di Carla Dessi e Ariela Casartelli*
Lo scorso 11 giugno si è svolto a Milano il 2° Convegno regionale promosso dall’Ordine degli assistenti sociali della Regione Lombardia dal titolo “Il futuro del welfare”, in occasione del quale sono stati presentati e discussi i principali risultati di una ricerca sulla professione dell’assistente sociale, promossa dallo stesso Ordine e da noi condotta nella duplice veste IRS-LombardiaSociale nei primi mesi del 2013, con il diretto coinvolgimento di oltre 2.400 assistenti sociali lombardi.
Il contesto della ricerca
La ricerca ha preso l’avvio dall’interesse del Collegio Regionale di esplorare il vissuto professionale degli iscritti nell’attuale contesto contaminato dalla crisi economica. Il titolo stesso che l’Ordine ha proposto di adottare in questo lavoro “Una professione alle corde? Assistenti Sociali di fronte alla crisi del Welfare” è evocativo di come la forte premessa che ha dato il via all’indagine fosse quella di una professione anch’essa in crisi.
I temi che si è deciso di esplorare sono sintetizzabili nei seguenti interrogativi: Che cosa succede agli assistenti sociali oggi? Quali vissuti prevalgono? Quali sono le sfide possibili per ri-costruire il ruolo professionale? Quali strategie attivabili per affrontare queste sfide?
Il percorso di ricerca ha visto, accanto alla compilazione di un questionario strutturato on-line, una serie di approfondimenti territoriali realizzati mediante focus group che hanno visto il coinvolgimento dei gruppi provinciali dell’Ordine di supporto alla formazione continua di sei province (nello specifico Como, Mantova, Monza, Pavia, Lodi e Sondrio).
Vogliamo richiamare l’attenzione su alcune considerazioni trasversali che la conduzione di questa ricerca ci ha sollecitato, al di là del dettaglio delle risposte raccolte e delle differenze tra le singole province, a cui rimandiamo per ulteriori approfondimenti alla visione dei materiali disponibili sul sito dell’Ordine e di LombardiaSociale. Ci sembra che “stabilità” e “cambiamento” possano essere due voci che sintetizzano la posizione degli assistenti sociali oggi, voci che ne mettono altresì in luce le potenziali ambivalenze legate all’esercizio di questa professione con la conseguente necessità di un continuo riposizionamento.
Di che cosa parliamo quando parliamo di “stabilità”
Possiamo parlare di stabilità se consideriamo che spesso nel momento in cui si sceglie di intraprendere la professione dell’assistente sociale è una “scelta per la vita”. Possiamo dire che si “sposa” la propria professione: la quasi totalità di coloro che hanno partecipato alla nostra indagine continua ad esercitarla in forma pressoché esclusiva e per l’intera durata della propria “carriera lavorativa”.
Parliamo di stabilità anche se guardiamo il dato relativo alla forma di contratto prevalente, la maggior parte degli assistenti sociali lombardi vedono la formalizzazione della propria posizione lavorativa attraverso la stipula di un contratto a tempo indeterminato. La percezione prevalente tra gli intervistati è, tuttavia, di insicurezza, il vissuto riportato è di essere comunque precari, precarietà che viene connessa alla discontinuità dei flussi di finanziamento di cui dispone il proprio ente di appartenenza, il che mette in evidenza una tendenza prevalente dei professionisti ad immedesimarsi con il proprio ente.
Ci sembra che il contatto quotidiano con la precarietà dei cittadini induca ad assumere su di sé questa sensazione, anche se appare importante poter esplorare meglio la situazione di coloro che lavorano nel Terzo Settore dove ci viene messa in evidenza la crescente diffusione di forme contrattuali atipiche e “ibride” per cui il “tempo indeterminato” può essere eluso più facilmente e non è più sinonimo e garanzia di sicurezza. Va precisato che la formula del contratto di assunzione a tempo indeterminato è, infatti, un dato che riguarda principalmente coloro che lavorano negli Enti pubblici e coloro che lavorano da qualche anno. Ciò mette in evidenza come per le nuove generazioni che si affacciano alla professione sociale, visto anche il crescente ricorso alle esternalizzazioni, il futuro sembra prefigurarsi meno roseo che per i colleghi più “maturi”.
Possiamo, così, pensare all’ambiguità del concetto di stabilità nel momento in cui osserviamo come la crisi economica nella quale ci troviamo oramai da qualche anno ha portato con sé un processo di simmetrizzazione di fronte alla precarietà e alla paura del futuro della società, paura che si è trasformata in angoscia e ha portato allo scivolamento in una posizione per cui “Non si può più fare nulla”. Come si può andare allora nella direzione di abbandonare questo senso di precarietà, allontanarsi da un’immagine dell’assistente sociale che dipende “a vita” da un Ente pubblico per immaginare una nuova figura di assistente sociale?
