Nuove riflessioni sulla lettura di “L’arte della probabilità. Certezze e incertezze in medicina”

Appunti e pensieri sollecitati dalla lettura del libro di D. Coen e dal post di Augusta Foni.

di Rita Montoli*

La lettura del libro di D. Coen “L’arte della probabilità. Certezze e incertezze in medicina”, apre a 360 gradi su aspetti del grande sapere medico ma anche sulle aree grigie, le incertezze dei percorsi diagnostici e dei trattamenti. Al medico si propone però, per potersi ancorare a qualche isola di certezza, di dotarsi di una buona competenza statistica e di biometria e di saper selezionare affidabili fonti di informazione per poter mettere a confronto linee guida, Randomized Clinical Trials, metanalisi, studi osservazionali, ecc.

Se alla fine di questo complesso percorso razionale rimangono dubbi sul “che fare”, sul piano decisionale può sempre venire in soccorso al medico l’occhio clinico, il “gut feeling” (il sentire della pancia) in cui entrano in gioco esperienze personali, vissuti relazionali, sentimenti legati ai propri valori che fanno riferimento alle dimensioni inconsce e preconsce. In fondo “resta da dire che il processo decisionale che ho descritto è quasi sempre un processo inconsapevole” (pag. 140 dal testo).

Riflettendo sulle condizioni di un pronto soccorso, affollato di pazienti, con l’urgenza per la salute del malato, forse non c’è molto tempo per pensare in tutta calma, magari insieme al gruppo dei colleghi. Leggiamo poi una nota dolente riguardo i metodi di formazione che non stimolano un approccio razionale e informato per la diagnosi e i trattamenti ma spesso contribuiscono al perpetuarsi di false certezze e alla diffusione di trattamenti inutili, inefficaci e spesso pericolosi.

Affascinanti sono i capitoli in cui D. Coen attraversa la storia dei successi della medicina come sfide individuali o come ricerche su grandi gruppi come lavoro collettivo. Lasciamo ai lettori il piacere di queste avventure.

Il non sapere, i dubbi e le incertezza collegati con sentimenti di impotenza molto disturbanti, la Negative Capability descritta da John Keats, sono forse alla base dei comportamenti difensivi che spesso i pazienti incontrano quando il medico si mette in cattedra e non accetta di aprire uno spazio di relazione empatico con il paziente che solo potrebbe aprire ad una reale condivisione di rischi e incertezze che si incontrano in ogni percorso di cura.

Anche per questo il medico può  “farsi curare” da una buona formazione filosofica, quella del “dubito ergo sum”. Così ogni atto medico può diventare un momento di ricerca e favorire l’autonomia di pensiero; e può iniziare il confronto tra outcome – esiti previsti (da esami e trattamenti, secondo la cultura corrente) con la grande varietà individuale dei pazienti.

Augusta Foni nel suo articolo su Scambi di Prospettive si domanda che deve fare il paziente per attrezzarsi e diventare interlocutore del medico. Un corso di biometria o una consulenza con il dottor Coen ogni volta che si apre un problema di una certa rilevanza?

Dovendo scartare queste ipotesi, incomincerei a fare capire al medico che vorrei usare bene il suo tempo, attingendo al suo sapere e chiedendo dove trovare buone informazioni, gli spiegherei che non voglio solo farmaci ed esami come consumi che salvano il medico per la sua fretta e saturano i bisogni di consumi indotti dalla pubblicità; gli consiglierei di darmi farmaci magari un po’ sperimentati dalla pratica di ogni giorno e non nuovi farmaci potentemente reclamizzati dalle industrie farmaceutiche, gli direi che vorrei del tempo per capire con lui dove sta il problema e capirmi meglio, e magari, se fosse possibile, di poter partecipare a un gruppo di pazienti che condividono il mio stesso problema. Questa sarebbe una proposta rivoluzionaria su cui riorganizzare le Case della Salute per aumentare la consapevolezza individuale e di gruppo dei pazienti, in un momento in cui le reti e le aggregazioni sociali intorno alla salute sono state disarticolate dal Covid-19 e dalla scarsa attenzione di sindacati e politici.

In altre parole, il medico bisogna cercare di conquistarlo per creare una relazione ed entrare in comunicazione, come spesso è emerso discutendo con i colleghi all’UONPIA Niguarda.

Non è forse che anche il neonato con i suoi stimoli attiva le competenze materne come ha dimostrato tutta la Infant Research (Schaffer H. Rudolph, 2005) del secolo passato?

Il paziente passivo, dipendente, non stimola il medico ad abbandonare l’atteggiamento onnisciente da barone della medicina: a volte forse per scarse competenze culturali non può chiedere a cosa serve un esame o quali effetti può avere un farmaco, così il medico rimane nel suo modo di fare medicina in bianco e nero, aumentando i rischi per il paziente e negandosi un percorso di cura, di ricerca di possibili nuovi avvicinamenti ad una diagnosi sufficientemente certa. Da qui sfiducia nella medicina e continue ricerche di medici nuovi ed esami nuovi. Spreco di soldi e grandi sofferenze.

Note bibliografiche

  • Coen D., L’arte della probabilità. Certezze e incertezze della medicina, Raffaello Cortina, Milano, 2021
  • Keats John, su Treccani-i, Enciclopedia on line. Istituto della Enciclopedia Italiana
  • Schaffer H. Rudolph, Psicologia dello sviluppo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005
  • Stern Daniel, Diario di un bambino, Oscar Mondadori, Milano, 1990

 

*psicologa-psicoterapeuta

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