Il sociale dopo i servizi

20161025_121259-1-1di Sergio Pasquinelli*

I “servizi” sono ancora il dispositivo migliore per aiutare le fragilità?

Se ci guardiamo intorno, se guardiamo ai servizi più strutturati, troviamo una realtà che fatica a tenere il passo con il cambiamento. Qualche esempio: i servizi domiciliari per anziani dei Comuni sono diventati servizi di nicchia e marginali; i centri di aggregazione giovanile e gli Informagiovani sono luoghi che si sono via via svuotati di un interesse che si rivolge altrove; le comunità terapeutiche per le dipendenze attraversano da molti anni una fase di crisi e di ripensamento; le strutture residenziali per anziani accolgono in un caso su cinque (dati di Regione Lombardia) una utenza definita impropria, in quanto avrebbe bisogno di servizi più aperti, meno custodiali. Un quarto delle residenze per disabili in Italia ha più di 80 posti letto, dimensioni che limitano le possibilità di una inclusione reale nei territori.

Possiamo modificare ciò che esiste, dove questo è necessario, e questo già si fa. Possiamo rivendicare più risorse per il sociale, e anche questo già si fa. Ma si fa strada l’urgenza di pensare a nuovi modi di costruire l’aiuto, verso una rete di aiuti attivanti: attivazione delle persone e attivazione delle comunità locali.

Esplorazioni

L’espressione “welfare di comunità” non è nuova ma ha trovato nuovi impulsi, con l’idea che occorrano nuove alleanze tra istituzioni, famiglie, il privato sociale, il mercato. Facendo leva sulle capacità di iniziativa dei singoli e delle formazioni sociali. Non facile, in contesti abituati a relazioni biunivoche, del tipo committente-fornitore.

Serve un nuovo sguardo, il passaggio da una centratura sui “servizi” – per le famiglie, per i disabili, per gli anziani e così via – a una sulle attività della vita quotidiana: abitare, prendersi cura, lavorare, educare. I servizi non più come i soggetti delegati a fornire risposte, ma attori fra gli altri: attivatori di risorse, relazioni, connessioni.

Se al posto di avviare un nuovo centro di aggregazione giovanile coinvolgo, in un percorso di coprogettazione, un oratorio, due associazioni e un gruppo di volontariato, sto dando valore a ciò che questi fanno, spendo meno come ente pubblico e genero una ricaduta che può essere amplificata. Se ripenso il Servizio di assistenza domiciliare in un’agenzia che si avvale di badanti formate, e le collega con una serie di prestazioni diverse offro qualcosa che non costa di più ma che può rispondere molto di più ai bisogni degli anziani.

Welfare collaborativo

Possiamo chiamarlo “welfare collaborativo”, o “partecipato”. Fa leva sulle risorse delle famiglie e delle comunità – economiche, di tempo, di cura, di competenza – e le mette in dialogo con quelle pubbliche, producendo qualcosa più della somma dei singoli addendi.

Badante e baby-sitter condivise, biblioteche aperte, cortili sociali, social street, orti urbani, banche del tempo, formazione intergenerazionale, co-housing, sostegni peer-to-peer. Esistono diverse forme di collaborazione: se sono mamma e lavoro part time posso seguire i figli di altri, e questo poi mi viene ricambiato quando sono io al lavoro. Oppure: un orto urbano ha bisogno di un coordinamento e riesce se ci si aiuta a vicenda. O ancora: se sono portatore di disabilità psichica posso vivere in una comunità indipendente insieme ad altri in condizioni analoghe, come succede con il progetto “A casa mia” promosso dalla cooperativa pavese “Come Noi” aderente ad Anffas.

Gli esempi potrebbero andare avanti a lungo, seguendo più direttrici di alleanza: tra cittadini, cittadini e privato sociale, privato sociale e mercato: aziende, istituti di credito, esercizi commerciali.

Cantieri aperti

Certo, i servizi essenziali, quelli rivolti alle fragilità evidenti, alle discriminazioni, devono continuare ad esistere come strumenti di tutela dei diritti, livelli essenziali di assistenza. Ma senza deprimere gli spazi di crescita di questo insieme di esperienze collaborative, che arricchiranno la rete dei servizi più consolidati. E forse ne modificheranno la stessa conformazione.

Come Irs abbiamo dato avvio a un progetto sul welfare collaborativo, denominato “#WELCO” e sostenuto da un insieme di partner del terzo settore, per iniziare a decifrare questa galassia e a raccogliere evidenze in relazione alle possibilità che vanno aprendosi.

Occorre infatti uscire dallo story telling, dalle narrazioni delle cose buone e capire cosa funziona e a quali condizioni, che cosa funziona poco e male, quali benefici si producono in relazione a quali costi e che cosa è replicabile. Per questo c’è bisogno di concretezza, dialogo tra progetti, apertura. E anche un po’ di umiltà.

Questo intervento riprende alcuni passaggi dell’editoriale dell’autore nel numero 4/2016 di Prospettive Sociali e Sanitarie.

*Istituto per la Ricerca Sociale; Vicedirettore Prospettive Sociali e Sanitarie.

L’Immagine riprodotta è di Irene Velinas

Un pensiero su “Il sociale dopo i servizi

  1. G. Ghezzi

    sono d’accordissimo. A me piace pensare all’idea della filiera, dove certamente a un estremo ci sono “i servizi”, quelli tradizionali, quelli molto strutturati, quelli che coprono i bisogni più gravosi; ma dall’altra parte c’è una galassia di esperienze di microsolidarietà fatte dai cittadini, dal terzo settore ma anche da inediti soggetti del privato. E il pubblico? io sogno ancora che si metta al servizio del territorio, stimolando e costruendo connessioni. O quantomeno rendendo la vita facile alle iniziative che già si sviluppano nel proprio territorio.

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