Cercasi babysitter… per mamma e papà

di Zita Salmastri*

Non avendo figli, posso solo immaginare quanto sia delicato il momento in cui i genitori sono costretti, per motivi di lavoro o di altra natura, ad affidarli a una babysitter.

Di sicuro si procederà a una selezione il più rigorosa possibile, allo scopo di individuare la persona migliore per il proprio bambino. È probabile che si commettano degli errori, o che per qualche ragione non ci si senta soddisfatti della scelta effettuata. Oppure potrebbe semplicemente capitare che, a un certo punto, la preziosa giovane donna alla quale si è delegato il compito di cambiare i pannolini, preparare la pappa e inventare storie e giochi sempre nuovi per intrattenere l’adorato pupo nelle lunghe ore di lontananza forzata, molli quest’ultimo al suo destino magari perché ha deciso di fare il giro del mondo.

Eventi del genere, ne sono sicura, scatenano il panico in famiglia: è complicato e faticoso per motivi pratici e psicologici mettersi in cerca di una persona nuova, anche questa, come la precedente, da scegliere con il massimo scrupolo prima di essere certi ancora una volta di poterle affidare il proprio pargolo.

Eppure, vi garantisco, c’è di peggio. A farmi trarre una simile conclusione, è stato l’istruttivo approfondimento che il numero 3 – Estate 2021 di Prospettive Sociali e Sanitarie, ha dedicato al pianeta “badanti”, le babysitter dei nostri anziani, le mamme e i papà di molte e molti cinquantenni alla ricerca costante della formula magica che permetta loro di tenere insieme figli, lavoro, mantenimento di una decente forma fisica e altre aspirazioni più e meno appropriate all’età anagrafica raggiunta.

In merito, stavolta, ho una lunga e, come si dice, comprovata, esperienza diretta.

Anche in questo caso la scelta della giusta assistente familiare è delicata. Delicatissima, a dirla tutta.

Difficile, emotivamente parlando, già il primo approccio. Parlo di quell’istante in cui il figlio più che adulto prende consapevolezza della fragilità del proprio genitore. Nel mio caso, si trattava di mia madre, purtroppo scomparsa troppo presto. L’inatteso aggravarsi della sua malattia ci aveva costretti a trovare il più velocemente possibile una persona che vegliasse su di lei la notte. Non dimenticherò mai la prima volta in cui la signora albanese, di lunga e comprovata esperienza pure lei, è entrata in casa nostra, raccontandoci del famoso viaggio in nave con il quale, a inizio anni Novanta, era arrivata in Italia, come molti suoi connazionali.

Il rispetto per lei era scattato in automatico: eccola qua, davanti a noi, famiglia stanca e preoccupata, una delle preziose badanti straniere dedite anima e corpo a un lavoro che gli italiani non vogliono più fare, approdata come tante nel nostro Paese in cerca di un futuro migliore. Futuro che, senz’altro a prezzo di grossi sacrifici, la signora era riuscita a costruirsi, mattone dopo mattone (ci aveva riferito che con i risparmi accumulati aveva finalmente coronato il sogno di metter su una lussuosa villetta nella propria terra natale, dove tornava a trascorrere le vacanze).

Tutto bene, quindi. Mica tanto.

Del resto, ogni lavoro ha un prezzo. Quello della presenza notturna in ospedale, per esempio, va pagato molto di più rispetto al corrispettivo che si eroga all’assistente che dorme a casa. In maniera analoga, il compenso per una badante h24 differisce da quello che si eroga a chi non resta a dormire a casa dell’anziano, così come il diritto ai riposi viene calcolato in ore e giorni (la domenica, in genere, è sacra: se non viene goduta, andrà pagata a parte).

Insomma, la famiglia alle prese con la disorientante novità della malattia, entra in un mondo del tutto nuovo, che può riservare sorprese non sempre piacevoli.

La signora in questione, ad esempio, si è presentata il giorno del funerale di nostra madre per chiederci gli extra delle notti passate con lei in ospedale. Da un punto di vista pratico, lo so, aveva ragione lei, ma è proprio questo il punto: un genitore fragile non è, non dovrebbe essere almeno, oggetto di una mera transazione economica, per giunta irregolare.

E invece, in molti casi, disperati e inesperti come sono molti familiari in quei momenti – come sicuramente eravamo noi – per reclutare il primo aiuto disponibile, si finisce per affidarsi al passaparola e “al nero”.

Con nostro padre, per fortuna, abbiamo avuto (relativamente) più tempo per individuare innanzitutto  il patronato presso il quale farsi dare tutte le informazioni su mansioni, tariffe e contratti di lavoro, suddivisi sulla base del tipo di servizio fornito. Ciononostante, le difficoltà nella selezione sono rimaste. Come mai? Me lo chiedo praticamente tutti i giorni, ma al momento non ho ancora trovato risposta, anche se il già citato fascicolo della rivista qualche indizio me l’ha fornito.

