Che cosa emerge dalle famiglie in emergenza Covid-19

L’esperienza di ascolto del Gruppo Solidarietà

Gloria Gagliardini* (a cura di)

 

Obiettivo di questo scritto è documentare quanto emerso dagli incontri e dai contatti con i familiari delle persone con disabilità in questi mesi di emergenza Covid.

Desideriamo far emergere i vissuti delle famiglie, in particolare dalla prospettiva dei familiari del gruppo di auto mutuo aiuto (AMA) (vedi Gloria Gagliardini, Gruppo Solidarietà e Auto Mutuo Aiuto: il racconto di un’esperienza, in Appunti sulle politiche sociali, n. 4/2017), che ad oggi si compone di circa una quindicina di familiari del territorio dell’Ambito Territoriale Sociale 9: genitori di età attorno ai 70 anni, con figli con disabilità, età media di 40 anni. Tra loro pochi usufruiscono di sostegni domiciliari, mentre la maggior parte ha come supporto il Centro Diurno; in due casi i figli abitano in comunità.  Le famiglie monogenitoriali – madre con figlio adulto – sono quattro.

Il gruppo AMA continua a tenersi in contatto da marzo con telefonate tra singoli, da maggio con incontri su piattaforma virtuale, una volta alla settimana. Il clima emotivo di questi mesi è significativo, ci si rispecchia tutti in questa base comune di isolamento in casa. Si passa dal subire questa situazione emergenziale di paura a una riconversione quasi di riscatto, in cui si cerca insieme il coraggio di condividere l’esperienza individuale dandole forma in un pensiero collettivo. Con sorpresa vediamo genitori quasi ottantenni scaricare l’APP per collegarsi su piattaforma web, confrontarsi con gli altri in una modalità completamente nuova.

Queste sono le stesse situazioni familiari che:

  • poco prima dell’emergenza, erano in attesa di capire se avrebbero usufruito dei “sollievi”, dopo un faticoso groviglio interiore per delegare un po’ della propria responsabilità genitoriale ad altri, con risvegli di paure legate ai primi anni di vita dei figli, alle malattie incontrate, a ferite ancora non cicatrizzate;
  • avevano appena terminato le riunioni annuali per i rinnovi dei piani educativi a febbraio ritenuti per lo più atti burocratici più o meno sempre uguali;
  • si definivano stanche e affaticate dalla loro quotidianità;
  • dicevano di “vivere una vita parallela agli altri”, e di sentirsi “poco capite da chi la condizione di disabilità non la vive”.

Tutto questo non lo possiamo dimenticare, perché la pandemia arriva in ciascuna di queste case e porta chiaramente ulteriore affaticamento. Ricordiamo che i familiari dei Centri Diurni erano abituati a un servizio di sette ore al giorno, quindi a un importante sostegno all’interno di un carico assistenziale importante. Un servizio quindi per i figli ma funzionale ai genitori, dove non sempre risultava chiaro ai familiari il progetto educativo individuale.

In questo documento portiamo alla luce i punti che riteniamo significativi per una riflessione che riguarda tutti: comunità territoriali e servizi. Siamo consapevoli che dal punto di vista di ciascuna storia di vita non si tratti semplicemente di riattivare servizi e di avere nuovamente la possibilità di uscire, ma tutto è più complesso e delicato. Ci auguriamo di ricavare dall’ascolto di queste esperienze preziosi spunti da cui ripartire.

 Marzo: “Paura e paure”

 ’epidemia da Covid-19 viene annunciata in Italia a fine febbraio. A inizio marzo chiudono le scuole.  Giorni nei quali regna per tutti confusione mista a timore di cosa sarebbe potuto accadere e di quali regole adottare. Le famiglie che usufruivano dei centri diurni erano impaurite e tra di loro si chiedevano quali decisioni prendere rispetto alla frequenza dei figli al Centro Diurno.  Il 10 marzo la Regione Marche chiude i Centri diurni sociosanitari, anticipando quello che poi una settimana dopo sarebbe stata la direttiva nazionale (articoli 47 e 48). Emergeva dai familiari tanta paura del virus e ancor più la paura di non poter reggere a questo evento, specialmente in quei nuclei familiari costituiti da sole madri con figli adulti: questa volta si era davvero soli in casa, privati di una fondamentale rete esterna di sostegno.

Quali le paure emerse? Sopra tutte le altre la paura di ammalarsi e non sapere a chi lasciare i figli, ma anche angoscioso timore rispetto alle reazioni dei figli all’isolamento: qualcuno ci ha detto di aver aumentato il dosaggio dei farmaci. E poi grande disorientamento: in quella prima fase non si sapeva ancora come i servizi territoriali si sarebbero organizzati in caso di malattia da Covid per questi nuclei.

