di Augusta Foni*
Nel settembre scorso sono andata al convegno “La persona con decadimento cognitivo tra scienza, etica e diritti” promosso dal Comune di Milano in collaborazione con l’Osservatorio Alzheimer Milano per la giornata Mondiale Alzheimer. Non ho familiari in questa condizione, non lavoro in questo campo né ho ruoli di esperto o decisore di politiche sociali. Ci sono andata perché in una società in cui si vive molto più a lungo di prima le demenze segnano un’emergenza sociale ed è evidente che i singoli si orientano meglio nella vita quotidiana se trovano la possibilità di scambi più allargati con altri. E poi, concretamente, perché ho superato i 70 anni e sento per i processi di invecchiamento un interesse che prima non avevo. Penso anche al mio futuro e mi chiedo che cosa posso fare per essere informata e capace di esercitare un ruolo attivo, visto che con il passare del tempo ho conquistato la convinzione che ad invecchiare si impara.
Il tutto non è facilissimo. È vero che ora si parla degli anziani in modo ben diverso rispetto al passato, ma quando si è in salute è sempre difficile rapportarsi con l’ipotesi di un peggioramento delle proprie condizioni. É la stessa ombra che ho attraversato nella pratica preventiva degli screening, anche quelli più diffusi e consolidati, che chiedono comunque a ciascuno di rapportarsi con l’ipotesi di un male possibile, o con la scoperta di un male che c’è già ma non si vede, una sorta di evocazione o addirittura un’anticipazione di qualcosa che spaventa.
Ho preso la decisione di andare a sentire per la prima volta negli anni scorsi una conferenza sull’Alzheimer con un po’ di incertezza, ma a settembre ho guardato il dépliant del convegno con un atteggiamento diverso, di interesse partecipe. La cosa mi ha sorpreso e interrogato.
Una scorsa veloce del materiale informativo che ho conservato in questi anni mi ha dato qualche spiegazione. Sono cambiate tante cose. La parola Alzheimer si abbina ancora a “malattia”, “geriatria”, “fragilità”, ma con il passare del tempo è sempre più riferita alle persone concrete e alle loro relazioni familiari e sociali, al prendersi cura, al sostegno al caregiver, alla comunità amica, alla vita quotidiana, all’Alzheimer Cafè, allo sportello, al camminare, allo sport. E contemporaneamente si sviluppano elaborazioni più ampie che riguardano la ricerca scientifica, l’etica e i diritti. E’ una generatività che mette in circolo, supera l’impaccio dell’impegno filantropico e crea una nuova cultura. Tra l’altro, contribuisce ad ampliare in modo significativo l’ambito della medicina che non assegna il primato alla strumentazione tecnologica perché ha la consapevolezza del valore delle risorse umane.
Immagino che quanti sono coinvolti personalmente o professionalmente in questi problemi sentano tutta la pesantezza di conquiste lente e mai definitive. In realtà, da esterna, apprezzo i risultati conseguiti e le prospettive di nuovi sviluppi, sicuramente con molto meno dolore, ma con la convinzione che anche uno sguardo dall’esterno possa essere, a suo modo, un contributo. I momenti di divulgazione e riflessione cui ho partecipato mi hanno aperto delle finestre che altrimenti non avrei. Ma non è solo un nuovo orizzonte culturale. Quando l’Alzheimer entra pesantemente nella vita familiare sembra un vortice buio che inghiotte tutto, ma ci sono nella nostra società tante persone, operatori professionali o no, che sono riuscite a non farsi inghiottire e ad avviare dei percorsi di conoscenza e di intervento. Illuminano paesaggi finora ignoti e creano nuove reti di socialità. Mi danno coraggio perché offrono punti di riferimento in passaggi difficili. Non è poco di questi tempi.
Il convegno di Milano ha dato conferme alle mie aspettative, con una gamma di informazioni e riflessioni che a me, cittadina, anziana, abitante nella Milano di questo momento storico, hanno fornito un quadro complesso di quanto si sta muovendo attorno all’Alzheimer, persone, professionalità, istituzioni. Non ho sicuramente colto tutti i i contenuti del convegno, ma l’alone delle emozioni e dei pensieri è rimasto a lungo. Mi ha colpito particolarmente, tra i tanti, il contributo di Amedeo Santosuosso sui problemi relativi alla volontà del paziente e alla sua proiezione nel tempo. Ho capito alcuni snodi importanti che sono stati messi in evidenza con chiarezza e resi accessibili anche a un non specialista pur essendo molto complessi. Per quanti altri temi c’è bisogno di questa traduzione, di questa capacità di buona divulgazione!? E quante altre persone come me potrebbero essere coinvolte? Sono state molto interessanti le triangolazioni tratteggiate tra le figure professionali che devono orientarsi nell’azione, la normativa esistente, e la giurisprudenza, cioè la memoria di quello che altri operatori sono riusciti a capire e a decidere in situazioni anche drammatiche. Singole persone affrontano grandi problemi in contesti operativi in cui ancora tanto è indefinito e storicamente nuovo, ma c’è anche una comunità professionale che fa da riferimento. Ho incontrato il “professionista riflessivo” che opera all’interno di una società. Mi è piaciuto molto nell’intervento di Santosuosso anche il riconoscimento della soggettività dell’operatore professionale, della sua fatica nell’affrontare questioni tanto nuove e spinose e l’impegno a collaborare con altri in percorsi in evoluzione. E il riuscire a far interagire con tutto questo la propria esperienza di figlio colpito dalla malattia del genitore. Insomma, mi è sembrato un contributo ispirato a un umanesimo di fondo, portato da un esperto che si è presentato con la sua competenza, ma soprattutto come persona senziente e ragionante di fronte a problemi che ci disorientano, una persona intera che affronta dei rischi con un baricentro di responsabilità e serenità.
Sono certa che non è un caso che anch’io, ascoltando, abbia sentito emergere attorno al mio essere una cittadina anziana non specialista la complementarità di altri tratti identitari, come donna che ha avuto esperienze di cura di altri familiari e come. Ora, scrivendo, mi ricordo che sono anche la vicina di casa di una signora anziana che ha problemi di demenza.