Ritorno alle relazioni

In occasione del 50º anno di pubblicazione di PSS, il 2020, abbiamo chiesto a componenti della redazione e del comitato scientifico di scrivere, ognuno per il suo tema, le proprie riflessioni relativamente al difficile percorso di questi mesi nell’ambito delle politiche e dei servizi sociali.

La risposta è stata immediata e positiva e ora siamo lieti di proporvi i loro contributi, raccolti in questo inserto speciale che apre l’ultimo fascicolo dell’anno. Presentiamo qui l’editoriale del fascicolo.

di Sergio Pasquinelli* e Francesca Pozzoli**

Come cambierà il welfare, come cambieranno i servizi di domani? Ce lo stiamo chiedendo in tanti, ma la risposta non c’è. Nella fase dell’emergenza acuta di questo disgraziato 2020 i servizi sociali hanno agito una prima linea del fronte, meno evidente di quella sanitaria ma non meno drammatica. Attraversiamo ora il lento guado di una convivenza con il virus: non sappiamo quanto lungo, né dove ci condurrà. Ma alcune cose, di ciò che sta cambiando, le abbiamo apprese.

Più servizi, meno isolamento

Nei mesi del lockdown abbiamo realizzato un’indagine su un campione non probabilistico di quasi mille caregiver familiari di persone con disabilità e di anziani non autosufficienti. L’idea è stata quella di dare voce ai tanti caregiver che si prendono cura di una persona fragile: un esercito silente, intergenerazionale, a prevalenza femminile, formato in Italia da 7,3 milioni di persone (Istat).

I risultati ci hanno sorpreso: abbiamo intitolato il rapporto L’Italia che aiuta chiede servizi (1). Abbiamo infatti chiesto di che cosa si sente più bisogno, quale aiuto si apprezzerebbe di più: in questi casi siamo abituati a risposte che danno la priorità agli aiuti monetari, meglio se liberi da vincoli. Qui abbiamo trovato una risposta diversa: al primo posto i caregiver chiedono servizi, in particolare quei servizi domiciliari che molti di loro, anche prima del Covid-19, non hanno mai visto. Lo desidera più della metà. Una preferenza che supera quella per l’aiuto monetario di oltre 10 punti percentuali.

Queste attese si accompagnano a un interesse diffuso nell’avere informazioni su ciò che il territorio offre: un aiuto a rompere l’isolamento, superare la mancanza di conoscenze, per sapere che cosa effettivamente si muove nella prossimità del contesto di vita. Insomma è forte il sentimento di solitudine e forte la ricerca di ponti che la possano ridurre.

Il cambiamento e le resistenze che incontra

Niente sarà più come prima? Qualche dubbio affiora. Questi mesi hanno spinto a una certa convergenza su cosa e come cambiare nel welfare dei servizi. Purtroppo si tratta di auspici che incontrano molte resistenze. Due esempi.

Primo, l’assistenza domiciliare per persone con disabilità, anziani, minori. La legge 77/2020 (ex DL Rilancio) raddoppia di fatto per il 2020 le risorse previste per i servizi di Assistenza domiciliare integrata delle Asl (ADI), con 734 milioni di euro che verranno ora ripartiti tra le regioni. In Italia l’ADI offre prestazioni di natura medico-infermieristica di durata limitata: si conta una media di 25 ore l’anno per utente. Il punto è che i bisogni delle persone con disabilità, o non autosufficienti, sono invece continuativi nel tempo e riguardano anche, e sempre più, sostegni e tutele di tipo “sociale”.

Quindi non è (solo) di più Adi ciò di cui abbiamo bisogno. Oltre ai bisogni sanitari, infermieristici, riabilitativi, servono infatti più sostegni e tutele sociali, legate agli atti della vita quotidiana, sia all’interno che al di là delle mura domestiche. Ciò di cui c’è bisogno è cioè un ventaglio più ampio di supporti a favore di soggetti diversi (non solo la persona fragile, “utente”, ma anche il suo contesto), e di gradi diversi di fragilità, anche moderata, mentre i servizi attuali intervengono solo nelle fasi più acute (ADI) o nelle fragilità conclamate ed economicamente più deboli (i servizi domiciliari comunali).