In ogni caso la paura del contagio in questo periodo è quella prevalente a cui si risponde con forte protezione verso la propria famiglia. L’isolamento in casa è vissuto come un rifugio sicuro, meglio quello che rischiare la propria salute e quella dei figli. Si sopporta la fatica assistenziale continuativa e la noia di stare in casa in una routine tutta da riprendere, non si chiede aiuto neanche ad altri figli, se non in alcuni casi per la spesa. Ognuno cerca di cavarsela da sé, con la speranza di una normalità imminente. In alcuni genitori si è manifestato un alto livello di stress: oltre al senso di impotenza e di inadeguatezza era venuta meno – con l’impossibilità di uscita del figlio da casa – quello spazio prezioso di libertà personale in grado di far loro riprendere respiro.

Significativa è stata a riguardo l’ordinanza n. 16 della Regione, che permetteva spostamenti a “soggetti con disturbi psichici”.  Per alcuni familiari è stata la possibilità concreta per riprendere energia vitale, anche solo portando il figlio in auto per il paese, ma anche in questa situazione non sono mancati nuovi timori: quello, ad esempio, di doversi “giustificare” con le forze dell’ordine o quello di subire gli sguardi irritati di chi non conosceva la situazione.

Questa possibilità di uscire ha abbassato il livello di “congelamento emotivo” di chi ha disabilità intellettiva, sperimentando che una passeggiata all’aria aperta faceva bene alla salute, che il virus non era ovunque. È stato anche il primo modo per prendere confidenza con la mascherina, passando prima dalla sciarpa, poi dal foulard, restando in macchina mentre il proprio genitore faceva la spesa, e osservare che se gli altri che indossavano la mascherina non era per malattia, ma per precauzione.

Siamo a metà marzo: nel nostro territorio per alcuni giorni vengono sospesi i servizi di educativa territoriale, per mancanza di dispositivi di protezione degli operatori. Chi ne usufruiva si trova quindi a non avere più quel sostegno. Questi servizi riprenderanno – con precedenza ai casi considerati urgenti – ma con fatica e lentezza anche per la necessità di riallacciare rapporti di fiducia con le stesse persone con disabilità e con le famiglie impaurite dal contagio. Le famiglie non hanno chiaro dove si può andare con l’operatore: stare in casa in una stanza senza familiari, uscire dove, distanziati quanto.

Insomma, se per chi ha figli con disabilità complessa gli atti di normale quotidianità comportano già fatiche fisiche e psicologiche, una situazione estrema come quella della pandemia, le ha amplificate a dismisura.

Aprile: “Resistere adattandosi al giorno dopo giorno”

Il clima emotivo è cambiato, c’è sempre tanta paura ma anche una nuova abitudine appresa, in cui ciascuno si è risistemato: l’incoraggiamento reciproco è “resistere”, “ce la faremo”. Le famiglie si sentivano tra loro, anche per scambiarsi le informazioni avute dai coordinatori dei servizi.

Le chiamate riguardavano per lo più il servizio di educativa domiciliare, ma ancora con tanti interrogativi. Chi sarebbe andato? Un educatore del diurno? Un operatore conosciuto o uno sconosciuto? Per che cosa fare? Passeggiate, ma dove? Ancora non è caldo, in casa no per paura del contagio… E poi, per quante ore? Le famiglie erano in difficoltà, non sapevano che cosa rispondere.

La vita in casa si era assestata in una nuova routine: dopo un primo mese in cui c’è chi prova anche a stimolare il figlio a livello motorio, cognitivo, ci si adagia in una situazione temporale che non prevede una fine a breve.

Chi lavora in smart working con il figlio seduto in carrozzina accanto per metà della giornata; chi mantiene una possibilità di uscita anche piccola per comprare il giornale perché sa che la letture del  quotidiano può fare la differenza di umore; chi esce solo in macchina facendo giri a vuoto con il solo obiettivo di prendere aria; chi inventa tanti dolci da cuocere; chi gioca a carte per  più pomeriggi di seguito col proprio figlio; chi si addormenta sul divano e si lascia andare all’apatia dei giorni, mentre il figlio in camera ritrova giochi con cui impegnare le giornate come vecchi puzzle; chi tutto il giorno segue ogni serie televisiva spostandosi solo dal divano alla sala da pranzo e al letto; chi racconta di aver dovuto reggere a crisi nervose del figlio senza sapere come fare, a chi chiedere aiuto.

Emerge, dunque, un clima abbastanza apatico per tutti, con pochi o nulli stimoli esterni. Un mondo fuori che entra poco o quasi niente, anche solo telefonicamente. Alcune persone con disabilità non ricevono alcuna chiamata, chi riesce, invece, tenta di farle. Le due persone che prima dell’emergenza avevano una rete sociale fatta di impegni extra ai servizi, riescono a mantenere relazioni sociali anche a distanza.

Maggio: “Sentire che i servizi ci sono anche ora, è pretendere troppo?”

Sono trascorsi due mesi da quanto tutto è iniziato.

Le emozioni che emergono sono angoscia, preoccupazione, confusione, paura, disorientamento e stanchezza. “Sono confusa, mi viene da piangere, tanta malinconia e solitudine. Non si può andare avanti così”.

