Il lutto soffocato dal Coronavirus. Cosa fare?

di Nicola Ferrari*

“È stato ricoverato d’urgenza e da allora non ci ha più visto, non ha sentito le nostre voci, non ha più sentito la nostra forza. E quando è morto me lo hanno detto con una chiamata, al cellulare, neanche ti possono guardare negli occhi. Ho richiamato il dottore una, due, dieci volte perché volevo sapere cosa ha detto, cosa aveva fatto prima di morire. Come sono stati gli ultimi momenti? Quali sono state le sue ultime parole? Mi hanno detto che voleva andare a casa, che voleva noi, voleva solo noi, cercava sempre noi”.

Questa testimonianza è solo una delle tante che in queste settimane si possono trovare in rete e sui giornali e molte altre ne compariranno prossimamente. A tutt’oggi ci sono circa 10.000 decessi in Italia e 30.000 nel mondo: calcolando che in molti Stati l’epidemia è solo a livello iniziale e che in alcune continenti sono di queste ultimissime ore le segnalazioni dei primi decessi, quante famiglie nel giro di pochi mesi saranno in lutto?

Quante società sportive, gruppi di vario tipo, colleghi di lavoro, amici d’infanzia, comunità religiose e laiche si troveranno senza uno di loro? È del tutto realistico pensare a cifre con sei zeri.

E tutta questa immane quantità di persone in lutto, si ritroverà accomunata da un’esperienza molto simile: non aver potuto stare accanto a chi stava morendo, non avergli fatto sentire l’amore, il sostegno, l’amicizia; non essere riuscito ad ascoltarlo, a farsi vedere, ad abbracciarlo, aver vissuto la consapevolezza ora dopo ora che il decesso di chi si ama sta arrivando ed essere costretti a restare lontano, a casa, impotenti e incapaci.

Ma non finisce qui: perché poi c’è la vestizione del corpo, che non si può fare, non lo si può preparare con dignità e cura e poi c’è la salma che non si può vedere perché la bara va chiusa in fretta per motivi sanitari e poi c’è il funerale che non c’è: non c’è il rito, non c’è il saluto, non c’è il piangere con chi è disperato come noi, non c’è il sentirsi parte di una piccola comunità o di una grande famiglia. Non c’è la possibilità di sapere che il proprio caro è seppellito dove gli spetta di stare ma, molto spesso, ammucchiato dove c’è posto, insieme ad altri anonimi defunti. E pure, se si è tra quelli che hanno un posto dove andare a ricordare o pregare chi si è perso, non lo si può nemmeno vedere da lontano.

Ha finito di soffrire – è la consolazione di chi rimane. E ovunque collochiamo il nostro caro, probabile che sia così. Per lui.

Non per chi rimane, non per chi l’ha amato o gli ha voluto bene, non per chi lo stimava, lo desiderava o anche solo lo sopportava e lo accettava così, come era, come lui faceva con noi. Cosa accade allora a chi resta?

Dinamiche del lutto da Coronavirus

Nei tempi immediatamente successivi al decesso, come stiamo constatando dal nostro osservatorio tramite i contatti che ci arrivano, nei parenti-famigliari-amici di chi è morto per Coronavirus si manifestano:

  • un intenso senso di colpa (‘avrei potuto cercare di vederlo, potevo pensare di fargli avere un cellulare per comunicare, dovevo mandargli un messaggio tramite un infermiere o un dottore…’);
  • sensazione di sconforto dovuta al pensiero di avere mancato, di avere fallito umanamente nei confronti di chi è morto (‘non sono stato in grado di dirti che sono qui con te, di proteggerti, di consolarti’);
  • pensieri frequentissimi, a volte snervanti e molto acuti, fortemente deprimenti e carichi di angoscia perché riferiti in maniera continua a ricostruire o immaginare come la persona deceduta avrà vissuto gli ultimi giorni (‘cosa avrà pensato? Come si sarà sentito restando da solo?);
  • ira e rabbia per il senso di ingiustizia che si prova dovuto proprio alla causa della morte (‘non è giusto che mio padre sia morto così, non si può morire di qualcosa che non si vede, di un virus che arriva da lontano, non è possibile morire perché la scienza non trova un vaccino…’).

E poi ci saranno, di certo più complesse da decifrare ed affrontare, tutte le conseguenze nei tempi più lunghi, quando poi l’emergenza finirà e si potrà tornare ad una graduale normalità: con le bare già interrate, sarà possibile svolgere un ‘secondo’ funerale? E se non lo sarà, come si potrà salutare chi si ama senza la ritualità confortante e aggregante che da sempre genera un funerale religioso o civile?

Quanto inciderà la gioia di poterci riabbracciare, essere liberi e uscire, il desiderio di riprendere quegli impegni che almeno un po’ ci avvicinano alla vita di prima, con il dolore e lo strazio represso di dover andare dopo settimane dal decesso nella casa del padre, del nonno, nell’incontrare i parenti dell’amico o collega defunto, nello svolgere le pratiche burocratiche ineliminabili? Si vivrà un secondo lutto, condiviso ed espresso, dopo il primo, chiuso e quasi totalmente taciuto?

Questi sono solo alcuni degli interrogativi che emergono; molti altri ne appariranno presumibilmente con il protrarsi dell’isolamento e con il modificare di alcune variabili (la questione economica, ad esempio, sarà uno di quegli aspetti della vita dei prossimi mesi che inevitabilmente creerà ripercussioni a vari livelli, così come la durata del periodo di chiusura lavorativa e distanziamento sociale e la maggior o minore capacità della gente di riattivare forme di coesione sociale sul territorio).

Ma se di fronte a queste e altre difficoltà, quello che possiamo fare è al massimo ipotizzarle e prepararci ad intercettarle se si manifesteranno, tanto invece si può ora mettere in campo.