Contro un nuovo sistema di cure domiciliari c’è una resistenza su fronti diversi: quella di Regioni che non investono nell’integrazione sociosanitaria e tengono Asl e Comuni su binari ben distinti; un mercato dei servizi e degli appalti arroccato sui contratti esistenti, che si ha paura di perdere; professioni d’aiuto abituate a un lavoro prestazionale, poco disposte a rendersi più versatili.

Secondo esempio, le RSA. La strage avvenuta invita a un serio ripensamento delle oltre seimila strutture presenti in Italia. La RSA del futuro deve – almeno in parte – superare il modello ospedaliero, di grande istituzione totale, strutturalmente veicolo di contagio, a favore di luoghi aperti, di dimensioni più ridotte. Le comunità residenziali, le abitazioni protette, le forme di “abitare leggero” sotto i 25–30 posti riguardano oggi una parte marginale delle residenze e su di esse non si è mai investito davvero. Ne beneficerebbero quel 10–20% di anziani solo parzialmente non autosufficienti ricoverati in RSA: sarebbero meno reclusi in grandi strutture poco flessibili, più esposti a una salutare interazione col territorio.

Ma residenze più piccole sono avversate dai grandi gruppi gestori, i provider, perché meno redditizie. Eppure una riorganizzazione mirata, coordinata, produrrebbe comunque economie sostenibili. In un Paese che vede crescere gli ultrasessantacinquenni al ritmo di 240.000 unità l’anno, questo è uno spazio rilevante per un terzo settore innovativo, che guarda avanti, capace e disposto a investimenti, che si devono accompagnare a politiche incentivanti. Finora purtroppo deboli sulla materia.

 Il Budget di salute ci salverà?

Il Budget di salute (BdS) viene ultimamente richiamato nei documenti governativi (nel decreto Rilancio, per esempio) come dispositivo nuovo su cui investire. Il BdS è stato oggetto, in Italia, di significative sperimentazioni, diverse tra loro. Dal primo progetto pilota in Friuli Venezia Giulia nel 1998 nell’ambito della salute mentale e finalizzato all’uscita di utenti psichiatrici da strutture residenziali alla recente sperimentazione della regione Toscana che ha utilizzato lo strumento del BdS con le persone disabili nei percorsi del Dopo di noi (legge 112/2016).

Il BdS viene concepito – in modo abbastanza univoco – come l’unità di misura delle risorse umane, professionali ed economiche necessarie a favorire l’inclusione sociale della persona con disabilità, attraverso un progetto individualizzato alla cui produzione partecipano la persona stessa, la sua famiglia e la sua comunità.2

La scommessa del BdS è quella del passaggio – nel contesto dei servizi sociosanitari e socioassistenziali – da una logica prestazionale degli interventi a una progettuale e integrata, che comprende tutta la comunità di vita e di riferimento delle persone. Tuttavia, la narrazione che circola su questo dispositivo raramente ne tematizza le difficoltà: ne indichiamo tre.

Primo: la sostenibilità dei progetti costruiti con il BdS. Molte sperimentazioni hanno visto non tanto la ricomposizione delle risorse esistenti quanto piuttosto lo stanziamento di risorse aggiuntive. Di fronte a tale “aggiunta”, la prima questione che si pone allora è quella della cosiddetta scalabilità: come andare oltre i pochi partecipanti alle sperimentazioni e raggiungere l’intera popolazione degli aventi diritto? Si tratta appunto di una questione di scala, cioè di sperimentazioni che per avere davvero un impatto devono diventare sistema. Il rischio altrimenti è quello di convogliare ingenti risorse ed energie per progetti che raggiungeranno sempre e solo numeri ristretti.

Secondo: la “riconversione” al posto della “ricomposizione”. Questo ridimensionamento di funzione ha permesso il raggiungimento di risultati sicuramente positivi – come nel caso delle riconversioni delle rette di ricovero in strutture residenziali in forme di abitare leggero – e, tuttavia, un’integrazione di risorse diverse rimane difficile da realizzarsi.