Ancora chiaramente verbalizzati sono il bisogno di protezione della salute e quello della socialità per i figli che hanno patito l’isolamento fisico e sociale per due lunghi mesi.

Alcuni lamentano con grande dispiacere il non aver avuto una telefonata da parte degli educatori, con i quali i figli avevano un rapporto quotidiano. Le persone del Centro Diurno sono ricordate come il “gruppo di amici”. Ricevere videochiamate, quindi, sarebbe stato vissuto dai familiari come il segno che il proprio figlio veniva considerato una “persona con pari dignità umana”.

L’assenza del mondo fuori casa, sollecita un confronto nuovo, quello di rimisurarsi con il livello di fiducia verso l’esterno che per alcune persone con disabilità complessa è rappresentato solo o quasi dalle relazioni che si intrecciano attraverso gli educatori dei servizi di cui usufruiscono. “Se tutto questo calore umano non c’è stato in questi mesi, come posso rifidarmi?” Ci si sente insicuri, fragili, soli, scoraggiati, sconfortati. Dalle parole dei familiari emergono comunque altre esigenze:

  • il bisogno di sentirsi compresi nell’incertezza nel prendere una decisione sul servizio e nel peso del forte carico di responsabilità;
  • il bisogno di sentir riconosciuto un trattamento dei figli al pari degli altri (giustizia), “essere chiamato per nome da chi lo conosce, essere riconosciuto, essere appartenente ad una comunità”;
  • il bisogno di avere autonomia/autodeterminazione di pensiero: riprogrammare la vita con una certa stabilità per il genitore e per il figlio.

 

Dal 17 maggio a oggi, 4 giugno: “Tra speranze, delusioni e adattamento a nuove (e complesse) regole sociali.”

Da metà maggio, si sperimenta un’altra fase ancora. Per chi usufruisce di progetti come il Dopo di Noi e il servizio di educativa domiciliare, si vive una condizione di ripresa certa. I figli si sperimentano assieme agli educatori con il mondo fuori e le nuove regole sociali, c’è uno scambio e una riprogettazione con i servizi.

Nella delibera regionale che stabilisce le modalità di riapertura dei Centri Diurni e nel Piano territoriale di riattivazione dei servizi, si prevede, per il nostro Ambito sociale, il riavvio al 3 giugno. I familiari che usufruiscono dei Centri Diurni hanno certezza che le cose possano ripartire. Si sperimentano però ancora informazioni poco chiare da parte dei servizi, alcune errate, come ad esempio l’obbligo indiscusso della mascherina. Si vive poi l’insicurezza rispetto ad una ripresa, della quale ancora non si conoscono orari, modalità di trasporto ecc.

Ma ancora più deludente e scoraggiante l’altalenarsi di informazioni per chi aveva richiesto l’attivazione del servizio domiciliare, che sembrava accordato, sino alla comunicazione di una mancata autorizzazione che blocca tutto. Dalla delusione alla rabbia.

La questione della fiducia nei servizi torna di nuovo, non si capisce dove la macchina si sia inceppata, chi bisogna chiamare, di chi sia la responsabilità. C’è chi ci ripensa, chiudendosi di nuovo nelle proprie paure. Nel frattempo non si sa ancora la data di riapertura del servizio diurno, alcuni serbano paure per il tampone da fare, avendo esperienza della difficile gestione di ogni visita medica al proprio figlio.

Dal punto di vista sociale, si vive un cambiamento. In questo periodo le famiglie iniziano ad uscire con i propri figli, piccole uscite per acquisti, ma non tutti riescono a tollerare la mascherina e si scontrano con quei negozianti che non li fanno entrare senza il dispositivo o che fanno entrare solo il genitore lasciando fuori il figlio disabile. Tristezza, delusione, senso di ingiustizia. Bisogno di informazioni anche su questo e di sapere cosa poter rispondere e come “difendersi” da sguardi ostili di persone in fila al supermercato o da chi minaccia la multa.

Anche tornare al bar vicino casa portando con sé il proprio figlio diventa difficile, ci sono misure da prendere e regole sociali nuove con cui misurarsi, e con cui far misurare i figli che non le comprendono. Il bar non viene più vissuto come il luogo dello scambio sociale, nulla è più come prima. C’è chi, preso dalla paura del contagio sommato alla fatica e allo sforzo fisico che implica uscire con il figlio adulto e intollerante alla mascherina, rinuncia ancora alla spesa al supermercato.

Tutti siamo stati chiamati a misurarci con una società che ha dettato permessi e divieti nuovi, regole impensabili sino a pochi mesi fa, e tutti lo abbiamo fatto e lo stiamo facendo con enorme fatica; per chi già vive ogni giorno una situazione difficile anche senza Covid, tutto questo diventa un carico di responsabilità ulteriore, per il quale servono ancora più forza, ancor più grinta.

E ancor più supporto dai servizi e dalla comunità.

 

*Educatrice, facilitatrice gruppo AMA, Gruppo Solidarietà

Una versione più articolata e apprfondita di questo testo è disponibile qui.

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