In primo luogo, per quanto meglio organizzate di un tempo, le strutture che forniscono le potenziali assistenti familiari, almeno nella mia esperienza, tendono a “rivendersi” tutte le figure disponibili in quel dato periodo, indipendentemente dalle condizioni più o meno gravi in cui versa l’anziano destinatario del loro servizio.

Sta insomma al familiare capire il prima possibile se la persona segnalata dal patronato o chi per esso sia adatta al ruolo, anche alla luce delle peculiarità caratteriali del proprio genitore bisognoso di cura. La compatibilità tra i due soggetti protagonisti di questo genere di convivenza, in altre parole, è fondamentale. In sua assenza, si rischia di assistere a un avvicendarsi di figure assistenziali piuttosto faticoso, per l’anziano innanzitutto, ma anche per le figure che dovrebbero prestargli assistenza. E tuttavia, se è vero che la personalità dell’assistito ha il suo peso, a mio avviso la rottura della relazione (e del rapporto di lavoro) spesso è provocata dalle persone impiegate nell’attività di cura proprio perché prive di una formazione specifica, che magari consentirebbe loro anche di sviluppare una migliore capacità di interazione con gli anziani e i loro familiari.

Certo, in fase di scelta, è sempre lecito quanto meno non considerare i profili che si ritengono inadeguati alle proprie esigenze (mi vengono in mente alcuni colloqui davanti a caffè e altre bevande di benvenuto che francamente sarebbe stato meglio non cominciare nemmeno).

Purtroppo, però, più facilmente si finisce per fare come le tre scimmiette che non vedono, non sentono e non parlano, ossia scegliere il  cosiddetto male minore, incrociando le dita affinché vada tutto per il meglio. Più o meno in una condizione del genere ci troviamo anche adesso, dopo una fase critica affrontata all’incirca nello stesso periodo, due anni fa.

Ai tempi nostro padre era più in forze, per fortuna sua e nostra. Diversamente, non so come avremmo fatto a superare l’abbandono imprevisto quanto improvvido del proprio posto di lavoro da parte del suo assistente (l’unico maschio nella schiera transitata dalla casa di famiglia).

Stessa cosa, con modalità forse ancora più scioccanti, è successa pure lo scorso anno, ma mi consola – molto parzialmente – accorgermi che nostro padre non ricorda più né il primo né il secondo brusco addio.

Per lui ora esiste solo “la signora” attuale, di origine polacca, una prolungata esperienza di assistenza agli anziani alle spalle, un buon italiano imparato sul campo e molta malinconia nel cuore, accumulata in anni e anni di lontananza da casa.

Umanamente, posso assicurarlo, comprendo lo stato d’animo della “signora” che alloggia – chissà per quanto tempo ancora – da papà. A stringersi, però, non c’è solo il suo cuore, ma anche quello di mia sorella, il mio, e, credo, anche quello di nostro padre, tutte le volte che lo andiamo a trovare e poi siamo costrette a ripartire, per tornare alle nostre vite condotte in altre città.

Quale sollievo sarebbe, per noi figlie, saperlo in mani più solide. Quale sollievo sarebbe anche per lui, che ama stare in compagnia, essere accudito e ascoltato più o meno nello stesso modo in cui lo facciamo noi.

A pensarci bene, credo che piaccia a tutti essere coccolati e vezzeggiati come bebè. Da adulti, certo,  non succede praticamente più, ma in ogni caso, la capacità di interagire con empatia e insieme autorevolezza dovrebbe essere connaturata al servizio stesso di assistenza familiare regolarmente inquadrato e retribuito.

Poi certo, lo so benissimo, non esiste figura, per quanto professionalmente impeccabile, in grado di placare fino in fondo il senso di colpa dei figli costretti a delegare ad altri la cura dell’anziano genitore.

Rimane però il mistero di come anni e anni di servizi assistenziali pubblici e privati, ormai strutturati e diffusi in tutta Italia non riescano, se non in casi eccezionali, a rispondere alle reali esigenze delle famiglie, da una parte, e a quelle di chi, giustamente, cerca di rifarsi una vita, dall’altra. Come uscirne?

Soluzioni semplici per problemi così complessi, naturalmente, non esistono. Sicuramente parlarne e scriverne fa bene (per lo meno ci si sfoga un po’).

Più utile per la collettività sarebbe tuttavia riuscire ad andare oltre il caso personale, creando ad esempio una sorta di “trip advisor” dell’assistenza familiare, che permetta di assegnare il maggior numero di stelline agli sportelli badanti in grado di fornire le risposte più soddisfacenti, ossia le più professionali e umane possibili.

Qualcosa del genere, chissà, da qualche parte magari già esiste. Se così fosse, sarebbe un buon segno, anche per noi anziani del domani, che avremo bisogno quanto gli attuali di cure e coccole, pur se saremo privi, in molti casi, delle loro buone pensioni.

Fare rete tra generazioni, in conclusione, credo sia l’unica via per una società che davvero abbia a cuore il benessere di tutti, dalla culla al letto con le sponde. Utopia o realtà?

La seconda, speriamo. Speriamo davvero.

 

*blogger – daddysitterorg.wordpress.com

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