Il tassista si è perso

di Pierluigi Emesti*

Nella via dove abito vedo ormai da parecchi mesi un tassista che nel corso di questi anni ho visto diventare vecchio insieme alla propria Fiat 128 gialla.

Sì, ormai in pochi si ricordano che i taxi un tempo erano gialli a Milano, ma questa 128 resiste ancora indomita e il suo proprietario, sebbene non eserciti più e abbia tolto le insegne dalla macchina, continua con tanta attenzione a prendersene cura.

Quotidianamente la spolvera e la tiene in ordine, ogni tanto la accende e sente il suono della sua compagna di tanto tempo.

Ultimamente questo signore passa sempre più tempo seduto all’interno dell’abitacolo,  lo vedo parlare da solo, come se si stesse rivolgendo ad un invisibile cliente.

A volte invece sta zitto e si guarda in giro, osserva ciò che si svolge all’esterno della sua vettura.

Pare che si trovi molto bene, protetto dal mondo esterno e dal tempo che passa.

Giorno dopo giorno, l’ho visto sempre più frequentemente e sempre più a lungo nel suo taxi. Come se fosse un paguro dentro la sua conchiglia.

La curiosità mi ha assalito una volta, quando passando a fianco della auto ho bussato al suo finestrino per rivolgergli un semplice saluto; alla mia semplice domanda di come andasse ha risposto in maniera scomposta e senza senso.

Improvvisamente mi sono reso conto della sua situazione, a lungo ha cercato di dare un senso al suo vivere quotidiano, ha cercato di reiterare quello che sapeva meglio fare senza doversi confrontare con nessuno, ha continuato a essere il tassista, ha cercato conforto nel suo ruolo e trovato dei punti fermi nella sua memoria sfilacciata.

Quando mi ha guardato preoccupato di non sapere cosa rispondere è come se fosse invecchiato di colpo. Come se si fosse improvvisamente reso conto.

Mi sono sentito in colpa per aver invaso il suo spazio e messo in crisi il suo rito.

Dopo poco tempo la macchina è scomparsa e non l’ho più visto.

Spero sia nel parcheggio di qualche RSA a sua disposizione per qualche viaggio nella sua memoria.

A proposito di memoria

Rileggendo questo racconto mi è tornato in mente quando mia madre, parecchio tempo prima di una diagnosi di Alzheimer, aveva preso l’abitudine di rinchiudersi per quasi tutta la giornata dentro il suo “studio” da sarta. Aveva accumulato pile di stoffe e di materiali di vario genere, e stava seduta davanti alla sua Singer. Era difficile entrare e stare con lei, probabilmente quelli che erano i prodromi della sua malattia erano stati scambiati per manie e comportamenti “strani”. Per molto tempo ci siamo chiesti se fosse cambiato qualcosa se avessimo fatto degli accertamenti neurologici subito.

Venti anni fa probabilmente non sarebbe cambiato nulla, forse oggi qualche piccolo passo in avanti si è fatto, in termini di rallentamento del degeneramento cognitivo.

Sicuramente già venti anni fa era conosciuta la “Gentle Care”, un approccio messo a punto da una canadese, Moyra Jones dove si cerca di abbassare il livello dello stress della persona attraverso un approccio sistemico basato molto sull’architettura e su una serie di stratagemmi per facilitare il vivere quotidiano senza indurre crisi di vario genere che spesso accompagnano nelle varie fasi della malattia (rabbia, wondering, depressione).

Ho visitato molti anni fa ad Abbiategrasso un reparto che ai tempi era all’avanguardia presso l’istituto Golgi. Rimasi quasi tramortito dalla differenza di approccio vista con altri nuclei Alzheimer. Marco Fumagalli ci fece da anfitrione e ci spiegò alcune cose su come praticamente veniva portato avanti questo approccio nel reparto. Probabilmente da quando ho smesso di frequentare RSA sono migliorate le cose anche nelle strutture “normali” ma vi invito a rendervi conto di persona se siete interessati a questa problematica.

 

*Educatore professionale

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