tutto aggravato da eventuali barriere linguistiche e culturali. Sono difficoltà che il migrante non sempre riesce a gestire in tempi brevi.

Fra le diverse variabili che determinano l’accesso al sistema dei Servizi, è possibile individuare l’appartenenza di genere: le donne vi ricorrono di più rispetto agli uomini perché è culturalmente più accettato che il ruolo di malato sia assunto da una donna. La cosa è in realtà più complessa perché nel caso della gravidanza, la donna straniera non contempla culturalmente la medicalizzazione dell’evento, ragion per cui spesso i primi controlli di routine vengono eseguiti a gravidanza inoltrata; inoltre, la donna non regolare dal punto di vista amministrativo, non sempre conosce l’esistenza del permesso di soggiorno per cure mediche, con relativa possibilità di usufruire di cure gratuite. Ancora, le donne potrebbero accedere ad alcuni Servizi come i Consultori o altri ambulatori territoriali, ma non lo fanno per paura di possibili conseguenze sul piano giuridico. Per questi motivi l’immigrato in difficoltà si rivolge in prima istanza agli amici, ai connazionali, ai datori di lavoro (4).

La burocratizzazione, le procedure e l’organizzazione di alcuni Servizi rendono difficile la concreta possibilità di personalizzare gli interventi. L’operatore, dal canto suo, deve tenere presente le difficoltà che vivono gli immigrati. Ad esempio, l’arrivo in ritardo della persona immigrata al Servizio può essere letto come disinteresse, quando invece è da considerare che lo stesso può avere una diversa percezione del tempo; vi è poi la difficoltà di non riuscire ad esprimere i propri bisogni o la paura di mostrare le proprie debolezze.

I problemi comunicativi che si manifestano nella relazione tra l’utente straniero e l’operatore possono influenzare alcune scelte da parte delle donne. Un primo esempio possono essere i parti cesarei effettuati sulle donne di altri paesi: il taglio cesareo costituisce parte della nostra cultura della programmazione, del controllo razionale del tempo e degli eventi naturali; in alcune situazioni, nel caso delle donne immigrate si può parlare di cesarizzazione da gap comunicativo(5) causata da difficoltà di comprensione non solo legate alla lingua, ma anche a modifiche del corpo e dei genitali femminili causati dall’infibulazione nel paese di origine; tale soluzione spesso non incontra opposizioni da parte delle migranti che si affidano ai medici perché in una posizione percepita come di debolezza o di inferiorità sociale sulla base di rappresentazioni culturali e simboliche. Di fatto accade che il cesareo sia vissuto da queste donne come una vergogna, come se non avessero davvero partorito perché l’evento non è avvenuto naturalmente. Un secondo esempio può essere l’allattamento, così determinante per lo sviluppo dell’attaccamento mamma-bambino; in questo caso si intrecciano la mentalità occidentale, con l’assenza di figure di riferimento della mamma: per le donne con rete fragile, si può verificare la diminuzione dell’allattamento al seno come risultato della mancanza dei consigli materni (in particolare se primipare), con il suggerimento dell’uso del biberon che rappresenta una soluzione più semplice, ma tipica dei contesti organizzati.

Infine, l’organizzazione dei Servizi occidentali settorializza e fraziona l’esperienza della persona (consultori, ospedali, pediatra, distretto), quando, di norma nei paesi di origine è la famiglia ad offrire continuità o a rappresentare una forma di welfare.

 “Un albero senza rami”

La maternità di donne di altri paesi immigrate in Italia è proporzionalmente più elevata di quella autoctona, contribuendo così all’aumento della popolazione generale anche alla luce della diminuzione della natalità italiana. Le madri straniere che vivono in Italia sono circa 1 milione e 500mila (6). Il 20% dei parti totali in Italia è di origine straniera e, di queste madri, sette su dieci sono originarie di Paesi al di fuori dell’Unione Europea.

La nascita è ormai considerata un evento bio-sociale, cioè un evento biologico che da una parte è fortemente regolamentato dal gruppo sociale, dall’altra è rivelatore delle credenze e della simbologia su cui esso si fonda (7). Decidere di non fare figli o non averne la possibilità biologica, potrebbe portare all’esclusione della donna da parte della famiglia (in particolare da quella del marito), ma anche da tutto il gruppo sociale di appartenenza: l’aspettativa sociale e la rappresentazione culturale africana ad esempio è che avere un figlio sia naturale, mentre la sterilità è vista come un dramma individuale e collettivo, che tocca la vita della donna come pure quella di tutta la sua famiglia; è vissuta come incompletezza, incompiutezza, fallimento, e in alcuni casi come vittima di spiriti maligni o maledizioni. In tal senso proverbi tradizionali africani associano la donna a un “albero senza rami” o “ramo secco”.

