La rete dei servizi residenziali psichiatrici: modelli e culture a confronto

di Daniela Teagno*

L’articolo che qui presentiamo deriva da un’indagine condotta sul territorio piemontese, alzando lo sguardo anche a livello nazionale ed europeo, sulla filiera dei servizi residenziali psichiatrici. La ricerca è stata fortemente voluta e finanziata dalla Fondazione Casa dell’Ospitalità Onlus di Ivrea (TO). I risultati sono contenuti in un report (consultabile sul sito internet  www.casaospitalitaivrea.it, aprendo nel menu la voce “La salute mentale oggi e domani”), che presenta un quadro necessariamente  incompleto ma che offre più angolazioni e diversi punti di vista sul mondo della salute mentale, sulle tendenze in atto, sui bisogni vecchi e nuovi, sulle risposte date o non date. Un articolo più approfondito, firmato dalla stessa autrice del post, verrà pubblicato in uno dei prossimi numeri di Prospettive Sociali e Sanitarie.

Le problematiche di salute mentale rappresentano nell’Europa di oggi (che comprende più di 50 Stati e quasi 900 milioni di persone che vivono in condizioni culturali, economiche, sociali e politiche diverse) una sfida per la salute pubblica in termini di prevalenza, carico della malattia e disabilità, nonché dal punto di vista economico e sociale. Emerge una grande eterogeneità fra gli stati europei: la quantità e la qualità dei servizi psichiatrici sono estremamente variegate, persino contraddittorie.  A più di 10 anni dal messaggio di Helsinki del 2005, che esortava la promozione della salute mentale ritenuta cruciale per il benessere generale delle persone, della società e delle nazioni, raccomandando azioni volte alla prevenzione, alla inclusione sociale, a pratiche basate su servizi territoriali, troviamo ancora diffusi in Europa ambiti istituzionali tradizionali come gli ospedali psichiatrici, grandi strutture para-ospedaliere. Di contro si sta sviluppando un movimento che promuove servizi centrati sulla persona, che uniscono la personalizzazione, la libertà di scelta e la partecipazione dell’utenza, pongono grande attenzione sui punti di forza e le risorse proprie degli utenti e non sui loro problemi di salute mentale.

In Italia, come risaputo, la riforma psichiatrica del 1978, con l’emanazione della Legge n. 180 (la cd “legge Basaglia”) inglobata in seguito nella Legge n. 833, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, inserisce i servizi psichiatrici nei servizi sanitari generali per eliminare ogni forma di discriminazione e favorire il recupero e il reinserimento sociale dei malati mentali. Gli Ospedali psichiatrici  perdono la loro funzione, in quanto la legge vieta espressamente nuove ammissioni e la loro costruzione.  La riorganizzazione dei servizi psichiatrici avviene lentamente e in modo disomogeneo sul territorio nazionale; ancora oggi si registra una variegata situazione fra le Regioni. Appare poco probabile che la disomogeneità nella dotazione di strutture residenziali possa essere posta in relazione con variazioni regionali nei tassi di prevalenza dei disturbi mentali o nella richiesta di assistenza da parte dei pazienti psichiatrici. E’ più plausibile che l’ampia variabilità rifletta differenze nella programmazione e nelle politiche adottate a livello locale.

In Piemonte, una delle prime regioni a darsi una legge psichiatrica (L. R. 61/89), si è sviluppato un processo di progresso, che ha portato alla chiusura definitiva dei manicomi e che ha permesso di sviluppare una rete di percorsi flessibili e un ventaglio abbastanza ampio di soluzioni residenziali, coinvolgendo enti  pubblici e attori del privato/privato sociale.

Da una ultima rilevazione aggiornata al 31 dicembre 2014 (Regione Piemonte, D.G.R. n. 30-1517 del 3 giugno 2015), si individuano sul territorio piemontese le seguenti tipologie di strutture residenziali riservate ad accogliere i pazienti adulti affetti da patologie psichiatriche:

  • 355 Gruppi Appartamento, con 1.365 posti letto;
  • 21 Comunità Alloggio, accreditate, con 208 posti letto;
  • 64 Comunità Protette, accreditate (di cui 54 di tipologia B e 10 di tipologia A), con un totale di 1.263 posti letto.

Si tratta di numeri rilevanti per la residenzialità cosiddetta “leggera”: soprattutto i Gruppi Appartamento (pur non essendo a  oggi ancora accreditati) hanno assunto e assurgono una visibilità e una consistenza che ha pochi eguali sul territorio nazionale. Diventa particolarmente  interessante confrontare il contesto piemontese con quello lombardo (dove si superano appena i 200 posti letto tra comunità alloggio e gruppi appartamento).

In Lombardia, i gruppi appartamento, o progetti di residenzialità leggera, sono regolamentati da una Delibera di Giunta Regionale del 2008, sulla base della quale hanno assunto un profilo molto rigido, che li ha ridotti a realtà marginale. Sono intesi come soluzioni assistenziali socio-sanitarie, escluse dai LEA, ossia dai livelli essenziali di assistenza garantiti dal Servizio Sanitario Nazionale a tutti i cittadini; hanno una tariffa sanitaria fissa di 45 euro al giorno, che consente davvero poche ore di assistenza (intorno a 3 ore al giorno, in media); la quota sociale è a carico degli utenti solventi o dei Comuni e dei servizi sociali. Il risultato è che il numero totale di utenti ospitati in strutture di questo tipo, in tutta la Lombardia, è davvero trascurabile; in Piemonte il tasso di utenti ogni centomila abitanti è più di dieci volte superiore a quello lombardo, mentre le rette non sono mai basse come quelle della vicina regione.