Terzo: il coinvolgimento di risorse private nella ricomposizione prevista dal BdS, che siano quelle delle persone con disabilità e delle loro famiglie o quelle della comunità. L’attivazione di queste risorse richiede una concreta presa in carico da parte del servizio pubblico, con un ruolo forte di regia, pena il rischio di riprodurre esclusione e isolamento per le situazioni più fragili e povere.

In una logica di diffusione di questo dispositivo, crediamo che queste criticità dovranno essere attentamente affrontate.

Ritorno ai luoghi

Siamo prossimi a una svolta digitale nel welfare, che riguarderà l’aiuto da remoto, l’assistenza a distanza, la telemedicina e così via. Eppure tutto questo non basta. L’aiuto, sia esso diretto, uno a uno, sia quello che passa attraverso lo sviluppo di comunità, deve riappropriarsi dell’appartenenza a un “dove”. Luoghi che non possono essere la semplice riproposizione pre-Covid-19, ma su cui vanno immaginati itinerari di ritorno, di restituzione a un incontro nuovo che fa i conti con un virus ancora presente, ma anche con la necessità di stare in relazione.

La dimensione online è propedeutica, funzionale, complementare. Non potrà mai sostituire una dimensione fisica, di contatto, ascolto, un sentire che chiede vicinanza. La fisicità dei luoghi può creare legame, fiducia, appartenenza, tanto più se diventano evocativi, visibili, riconoscibili. In qualche modo “caldi”. Luoghi che trovano stabilità e prospettiva là dove si liberano dalla dimensione di puro esperimento, si emancipano dai finanziamenti iniziali che li hanno aiutati a nascere, creano valore per il mercato e per una domanda pagante.

Molti di questi luoghi sono il prodotto della rigenerazione di spazi dismessi: cascine ristrutturate, biblioteche, orti urbani, luoghi (ri)nati a un uso polivalente diventano entità fisiche e allo stesso tempo simboliche, rappresentative della possibilità di costruire e consolidare legami sociali in territori a volte periferici, a densità relazionale variabile.

Questi luoghi sono tanto più attrattivi e inclusivi quanto più sono ibridi, in due sensi: nel senso delle persone che li frequentano, “che ci vanno”: per provenienza, esperienza che portano, generazione. E ibridi nelle attività che offrono: quindi luoghi aperti dove ci può essere l’assistente sociale ma anche un ristorante, attività sportive, un co-working, una ciclo-officina, un gruppo di acquisto solidale. La polifunzionalità aiuta a generare una massa critica essenziale, che evita l’isolamento e, nelle situazioni più virtuose, può produrre una mutualità vera. Per arrivarci mai come oggi serve coprogettazione, la creazione di nuovi ecosistemi organizzativi e di nuove filiere.

Per concludere

Prospettive Sociali e Sanitarie compie 50 anni. Io, Sergio, ho scritto il mio primo articolo su questa rivista 35 anni fa, che a guardare il welfare sembrano mille. Io, Francesca, ci scrivo oggi per la prima volta. L’augurio affettuoso è che questo luogo continui a coltivare il dialogo tra generazioni diverse come quelle che noi rappresentiamo, oltre che tra punti di vista, esperienze, professioni differenti.

Perché nella diversità il dialogo diventa fecondo, quel dialogo che questa rivista ha sempre promosso in modo laico, concreto, formativo. E che ha ispirato, per generazioni di operatori, il cambiamento possibile.

Note

(1) Si veda l’articolo uscito con questo titolo su Welforum.it l’8 maggio di quest’anno, a cura di Sergio Pasquinelli e Giulia Assirelli.

(2) Si vedano in proposito l’articolo di Claudio Castegnaro e Diletta Cicoletti “Budget di salute: un dispositivo a sostegno del diritto a una vita autonoma”, uscito su Welforum.it il 13 settembre 2017 e il seguente testo: Pellegrini P., Ceroni P., Dall’Aglio R., Soncini C., Soggetto, persona, cittadino. Il budget di salute. Esperienze in Emilia-Romagna, Alpha & Beta, 2019.

 

*Vicedirettore di Prospettive Sociali e Sanitarie, presidente ARS, vicedirettore di welforum.it.

**Laureata in filosofia e dottoranda in sociologia presso l’Università degli Studi di Milano, si occupa di politiche sociali, sanitarie e servizi sociali.

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