Il lavoro socioeducativo con una madre proveniente da un altro paese

Lo straniero è un utente particolare perché il suo modello culturale è un altro e connota la specificità del suo bisogno. Chi lavora con queste donne deve integrare le proprie competenze con ulteriore formazione (8). In tal modo potrà riconoscere l’altro sia a livello emotivo (empatia), sia a livello giuridico (individuo portatore di diritti), che come una persona con background diverso dal proprio (solidarietà e valore). Mettersi in relazione con una donna immigrata implica un impegno importante per fisiologiche differenze: lingua, vissuto, bagaglio culturale diversi. In tutto ciò il primo contatto con i Servizi è essenziale perché crea l’immagine che la donna avrà di esso, che influirà anche sulla presa in carico successiva non solo per rispondere a un bisogno già acclarato, ma anche in termini di cura e prevenzione. La mancanza di adeguata formazione degli operatori, insieme alla tendenza degli immigrati a rivolgersi ai Servizi solo per motivi urgenti, potrebbe far perdere la logica di “progetto”, non permettendo ai Servizi di svolgere la loro funzione (9) che non è solo rincorrere o tamponare, ma anche promuovere, sviluppare, prevenire.

Oltre alla lingua, altre difficoltà possono essere la non conoscenza dei Servizi, la mancanza di forme di pubblicizzazione o l’assenza di una rete a cui poter affidare i figli per recarsi al Servizio stesso; altre problematiche possono essere rappresentate poi dalla dipendenza nei confronti del marito, se presente, in relazione alla sua possibile diffidenza di origine culturale sulla possibilità di trovare un medico uomo.

Sarà necessario, infine, che i Servizi siano raggiungibili con i mezzi pubblici, e pubblicizzati anche in luoghi frequentati da utenza proveniente da altri paesi, usando quindi anche altre lingue, creando insomma situazioni di contatto, informazione e relazione tra comunità e persone.

Conclusioni

La nascita, la morte e la malattia sono eventi di una portata simbolica ed emotiva così forte che ogni gruppo sociale deve essere in grado di controllarli e ordinarli secondo una logica coerente (10).

La condizione della donna immigrata con assenza, fragilità o scarsa rete sociale e familiare di supporto, è marginalizzata e marginalizzante perché il più delle volte non dispone di strumenti e conoscenze adeguate a fruire risorse pensate come universali, ma che nei loro meccanismi di funzionamento risultano essere selettive o residuali.

Un nuovo welfare deve essere pensato e organizzato sulla base del carattere multiculturale che la società sta sviluppando. I professionisti del sociosanitario devono quindi essere in grado di capire quando non farsi ostacolare da “gabbie burocratiche” rendendo le pratiche più flessibili e accessibili; devono avere atteggiamenti di empatia, apertura, rispetto e interesse per culture altre. È un obiettivo raggiungibile solo grazie a un’ulteriore formazione interdisciplinare e a risorse aggiuntive. A tal riguardo, ad esempio, la figura del mediatore linguistico-culturale è da considerare un investimento, non un costo.

Centrale è la competenza transculturale, intesa come capacità di attraversare i confini delle singole culture a partire dall’attribuzione di valore nell’altro, soprattutto per le donne che, trovandosi in condizioni di fragilità, vivono un evento così delicato e carico di ansia come il parto.

 

Note

  1. Van Gennep A., “I riti di passaggio”, Bollati Boringhieri, Torino, 2002
  2. “Migrazioni al femminile”, Pedagogika.it, 2018.
  3. Ibidem
  4. Ibidem
  5. Ibidem
  6. Polchi V., “Migrazioni, madri straniere: una su sette ha i figli lontani affidati alla famiglia”,Repubblica.it, 2018.
  7. Colombo G., Pizzini F., Regalia A., “Mettere al mondo. La produzione sociale del parto”, F. Angeli, Milano, 1987
  8. Ibidem
  9. Favaro G., Tognetti Bordogna M., Donne dal mondo. Strategie migratorie al femminile, Guerrini e Ass., Milano, 1997
  10. Augè M., Perché viviamo?, Meltemi Editore, Milano, 2004

 

*Assistente sociale ospedaliero e docente a contratto presso l’Università di Verona;  **Assistente sociale (Padova).

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