Operatori della tutela minori: nuove sfide e nuovi bisogni formativi

di Paolo Tartaglione*

Il prezioso mondo di operatori  dei servizi pubblici e privati, che prende il nome di Tutela Minori, avverte in questi anni un profondo bisogno di rinnovamento. Principalmente la frustrazione degli operatori viene diretta su questioni di ordine economico, che nella percezione diffusa starebbero erodendo il terreno su cui poggia il sistema di protezione di bambini e adolescenti, riducendo gli strumenti a disposizione e moltiplicando gli adempimenti e il numero di casi di cui occuparsi.

Questa percezione ha una grossa base di verità, ma non è sufficiente a spiegare la sensazione di abbandono da cui sono pervasi molti operatori, e soprattutto ha il limite di non essere risolvibile da chi lavora nella Tutela, se non in maniera indiretta, essendo prevalentemente frutto di scelte di natura politica e amministrativa.

Pertanto, in affiancamento, e non in alternativa a una riflessione politica sulla necessità che la società decida di investire maggiori risorse su bambini, adolescenti e famiglie in difficoltà, pensiamo utile proporre ai colleghi che operano nella tutela dei minorenni qualche considerazione autoriflessiva.

Un problema di risorse?

Le risorse economiche, per quanto ridotte rispetto al passato, sono ancora per fortuna molto rilevanti, e su come vengono impiegate, abbiamo certamente maggiori responsabilità di quante ne abbiamo sull’ammontare complessivo.

Facciamo un esempio, quello del ricorso al collocamento nelle comunità. Leggendo l’ultimo report sulle comunità per minori diffuso in ottobre u.s. dall’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, sappiamo che il ricorso alle comunità al 31/12/2015, ultima rilevazione disponibile, era in netto aumento rispetto all’anno precedente: il numero di comunità sul territorio nazionale è aumentato del 9,3%, il numero medio di ospiti presenti per comunità ha registrato un aumento (da 6,7 a 6,9), così come il numero complessivo di giovani (< e > di 18 anni) ospiti delle comunità, che è cresciuto del 7,8% ( da 21.317 a 22.975).

Per quanto il ricorso alle comunità sia ancora sensibilmente al di sotto di altri Paesi Europei che hanno maggiori disponibilità economiche (il ricorso a comunità o affido in Italia è pari al 2 per mille dei minorenni, contro il 9 della Francia, l’8 della Germania, il 6 del regno Unito e il 4 della Spagna), nel nostro Paese non è in corso una riduzione degli investimenti su questo capitolo di spesa. Piuttosto è progressivo ed evidente il cambiamento nell’utilizzo di questo strumento: nelle comunità per minori sono sempre meno presenti bambini (solo un quarto degli ospiti ha meno di 11 anni), mentre circa il 75% ha tra gli 11 e i 18 anni (il 12,4% è nella fascia 11-13 anni, e ben il 61,6% è tra i 14 e i 18 anni); la durata dei percorsi è, coerentemente con l’età media di accesso alle strutture, in progressiva riduzione: ormai solo il 23% dei percorsi dura più di 24 mesi, mentre nel 77% dei casi la struttura deve “giocare le proprie carte” in un tempo inferiore ai due anni.

Mi si obietterà che questi dati risentono dell’emergenza legata alla necessità di collocare minorenni stranieri. Questa considerazione conferma invece la preoccupante sensazione che il Sistema della Tutela stia orientando sempre più le risorse sulle emergenze, in una continua rincorsa a cercare di porre un argine alle situazioni che destano maggiore allarme, e di fatto dovendo disinvestire sulla prevenzione e sulle situazioni dove appare meno eclatante la necessità di un intervento. Così nelle comunità educative vengono collocati ragazze e ragazzi sempre più grandi, e che hanno già sviluppato psicopatologie rilevanti (è in corso una ricerca nelle comunità per minori della Lombardia, che rileva come il 43,6% degli ospiti abbia riportato un punteggio superiore a 16 nel questionario SDQ), e con strutture di personalità in via di consolidamento. La concentrazione di risorse sulla risposta alle emergenze rischia di indurre nuove emergenze; i Servizi presso i quali lavoro si occupano prevalentemente di adolescenti e giovani adulti, ed è inequivocabile il fatto che questi giovani, non ricevendo risposte adeguate di fronte alle loro richieste di aiuto, diano vita ad un climax ascendente di manifestazioni di malessere sempre più evidenti e clamorose, che spesso sfociano in pericolosi gesti di violenza contro di sé o contro altri. Nei giovani che hanno commesso reati in minore età, è sempre riscontrabile una serie di precedenti richieste di aiuto che sono rimaste prive di risposta o che hanno ricevuto risposte inadeguate o intempestive. Non è così infrequente in noi operatori il pensiero che talvolta la commissione di un reato sia la sola strada per poter intervenire in favore di un giovane in stallo evolutivo, come a confermare ancora una volta che “l’unico modo per poter vedere ascoltata la propria richiesta di aiuto sia quello di generare allarme”.