Cosa fare adesso?

Ossigenare il lutto. Infondergli l’aria, quella stessa che passa attraverso i bocchettoni, i tubi, il casco che vedevamo solo nei film strappalacrime e che ora sono il segno della guerra in corso.

Bisogna creare le condizioni perché lo strazio di questo lutto soffocato possa respirare a pieni polmoni: il dolore che si narra, che ha pieno diritto di cittadinanza quando trova luoghi, persone, momenti per essere raccontato e accolto da altri, diminuisce, nell’immediato, la sua carica angosciante, permettendo un iniziale senso di maggior sollievo e minore solitudine; se questo processo narrativo si riesce a proseguirlo e a condividerlo con altri nella stessa situazione, diventa allora possibile continuare a ricordare il proprio caro, o almeno iniziare a farlo, e a recuperare il suo lascito esistenziale (vero obiettivo di un percorso rielaborativo) nonostante l’isolamento in casa, l’impossibilità di svolgere il funerale, di incontrarsi con altri parenti o amici affranti.

Le possibilità sono varie, oltre a quelle più evidenti e utilizzate spontaneamente che si riferiscono cioè all’uso della rete, dei social, dei cellulari e di tutto quello che può essere utilizzato per creare contatti:

  • individuare un tempo preciso durante la giornata da dedicare a chi abbiamo perso. Può essere un momento anche breve, magari ripetuto più di una volta durante le settimane ma è importante, soprattutto se non si è in casa da soli, che sia concordato, preparato, atteso. Un momento specifico, apposta solo per chi non c’è più, che definisce una pausa nella quotidianità imposta e che sottolinea che ora niente è più importante del proprio caro defunto;
  • preparare lo spazio nel quale si starà per ricordarlo: non c’è bisogno di nulla di complesso, servono segni che rendano questo luogo intimo, dedicato, rispettoso. Può bastare una candela, una diversa disposizione delle sedie, la ricerca di una luce calda, una semplice attenzione e novità per terra, appesa al muro, sul divano, nel tavolino;
  • narrare quello che si prova: a voce alta, ognuno agli altri ma anche senza suono alcuno, consapevoli comunque che tutti sanno che stanno raccontando. Riempire di parole il dolore, farlo emergere, dettagliarlo, permettere che la sofferenza interna acquisisca forma e caratteristiche perché tutto ciò che si nomina, se le parole usate sono corrispondenti a ciò che viviamo interiormente, si può affrontare, diventa contemporaneamente dentro e fuori di noi. Oppure si può scrivere (ma il processo è identico): messaggi brevi e lettere lunghe, anche queste da condividere tra i presenti, da leggere a voce alta o da passarsi l’un l’altro in silenzio o da tenere gelosamente tutte per sé;
  • mantenere viva la memoria del nostro caro e ricordare l’intera sua vita, non solo l’ultimo periodo di malattia, per evitare proprio che questa fase finale si fissi in noi diventando totalizzante, dominante e invasiva; chi abbiamo perso era una persona che ha il diritto di non essere ricordata solo per lo strazio degli ultimi suoi giorni perché la sua esistenza è stata assolutamente più ricca e significativa. Aiutarci quindi a ripensarlo come era pienamente: la sua personalità, le sue passioni, i doni e i limiti, i momenti indimenticabili, i viaggi, il cibo che amava… Quando è possibile recuperare fotografie o oggetti a lui appartenuti o comunque significativi, utilizzando anche cellulari, eventuali profili in rete, materiale digitale presenti in computer o tablet: l’impatto è spesso molto intenso e coinvolgente e crea una immediata vicinanza e senso di appartenenza fra tutti i presenti;
  • creare rituali, anche semplici, per salutare e ringraziare il defunto: l’accensione di una candela, l’ascolto di una musica, la lettura di una poesia, la libera espressione di ognuno con una frase, la ripetizione di un gesto particolare appartenuto al suo modo di fare, piante un nuovo fiore, seme o albero se si ha un giardino o dei vasi…;
  • progettare il futuro: una volta finito l’isolamento, ci saranno tante incombenze da svolgere legate al funerale, eredità, casa, altre persone coinvolte…. Decidere insieme come gestire tutto quanto come modo da un lato per ‘continuare’ la vita e dall’altro per testimoniare concretamente l’amore per chi abbiamo perso prendendoci cura di tutte le conseguenze.

‘Voleva noi, voleva solo noi, cercava sempre noi’ è la testimonianza inserita all’inizio ma che corrisponde all’esperienza che hanno avuto migliaia di persone in riferimento ad un loro caro deceduto da solo in Ospedale.

E anche se non ho potuto esserci, se non ci sono state le condizioni oggettive per restare con il proprio caro, tenerne la mano, fargli sentire il proprio amore e la propria vicinanza concreta, possiamo dirlo ugualmente anche adesso: ‘sono qui, sono qui per te, sono sempre qui.’

Lo possiamo fare adesso, anche se il nostro caro non c’è più, e lo possiamo dire a testa alta se decidiamo che no, non il padre, non la nonna, no il figlio: non se ne andranno da questa terra, non se ne andranno definitivamente da questa terra.

Perché fino a quando saremo vivi, noi li ricorderemo. Diremo a chi abbiamo intorno che persona era il nostro caro, lo diremo onestamente, senza enfatizzare; e per quel poco che saremo capaci di fare, trasmetteremo ciò che ha lasciato alla nostra vita e a quella di chi ancora amiamo.

Non è indispensabile uscire di casa per iniziare tutto questo.

 

*Supporto alle persone in lutto 

assmariabianchi@hotmail.com –  www.mariabianchi.it

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