di Carmelo Guarino*
Nell’aprile 2016 il Consiglio Superiore di Sanità e il Ministero della Salute hanno pubblicato un documento dal titolo Le infezioni sessualmente trasmesse, in cui sottolineano la necessità di promuovere livelli crescenti di formazione, informazione e sensibilizzazione sull’argomento. In effetti, i dati epidemiologici, diffusi da organizzazioni come il WHO, i Centers for disease control and prevention di Atlanta (CDC) e lo European Center for Diseaes Control and Prevention (ECDC), proprio con riferimento all’epidemia da HIV/AIDS e alle infezioni sessualmente trasmissibili (STIs), dalla sifilide alla gonorrea fino alla clamidia, tracciano un quadro a tinte fosche, ulteriormente aggravato dalla diffusione di nuovi modelli comportamentali a elevato rischio di contagio, fondati su conoscenze approssimative e superficiali che si associano a una generale sottovalutazione del fenomeno, soprattutto tra i giovani.
Il nostro Paese non fa certo eccezione. Anzi, rivela un ulteriore fattore di rischio rappresentato dalla mancanza nei curriculum scolastici della disciplina dell’educazione sessuale, nonostante le diverse proposte di legge depositate già dagli anni ‘70 in Parlamento e i numerosi report internazionali pubblicati negli anni da organizzazioni come l’Unesco, il WHO e il Dipartimento per le politiche interne dell’Europarlamento. Si pensi al documento dal titolo Sexuality education: what is its impact? pubblicato nel 2016 e curato dal Centre for health education e dal WHO secondo cui l’educazione sessuale realizzata in maniera sistematica nel contesto di un ambiente di apprendimento strutturato produce hard outcomes sulla salute dei giovani, come dimostrato dall’esperienza di diversi paesi europei. Nello specifico, secondo il documento, la presenza della disciplina nel curriculum scolastico consente la riduzione delle gravidanze in età adolescenziale e degli aborti, la diminuzione delle STIs e delle infezioni da HIV tra i giovani di età tra i 15 e i 24 anni, la diminuzione degli abusi sessuali, delle violenze e dei fenomeni di omofobia. Già secondo il rapporto Policies for sexuality education in the European Union, pubblicato nel 2013 dal Dipartimento per le politiche interne dell’Europarlamento, l’educazione sessuale nelle scuole rende i giovani responsabili e consapevoli dei rischi derivanti dai comportamenti sessuali precoci e condomless. Dello stesso parere è l’Unesco che, nell’International technical guidance on sexuality education pubblicato nel 2009, sottolinea che solo attraverso politiche formative adeguate è possibile evitare gravidanze indesiderate e il contagio di HIV/AIDS e STIs. Anche la Commissione europea nella comunicazione all’Europarlamento dal titolo La lotta contro l’HIV/AIDS nell’Unione europea e nei paesi vicini, 2009-2013 del 2009 ha sottolineato che l’integrazione di corsi sulla salute sessuale e riproduttiva nei programmi scolastici andrebbe a vantaggio della prevenzione dell’HIV e delle STIs, mettendo a punto informazioni adeguate destinate, in particolare, ai giovani minacciati di esclusione sociale.
La diffusione dei comportamenti sessuali a rischio soprattutto tra i giovani, legati prevalentemente a rapporti condomless o alla scarsa propensione al testing (che determina frequenti casi di diagnosi tardiva) è testimoniata dai dati della Fondazione Foresta Onlus secondo cui oltre il 40% dei giovani non usa il condom durante i rapporti sessuali, perché costoso e poco pratico. Tale circostanza sembra confermata dai dati di IMS Health e Nielsen secondo cui le vendite di profilattici dal 2007 hanno registrato in Italia un calo del 16% configurando un significativo indicatore di rischio specie se associato ai dati più recenti di SWG, secondo cui gli italiani che sanno cosa sia l’HIV e come si trasmetta sono solo la metà (con percentuali di poco inferiori al 50% e con una prevalenza nella fascia d’età 25-34 anni).
Tra i paesi che in Europa hanno inserito la disciplina nei piani di studio scolastici vanno citati il Lussemburgo (1970), l’Irlanda (1990), la Lettonia (1998), la Lituania (2002), l’Olanda (1990), la Polonia (1966), il Portogallo (1991), il Regno Unito (1986), l’Austria (1970), il Belgio (1984), la Danimarca (1991), la Germania (1968) (Romano, Zitelli, 2016). Tali esperienze hanno fornito alle diverse organizzazioni internazionali le necessarie evidenze per sottolineare l’importanza dell’educazione sessuale che, nei fatti, configura educazione alla salute e al rispetto per le persone. Tra i paesi che non hanno ancora inserito la disciplina di educazione sessuale nelle scuole, spiccano, al contrario, l’Italia, la Bulgaria, la Lituania, la Polonia, Cipro e il Regno Unito, dove peraltro l’incidenza dell’HIV/AIDS, come mostrato dai dati più recenti dell’ECDC, rivela un andamento epidemiologico preoccupante.
