di Elena Merluzzi *
Le categorizzazioni aiutano a comprendere la portata del fenomeno povertà e stimolano l’immaginazione sulle possibili soluzioni. La situazione odierna ci impone una disamina delle motivazioni che inducono molte persone (una stima che supera il 50% secondo gli ultimi studi effettuati) a richiedere un supporto, un sostegno prevalentemente di natura economica.
A cosa serve una classificazione? Potrebbe indurre in facili schematismi ma potrebbe altresì suggerire possibili soluzioni e risposte. Nell’accezione vasta classificare significa interpretare uno stimolo, un fenomeno, riuscire ad approfondirne gli aspetti. La scelta di classificare, quelli che da molti studiosi vengono definiti “nuovi poveri”, nasce dall’esigenza di comprendere la natura e le motivazioni che inducono una persona a rivolgersi ad un servizio sociale.
E da qui si vuole partire.
Due fattori importanti sono da considerare per capire la portata di un vero e proprio fenomeno che prende forma sulla scia della crisi economica che ha investito il nostro Paese: mancanza di lavoro e rottura delle strutture familiari; questi due fattori sono alla base di un processo che conduce molti individui a sperimentare periodi di carenza di liquidità. A questi due fattori si aggiungono, inoltre, le conseguenze dell’impoverimento: l’esordio di disturbi fisici (mentali e alimentari), l’isolamento sociale, la mancanza di prospettive future.
Il lavoro nel servizio sociale, in un momento di crisi economica, richiede maggiore analisi oggettiva della situazione onde evitare di incorrere in “poveri a metà”. I poveri a metà sono quelle persone che provano a richiedere un contributo pur non avendo i requisiti o comunque si riservano di comunicare i beni in loro possesso. Ad esempio gli intestatari di immobili da cui traggono un affitto seppur esiguo, proprietari di casa dove alloggiano, intestatari di invalidità, proprietari di terreni coltivabili. Pur trattandosi di entrate minime garantiscono la sopravvivenza del nucleo ma non rappresentano per lo stesso un sostegno continuativo. Tra i poveri a metà si enucleano anche coloro che utilizzano il sussidio a loro concesso per fini utilitaristici (videopoker, spesa del superfluo ecc.), ciò avviene perché non riconoscono appieno i loro bisogni e non hanno capacità di gestire il denaro e quando ne sono in possesso sono incapaci ad amministrarlo. Vi rientrano anche quelle persone che, seppur indebitate, con utenze scadute ed affitti arretrati, tendono a rimandare il pagamento delle spese accumulando debiti in vista di un guadagno futuro.
Prendiamo in prestito un termine utilizzato dal prof. Remo Siza nel suo libro Le povertà provvisorie (pubblicato nel 2009 con Franco Angeli), ossia il termine “provvisorio” alias “momentaneo”. Appartengono a questa categoria le persone che, al momento, sono sprovviste delle risorse per fronteggiare la crisi; sono sempre di più e non in grado di arginare le difficoltà sono tutte quelle persone investite dalla crisi, schiacciate dall’imprevisto.
Dal termine provvisorio stiliamo una classificazione modificando lo stesso termine in “sospeso” (enucleandone le caratteristiche), gli “smarriti”, i “generazionali” e gli “assistiti”.
Sospesi: sono coloro che si trovano in una situazione di passaggio, intermedi tra un lavoro certo ieri e l’incognita del futuro oggi. Non hanno sperimentato situazioni di grave disagio, non appartengono alla generazione dei poveri, hanno dei risparmi con modalità di gestione efficienti ma non posseggono garanzie. L’incertezza è la prerogativa della situazione vissuta. Le capacità di resilience sono ben strutturate ma lo stato emotivo di sconforto non permette una razionale incanalazione del disagio. Si rivolgono al servizio sociale con titubanza e scetticismo, chiedendo sostegno e rimarcando la temporaneità della problematica. Spesso le possibilità di superare il disagio sono maggiori poiché nel corso della loro vita hanno creato una solida rete di sostegno familiare ed amicale tale da proteggerli da un isolamento sociale. A volte la motivazione a rivolgersi al servizio sociale nasce più dall’estraneità del servizio stesso a cui affidarsi rispetto ad un conoscente di cui si teme il giudizio oppure il rifiuto per un aiuto. Il sostegno offerto dal servizio per i “sospesi” è quello di “accompagnare” la persona ad un cambiamento e a rivedere alcune dinamiche personali al fine di favorire una chiave di lettura critica della problematica presentata.
Smarriti: chi appartiene a questa tipologia? Il termine dispersione rimanda nell’immaginario ad uno spazio esteso dove è facile perdersi , dove la scelta tra imboccare una strada o rimanere fermi è pericolosa quanto l’attesa. Gli smarriti sono coloro che attendono che qualcosa cambi, si modifichi o che qualcuno scelga per loro. Come si rapportano al servizio? In maniera altalenante tra consapevolezza e incapacità di poter cogliere un segnale di miglioramento; aspettano che qualcuno si sostituisca a loro per rendere meno difficile il probabile fallimento.