La consistente differenza tra i due contesti regionali non si spiega certo con l’eccessiva prodigalità della Regione Piemonte nel remunerare le strutture cosiddette leggere. Si tratta, piuttosto, di una differenza culturale e di modello. Le scelte normative della Regione Lombardia hanno ridotto la residenzialità leggera a uno strumento residuale, adatto a una ristrettissima minoranza di utenti. Nel modello lombardo, a partire dallo scorso decennio, la grande maggioranza dei pazienti bisognosi di interventi di residenzialità sono inseriti prevalentemente in istituzioni a elevata connotazione sanitaria, simil-ospedaliere, con una presenza di ore mediche e infermieristiche quasi da reparto per acuti, e con rette elevate, a totale carico della sanità. Per ogni posto di residenzialità leggera sono attivi circa dieci posti in comunità psichiatriche, sia riabilitative, sia protette di area assistenziale, ad alta o media assistenza in entrambi i casi. Sono poi diffuse strutture che, all’interno dello stesso comprensorio, ospitano più di una comunità da 20 posti, da due fino a quattro, magari confinanti con altre strutture destinate a diversi utenti, come anziani o disabili, conferendo all’insieme una connotazione sanitaria-ospedaliera molto netta, separata dal mondo esterno.

In Piemonte, a livello sia politico che gestionale operativo, finora è prevalso nell’ambito della salute mentale un approccio favorevole alla residenzialità leggera, che non significa offrire soluzioni abitative di tipo meramente assistenziale, ma abitazioni con caratteristiche anche terapeutiche declinate a  diversi livelli di assistenza. Esistono molti gruppi appartamento con rette intermedie, organizzati in modo flessibile, che svolgono un’irrinunciabile funzione riabilitativa, nell’ambito di percorsi complessi, e che non possono in alcun modo perdere il carattere di strumenti terapeutici essenziali, inequivocabilmente LEA, potendo altresì porsi come alternative, anche dal punto di vista economico, alle Comunità protette di tipo A e B. Quest’ultime, che hanno svolto negli anni una funzione molto importante, in integrazione e dialettica con i gruppi appartamento e con gli altri progetti di riabilitazione territoriale, nessuno pensa che debbano essere svalutate o eliminate, ma non possono diventare l’unico standard, come accadrebbe inevitabilmente se le residenzialità leggera, anche in Piemonte, fosse ridotta ai minimi termini con una regolamentazione di tipo  lombardo.

Si ricorda che nel Piano d’Azioni Nazionale per la Salute Mentale del 2013 il concetto di  LEA viene inteso come “percorsi di presa in carico e di cura esigibili”, e non come singole prestazioni, tenuto conto della particolare complessità, multifattorialità e necessità di  trattamenti integrati per i disturbi psichiatrici maggiori, ma anche in relazione ai fattori di rischio biopsicosociale e agli interventi di riabilitazione ed inclusione sociale. I gruppi appartamento sono componenti fondamentali di questi percorsi di presa in carico e pertanto hanno una valenza terapeutica: si possono considerare vere e proprie abitazioni terapeutiche che si collocano fra gli altri nodi della rete di strutture e progetti riabilitativi territoriali (come la domiciliarità, le borse lavoro, l’affido familiare), che riescono a realizzare sinergie evolutive, a disposizione anche  delle strutture più protette che difficilmente potrebbero realizzare i loro obiettivi terapeutici (e soprattutto rispettare i rigidi limiti di durata degli inserimenti previsti sulla carta) senza una strutturale integrazione con altre agenzie e progettualità.

Anche i “basagliani” più ortodossi che tendono a vedere nelle strutture residenziali una riedizione dei manicomi, ovvero contesti non di cura né spazi per abitare ma solo posti letto da occupare, riconoscono l’importanza e il valore della cosiddetta residenzialità leggera quando essa offre la possibilità di vivere la propria vita nel mondo, avendo consapevolezza della malattia, imparando a venire a patti con i sintomi, a farli propri, a controllarli e perfino talvolta a utilizzarli come singolari e impensabili risorse.

*Docente a contratto di Organizzazione dei Servizi Sociali, CdL in Servizio Sociale, sede di Biella

Un pensiero su “La rete dei servizi residenziali psichiatrici: modelli e culture a confronto

  1. mariangela ferrarini

    al padiglione Paolo Bignami di Codogno(LO) , SPDC, si usano ancora sistemi tribali di cautela con i degenti giudicati potenzialmente pericolosi, e gli psichiatri hanno ancora pregiudizi duri a morire…a quando verrà abolita la camicia di forza? in comunità a Lodi, via mosè bianchi, l’ intonaco color pesca della sala d’ aspetto è scrostato, e le infermiere hanno unghie dipinte di bordeaux…se gli operatori per primi non rispettano il regolamento, come si può sperare di uscire dal degrado, dal perenne disagio in cui si trovano i malati di mente? faccio un esempio banale : se l’ infermiere si esprime con una parlata scurrile verrà preso ad esempio dal paziente , e si innescheranno dinamiche tra loro non propriamente pacifiche..poi ci dà alle mani e succeda quel che deve succedere.EH no! stabilità e rigore li si pretendono senz’ altro da chi lavora nel campo della salute mentale…

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