Tra protezione e spinta alla crescita

Con queste premesse, quando finalmente il Sistema della Tutela entra in azione, lo fa animato da un profondo desiderio di protezione nei confronti di giovani segnati così a lungo da sofferenza e mancanze, e esposti generalmente a una lunga serie di conferme circa il fatto che “degli adulti non ci si può fidare”. Quando interveniamo a protezione di questi giovanissimi, pertanto, non deve stupire il fatto che siamo pervasi dal desiderio di smentire le convinzioni dei nostri utenti sugli adulti, di permettere loro di recuperare tutto quanto gli è mancato negli anni precedenti, in termini di occasioni, relazioni, pensieri, riorganizzazione della personalità, sviluppo di abilità utili ad essere accolti e apprezzati dagli altri. Questa aspirazione mi sembra trasversale alle professioni della Tutela, e non caratteristica di una in particolare; e, per quanto sia del tutto legittima e auspicabile, è talvolta il motore di un approccio che rischia di essere più protettivo del necessario, e connotato da uno sguardo che ricerca nella realtà esterna più i pericoli dai quali difendere gli utenti, che non le opportunità per potersi realizzare come giovani donne e giovani uomini. E’ come se, non essendo questi giovani stati protetti dai loro genitori, né dal Sistema preposto alla loro Tutela, gli operatori sentissero il bisogno di “restituire” loro tutta la protezione di cui avrebbero avuto diritto, rischiando di essere nuovamente fuori tempo, e perdere l’occasione di sostenerli nella crescita.

Il posizionamento prevalente degli Operatori della Tutela, dobbiamo dircelo, è al momento decisamente più centrato sulla protezione nel breve termine, che non sulla spinta alla crescita, al rischio, all’assumere decisioni in autonomia, al permettere di sbagliare, tutte cose assolutamente necessarie per diventare adulti. E’ come se volessimo recuperare tutto il tempo perduto, e offrire ai nostri giovani un “corso intensivo di protezione”; come se questo di per sé potesse generare autonomia. Fino all’ultimo giorno, fino a che sappiamo di poter intervenire, usiamo tutto il nostro potere e il nostro carisma per “correggere” quelle che ci appaiono come inadeguatezze che renderanno inadatti i nostri utenti alla “vita reale”, per chiedere ai ragazzi di conformarsi alle nostre richieste, per fare evitare loro gli errori, le cadute. Ma questo è il posizionamento educativo che abbiamo desiderato per noi? Quando eravamo noi a dover diventare grandi, ci aspettavamo questo dagli adulti che erano chiamati ad accompagnarci nella crescita? Quando eravamo noi a dover “spiccare il volo”, pensavamo che il mondo esterno fosse la fiera dei pericoli? O un luogo dove trovare opportunità?

La relazione tra Sociale e Società

In questa visione del “territorio” come un luogo dove i nostri utenti possono incontrare più pericoli che opportunità, e che è alla base di un posizionamento educativo spesso insoddisfacente se pensato nella logica dell’accompagnamento all’autonomia, gioca un peso anche la relazione tra “mondo del Sociale” e “Società”. Sappiamo che i nostri “antenati” hanno aperto le prime comunità in aperta opposizione alla Società, che si diceva fosse governata da valori molto lontani da quelli che generalmente animano le comunità, e che senz’altro non dava prova di grande accoglienza rispetto agli “ultimi”. A quella prima fase ne è seguita una, che sembra essere oggi al tramonto, nella quale i Servizi sono stati progressivamente “messi a norma”, la Società ha capito che avrebbe potuto delegare a dei professionisti la “cura” di determinate categorie di persone; in questa fase la relazione è stata caratterizzata dalla delega, e da una percezione del Sociale come una risorsa. Mi sembra di poter dire che questo orientamento dell’opinione pubblica abbia ricevuto negli ultimi anni una brusca virata, nella direzione di una maggiore diffidenza rispetto al sociale, che viene descritto sui media nazionali come una lobby arbitraria e non priva di interessi economici. Gli Operatori della Tutela pertanto, da un lato sentono che il mandato della Società è di occuparsi in via esclusiva delle categorie più fragili; cercano di “recuperare” tutto il tempo perduto, e fare in modo che i giovani utenti arrivino alla maggiore età avendo completato il percorso di cambiamento, non considerando che i percorsi di crescita possano e debbano proseguire con altri “compagni di viaggio”; dall’altro rischiano di reagire a questa nuova chiusura della società nei confronti di chi è rimasto “ai margini” considerando che al di fuori della Tutela ci siano per i nostri utenti solo pericoli ed esclusione, rinunciando così al proprio ruolo di sostegno alla crescita e all’emancipazione.

Nuove competenze, nuovi strumenti

Per favorire una nuova visione della Tutela Minori che tenga conto della necessità di proteggere con professionalità bambini e adolescenti in difficoltà, ma nel contempo sia in grado di preparare il “dopo”, dialogare con il territorio, favorire la cittadinanza attiva, proporre una figura più imprenditiva dell’Operatore Sociale, conoscere meglio le caratteristiche e i confini di intervento delle altre professioni con cui condividono la responsabilità dei progetti, è necessario proporre nuovi sguardi, strumenti e competenze, da affiancare a quelli che sinora si sono rivelati più efficaci.

Per promuovere questo rinnovamento, la Cooperativa Sociale Arimo, CBM-Melograno e Scuola Mara Selvini Palazzoli, che da moltissimi anni sono impegnati nella cura di bambini, adolescenti, famiglie e operatori, propongono una edizione profondamente rinnovata del proprio Master per Professionisti della Tutela: Minori e Famiglie: Accompagnare al futuro.

*Pedagogista e counsellor familiare; Referente “Infanzia, Adolescenza e Famiglie” del CNCA Lombardia.

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