Tra le due categorie suddette si collocano coloro che hanno sempre vissuto di relazioni basate sullo scambio reciproco, ma anche sull’assistenzialismo puro, i poveri generazionali, nati in contesti deprivati dove hanno imparato a vivere di ciò che riuscivano ad ottenere.
Sono i Generazionali: conoscono le associazioni di volontariato, sono inseriti in tutte le liste di beneficenza ma non riescono a considerare una progettualità che li veda coinvolti. Non ci sono margini di contrattazione, sopravvivono agli eventi e si lasciano trasportare dagli stessi, i lavori svolti sono saltuari, finalizzati all’acquisto del necessario; sono figli di realtà familiari povere. Gli instabili sono incapaci di creare delle relazioni stabili, una rete amicale di supporto, vivono ai margini, isolati; non hanno progetti a lungo termine ma attuano solo tentativi di sopravvivere nel “qui ed ora”; di solito hanno un disabile in famiglia (fisico o mentale) e accentrano su di lui le risorse residue.
Assistiti: gli assistiti sono coloro che non utilizzano le loro capacità personali lasciandole sopite e che utilizzano invece le risorse esterne per fronteggiare situazioni di disagio socio-economico. Non chiedono ma pretendono, conoscono i loro diritti, sono inseriti nell’assistenzialismo puro, per cui non riescono a programmare senza che qualcuno indichi loro la strada. Conoscono perfettamente i servizi sociali, sanno come muoversi e cosa chiedere, conoscono le agevolazioni che gli spettano, cercano di “sfruttare” la loro condizione di povero. Gli assistiti rimangono fermi, stabili nella loro posizione, ne soffrono ma non riescono a percepirsi in maniera diversa. Il supporto offerto dal servizio sociale è di approfondimento della loro condizione, ricercare insieme le risorse e le capacità personali, farli uscire da un circuito assistenzialistico da cui rimarrebbero schiacciati. È un lavoro complesso perché trattasi di persone indurite dalle situazioni fallimentari, incapaci di percepirsi come parte di un sistema.
Nel lavoro dell’assistente sociale nel front office e nella quotidianità di ascolto delle storie di vita una tale classificazione è soggetta a degli assestamenti e deve essere scevra da strutturazioni puntuali. Serve a riflettere, a porsi delle domande e a non inquadrare in stereotipi mentali l’utenza disagiata.
* Assistente sociale, Sociologa
E’ di Remo Siza l’editoriale del numero di Autunno di Prospettive Sociali e Sanitarie. Scaricalo qui
Mi ha un po’ spiazzato questo contributo, senz’altro molto ampio e articolato.
Forse troppi contenuti in così poco spazio, risultando a tratti un po’ troppo categorico. (scusate il gioco di parole commentando un articolo dove si parla di categorizzazioni in termini positivi!)
Dare per scontato che la classificazione “dell’utenza disagiata” possa dare stimoli e spunti per immaginare nuove soluzioni mi pare un obiettivo senz’altro auspicabile, non so quanto realizzabile in questo contesto economico dove c’è sempre più fatica ad arginare le richieste, dove le risorse sono sempre di meno, dove aumenta il turn over degli operatori per esaurimento di energie.
Io credo che forse classificare possa servire a semplificare, a poter avere una serie di proposte-risposte già preconfezionate destinate a questa o quella categoria di persone.
Immagino possa anche aiutare a placare l’ansia che un operatore prova quando deve intuire in poco tempo quale tipologia di utente ha di fronte.
Ma una volta che la persona è stato categorizzato, la sua etichetta per quanto tempo se la porta? Quante volte nel susseguirsi di operatori sociali che si occupano del caso, ci si domanda se la situazione è cambiata, si è evoluta? Oppure per risparmiare tempo ed energie non si mette in discussione nulla e si prosegue nella direzione precedente?
Chiudo domandandomi se nel classificare comportamenti sociali non si corra anche il rischio di giudicare. Quindi come l’autrice stessa scrive occorre liberarsi da pregiudizi e stereotipi.
Come è difficile fare epoché. Con la guardia giurata fuori dalla porta.
ciao Pierluigi, grazie per il tuo commento. sai quando ho scritto questo articolo l ho fatto dettata dall’impulso arrivato proprio da un utente. un giorno mi disse “sono povero”. ed io risposi “in che senso povero?”. la replica fu “in un unico senso: povero”. il lavoro iniziato con lui risultò soprattutto di natura psicologica, per sostenerlo in quello che per lui era diventato un “nuovo ruolo”.
ho fatto una premessa: a me non piacciono gli schematismi, nè le categorie ma i gruppi. questa volta pero è servito ad una riflessione sulla portata del fenomeno. durante ilnostro lavoro non dobbiamo tenere a mente una categorizzazione ma dovremmo, secondo mio modesto parere, riuscire ad andare oltre il concetto di “povero” tout court. da sempre i comportamenti sociali vanno classificati ma la classifica non deve essere rigida ed ho cercato di sottolinearlo, è uno spunto di rilfessione in questo particolare momento storico, per superare la “vecchia” spartizione povero-ricco. la vita è fatta di sfaccettature ed anche il fenomeno povertà. grazie ancora.
Elena Merluzzi