Non succede più che tu vada dal dottore e il dottore ti dica cosa devi fare.
Invece, vai dal dottore, e il dottore ti dice:Ok, potremmo fare A, oppure B. A ha questi benefici e questi rischi. B ha questi benefici e questi rischi. Cosa vuol fare?
Tu gli dici:Dottore, cosa dovrei fare?
E il dottore dice:A ha questi benefici e questi rischi, e B ha questi benefici e questi rischi. Cosa vuoi fare?
E tu ribatti:Dottore se lei fosse me, cosa farebbe?
E il dottore:Ma io non sono lei.Il risultato lo chiamiamo
autonomia del malato, espressione che lo fa sembrare una bella cosa. Ma in realtà non è che uno spostare il peso e la responsabilità del prendere decisioni da qualcuno che sa qualcosa, ossia il dottore, a qualcun altro che non sa niente – e quasi certamente è malato – e quindi non nella condizione ideale per prendere decisioni, ovvero il paziente.
Mi viene in mente tutto il dibattito sulla libertà di scelta, così pregnante in questi anni almeno in Lombardia, la polarizzazione tra libertà di scelta e assistenzialismo (l’una solo positiva sempre, l’altro ormai considerato solo e sempre in senso negativo), con un’interpretazione a senso unico dell’assistenzialismo che mette i cittadini in posizione passiva, di attesa e dipendenza. Di recente mi sono accorta che in sanità si usa quasi solo la parola assistenza (piano di assistenza, continuità assistenziale… ), nel sociale se dici assistenza non passi: meglio sostegno, accompagnamento, progetto, percorso di cura… Anche le parole non sono indifferenti.
Interessantissimo intervento. Pone molte questioni. La prima cosa che mi viene in mente è il problema educativo di dare ai bambini dei limiti, di dire dei no: un bambino non può perdere il tempo a decidere se è un bene mettere le dita nella presa, non deve farlo e basta, e deve usare il suo tempo e le sue energie in modo creativo per occuparsi di cose importanti (giocare imparare divertirsi). Da adulto questo è ancora vero? Le regole vanno ridiscusse ogni volta? In ogni situazione? E chi le decide? Perchè tante persone si rifugiano in sette, religioni, partiti, bande, tifoserie, dove sostanzialmente c’e’ qualcun altro che decide per loro? Effettivamente sono più felici, protetti, strutturati contro l’indeterminatezza del mondo e delle scelte. Ed è possibile assumersi le conseguenze di una scelta? In questo periodo ho contatti con una persona che si paralizza, come si dice nel nel filmato, perchè vorrebbe che ogni decisione fosse la migliore, producesse conseguenze piacevoli e venisse accettata all’unanimità dal mondo in cui vive. Ma il gioco non riesce mai. Essere davvero liberi (e adulti) è accettare di essere imperfetti? E agire nonostante ciò? Sono low expectations? Ho due figli adolescenti: le regole sono fondamentali (devono studiare, non fare stupidaggini) ma devono anche imparare a pensare con la loro testa, e fare stupidaggini. Siamo su un crinale sottile. Non si può che riflettere, e prendersi il tempo per farlo.
Quali domande porre a uno specialista prima di sottoporsi a un intervento chirurgico o iniziare un trattamento farmacologico? Che cosa chiedere prima di firmare un consenso informato?
Sappiamo bene che tra paziente e medico molto difficilmente si riesce a costruire un rapporto tra pari (in alcuni casi o momenti sono convinto sia addirittura indesiderabile), ma dei suggerimenti per tessere relazioni costruttive esistono e si possono sperimentare. Consiglio di dare un’occhiata al sito di PartecipaSalute, il progetto curato dall’Istituto Mario Negri http://www.partecipasalute.it/cms_2/domande
Nello specifico del rapporto paziente/medico, citerei anche un’esperienza dell’Ausl di Ravenna (AA. VV., “Health literacy e shared decision making in oncologia”, Prospettive Sociali e Sanitarie, 1, 2013):
Ma credo anche che gli spunti di riflessione suscitati dall’intervento siano applicabili a livelli più generali, come già sottolineava Diletta.
(Si veda anche Pasquinelli S., Stea S., “Decidere senza scegliere”, Prospettive Sociali e Sanitarie, 16, 2008)
La situazione esposta da Barry Schwartz evidenzia un problema reale, ovvero quello della responsabilità rispetto alle scelte sulla salute individuale.
E’ indubbio che la responsabilità non può che essere della persona e che la sua consapevolezza e coinvolgimento nei percorsi di diagnosi e cura contribuisce a garantire l’adesione al trattamento e la sua efficacia. E d’altra parte è evidente come l’asimmetria di conoscenze tra il medico e la persona assistita è tale per cui il medico non possa abdicare alla propria parte di responsabilità sulle decisioni da assumere.
In un sistema di offerta sanitaria spesso ridondante nell’offerta di interventi diagnostici e terapeutici risulta cruciale la relazione tra il medico e la persona assistita. Rispetto alla parola d’ordine abusata “della persona al centro del sistema sanitario”, mi sembrerebbe più corretto sottolineare la centralità della relazione medico / persona assistita. E’ evidente che tale relazione non può essere che basata su un rapporto di libera scelta, di reciproca fiducia, di continuità e prossimità rispetto al contesto familiare e sociale.
Tali caratteristiche riconducono alla peculiarità della figura del medico di medicina generale / pediatra di famiglia su cui, non a caso, si è costruito il servizio sanitario pubblico italiano e che, nonostante le molteplici carenze, continua ad essere un presidio insostituibile.
Il medico di famiglia, mantenendo la propria responsabilità complessiva sulla salute dell’assistito, ha un ruolo insostituibile nell’accompagnarlo, consigliarlo e sostenerlo nelle scelte che riguardano la sua salute, fornendogli tutte le informazioni che ritiene necessarie, rispondendo ai suoi dubbi, motivandolo nelle scelte rispetto ai comportamenti e gli stili di vita.