Possiamo sempre parlare di ambivalenza se osserviamo quello che emerge come un forte intreccio tra “passione” e “frustrazione” nell’esercizio della propria professione.
Il lavoro di assistente sociale viene svolto con “passione”, in particolare in alcuni ambiti di intervento specifici, come le famiglie e i minori. Piace lavorare con l’utenza per cui “Il rapporto con l’utenza è un po’ tuo e ti salva”, piace anche confrontarsi con i colleghi e lavorare in stretta connessione con la rete e le risorse presenti nel proprio territorio, lavorando in rete la percezione è che sia più facile avere conferma di aver lavorato bene. Ma è una passione che vede, tuttavia, dietro l’angolo il rischio di una frustrazione latente, frustrazione nel non essere in grado di offrire tutte le risposte che si vorrebbe dare ai propri utenti e che possiamo vedere strettamente connessa ad una talvolta eccessiva vicinanza all’utenza, come espressione di una ricerca di riconoscimenti e gratitudine che non si ottiene altrove.
Dare un “volto” alla crisi per superarla
Quali sono le ricadute della “spending review” relativamente al lavoro sociale? Emerge nella conduzione della nostra indagine una certa difficoltà nel riconoscere come i tagli hanno avuto delle ricadute nel proprio lavoro, il vissuto riportato è quello di riuscire a fare tutto e, parallelamente, di vivere in una condizione lavorativa di “costante emergenza” dove sembra non esistere più o non essere mai esistito il “lavoro ordinario” ma l’urgenza è diventata ordinaria.
La crisi appartiene agli assistenti sociali ed è il principale argomento di lavoro delle professioni sociali, “non ci sarebbe assistente sociale se non ci fossero persone in crisi”. Ma come si può recuperare appartenenza, ovvero “sentirsi parte” di organizzazioni in sofferenza a cui sembra che pochi guardino con attenzione per capire cosa sta succedendo? La crisi implica quindi la necessità di saper cambiare, e “costringe” a trovare un nuovo modo di relazionarsi al proprio mondo interno e all’ambiente esterno (Zucconi, 2013).
Ci ha molto colpito in occasione dei focus group registrare lo smarrimento e l’imbarazzo suscitato dalla nostra domanda “Che cosa state facendo bene oggi ai tempi della crisi?”. Ci sembra che rispondere a questa domanda possa essere l’avvio di un percorso di riscoperta e consapevolezza delle proprie risorse che contribuisca ad attivare la resilienza professionale. Attivare resilienza significa avere interesse per il sociale, scegliere da che parte stare, recuperare le radici interculturali, la curiosità, la sensibilità e disponibilità a connettere mondi diversi, cercare sostegni e collaborazioni, creare luoghi di resistenza e avere pazienza, dirsi “ci vorrà tempo….”.
Possiamo dire che gli obiettivi da cui è nato il lavoro di ricerca , ovvero il portare al centro del dibattito sul futuro del welfare il lavoro sociale e supportare il dibattito con dati ed evidenze empiriche siano stati raggiunti, almeno per quanto riguarda il contesto lombardo. Ci auspichiamo che si possa proseguire in questa direzione anche e in particolar modo per comprendere quei meccanismi e quelle dinamiche che la professione sociale sta mettendo in atto per “stare” nella crisi .
Ci sembra che una strada percorribile nel raggiungimento di questo fine ultimo sia quella di dare voce alla complessità del lavoro sociale adottando nuovi e alternativi schemi di lettura, nuove descrizioni che valorizzino i significati di emancipazione ed autonomia. In un contesto di crisi di risorse e di modelli interpretativi ci sembra che occorra recuperare la propria esperienza e le proprie competenze, la propria storia professionale ed i risultati raggiunti.
Pensiamo che la crisi abbia ri-attivato nella professione la sua capacità e la propensione a riflettere su se stessa e sui cambiamenti e questo è già un buon risultato che può essere rinforzato per esempio se si riattiva lo scambio e la comunicazione tra professionisti di diverse generazioni, se si stimolano gli incontri tra servizi diversi e professionisti diversi per vedere come utilizzare al meglio le risorse economiche e personali che ci sono e se si recupera il senso delle alleanze, piuttosto che delle battaglie.
* Carla Dessi è ricercatrice, formatrice e counselor, collabora con IRS e LombardiaSociale, Ariela Casartelli è assistente sociale, counselor professionista, formatrice senior dell’IRS.
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