A fronte delle strategie di prevenzione e cura individuate dalla World health assembly nel 2011, con la risoluzione WHA64.14, in tema di lotta sostenibile all’HIV/AIDS e alle STIs da realizzare entro il 2021, in Italia alcune “criticità di sistema” legate all’esiguità delle risorse e a questioni organizzative rischiano di impedire un’adeguata gestione del problema. Tale circostanza va ricollegata anche a politiche istituzionali di informazione che, spesso affidate a Popular opinion leader e testimonial d’eccezione del mondo del cinema e dello spettacolo, hanno trattato il tema in maniera inadeguata, insufficiente o fuorviante, pur non dimenticando le campagne di associazioni come Lila o Anlaids che appropriatamente hanno sottolineato il valore del profilattico nella prevenzione delle STIs e dell’HIV/AIDS. Nonostante la recente campagna di Convivio – la mostra-mercato benefica organizzata ogni anno a Milano, i cui proventi vanno alla lotta contro l’AIDS – il cui slogan 2016 recitava “L’Aids è di moda”, non rappresenti certo un modello di comunicazione adeguato alla drammaticità e gravità del quadro epidemiologico di riferimento, resta memorabile la campagna di Pubblicità progresso del 1987: l’immagine di due mani che si scambiano la confezione di un condom, e che rievoca La Creazione ritratta da Michelangelo sulle volte della Cappella Sistina, centra il problema in modo chiaro ed efficace.
Già nel secolo scorso, Émile Durkheim, nell’articolo L’Éducation sexuelle pubblicato nel 1911 per il Bulletin de la Société Française de Philosophie, sottolineava che il discorso educativo – che pone i soggetti nella condizione di comprendere e interpretare il mondo, nel tentativo di rendere intelligibili i fatti che lo governano – non può prescindere dai principi di educazione e di igiene sessuale che si rivelano essenziali non solo per i giovani, ma anche per gli adulti, per evitare i rischi fisici e lo smarrimento morale derivanti da un’inadeguata informazione. In questo modo lo studioso anticipava l’idea secondo cui un progetto educativo complessivo non possa prescindere dalla dimensione della sessualità e dell’affettività, al fine di creare le condizioni per la formazione di una coscienza civile e politica improntata alla responsabilità individuale e al rispetto delle persone. Più recentemente Michela Marzano in un articolo dal titolo Se il gender a scuola aiuta a combattere le discriminazioni, pubblicato nell’ottobre del 2016 su la Repubblica, afferma che lo scopo della scuola è anche, e forse soprattutto, quello di mettere un po’ di ordine nel mondo, di costruire i presupposti di un vivere insieme in cui ci si accetta indipendentemente dalle proprie differenze e, dunque, di combattere ogni forma di discriminazione e bullismo. Tale circostanza si rivela tanto più importante se pensiamo che nella postmodernità la comprensione del mondo è veicolata per larga parte dal web, dalle nuove realtà online e dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in cui centrale diventa la categoria del rischio (si pensi a fenomeni come il sexting, il cyberbullismo o il grooming), ampiamente discussa da intellettuali come Ulrich Beck, di cui spesso appare impossibile valutare portata, effetti e conseguenze. Come ha scritto Anthony Giddens in Runaway world. How globalization is reshaping our lives del 1999, In un mondo mutevole e sfuggente come quello contemporaneo, le istituzioni democratiche per essere tali, devono rispondere ai bisogni, alle istanze e alle preoccupazioni dei cittadini con decisioni pubbliche sempre più incisive per tutelarne condizioni e qualità di vita.
Eppure, nonostante i report delle grandi organizzazioni internazionali, le evidenze scientifiche e le numerose proposte di legge depositate in Parlamento dai diversi partiti, a oggi il nostro Paese non ha ancora adottato una legge che preveda l’inserimento della disciplina di educazione sessuale nelle scuole. Anzi, in alcuni casi, proprio il nostro Paese ha ostacolato in sede europea l’approvazione di decisioni che avrebbero consentito l’adozione di standard comuni e vincolanti sul tema: era il 26 settembre 2013, quando il Parlamento europeo fu chiamato a esprimersi sul documento 2013/2040 (INI) On sexual and reproductive health and rights, presentato da Edite Estrela, deputata del Partito socialista portoghese, nel quale si sottolineava il valore della salute quale bene primario, in quanto diritto propedeutico all’esercizio di altri diritti. Nello specifico, nei punti dal 43 al 48, il documento rilevava la necessità indifferibile di rendere obbligatorio l’insegnamento dell’educazione sessuale nelle scuole primarie e secondarie e l’urgenza di sviluppare e attuare programmi e corsi di educazione e formazione post-laurea obbligatori sui temi riguardanti la salute sessuale e i diritti riproduttivi. Ma il documento venne respinto, proprio per il voto contrario dell’Italia.
In tal modo, il nostro Paese, piuttosto che ispirarsi alle best practices internazionali, ha perpetuato un vulnus culturale e consolidato le condizioni per un ampliamento della dimensione del rischio epidemiologico e delle refluenze sociali connesse.
* Ricercatore universitario di Sociologia giuridica, della devianza e mutamento sociale, si occupa di fenomeni legati alla salute e alla medicina.
Un approfondimento sul tema, firmato dallo stesso autore, è apparso nel numero di ottobre -novembre 2016 di Prospettive Sociali e Sanitarie.