Un assaggio di Africa

di Francesca Pepè*

La partenza

Della “mia” Africa mi restano bellissimi ricordi che vale la pena condividere, un po’ per far vivere attraverso le parole quella che è stata la mia esperienza, ma soprattutto per cercare di mostrare questo Paese così come è veramente, nel tentativo di scardinare quei pregiudizi che spesso mettono paura.

Durante i miei studi universitari mi sono spesso imbattuta nella lettura di articoli e progetti di cooperazione internazionale; quest’anno ho deciso che non mi bastava più imparare dalla mia scrivania, ma che fosse arrivato il momento di vedere la concreta realizzazione delle strategie di sviluppo e intervento. E così, con le dovute ansie e le innumerevoli paure, sono partita come volontaria per il Senegal. L’associazione che ho scelto si chiama Terre e Libertà, un progetto di volontariato internazionale che offre la possibilità di vivere un’esperienza di formazione sul conflitto, sullo sviluppo e sulla cooperazione internazionale.

Il mio gruppo era formato da cinque persone e, nonostante avessimo background diversi, eravamo profondamente uniti da un fine comune: scoprire, donare e donarsi.

Il soggiorno

Il nostro percorso è durato poco più di tre settimane, periodo assolutamente insufficiente per comprendere appieno usi, costumi e abitudini di una cultura così diversa. Ed è stato proprio questo a spingerci a immergerci il più profondamente possibile all’interno di essa.

Non immaginavo quanto potesse essere bello trovarsi la mattina per fare colazione insieme: in Africa è molto comune condividere momenti conviviali e dunque, chi si svegliava prima, preparava il caffè in attesa del risveglio degli altri. Poi, con addosso le magliette azzurre del campo e le bottiglie di tempera e palloni sotto braccio, andavamo a cercare un qualunque mezzo di trasporto che potesse portarci al luogo in cui ci dedicavamo alle attività di animazione.

“Salam Alekum”.

“Malekum Salam”.

E salivamo a bordo.

E anche in quelle occasioni ci piaceva stare in silenzio, lasciando che i nostri occhi incrociassero quelli dei venditori di frutta, dei bambini talibè che passeggiavano per strada, delle donne con il cesto sulla testa e di chi sedeva sul ciglio della strada.

Gran parte della nostra esperienza è stata dedicata all’animazione con i bambini del quartiere della città di Thiès. Ci è stato destinato il cortile di una scuola elementare dove avevamo lo spazio per organizzare giochi ed attività. L’obiettivo era quello di contribuire allo sviluppo sociale dei territori attraverso l’educazione non formale seguendo i principi della Convenzione sui diritti dell’Infanzia, usata come strumento di osservazione nel contesto in cui eravamo, per tramutare i suoi principi in azioni concrete di cooperazione internazionale.

L’attività

Il primo giorno io e la mia equipe ci siamo adoperati per riuscire a catturare l’attenzione di più bambini possibili intonando canzoni del posto guidati da Fama, una ragazza locale. Qualcuno di loro ci guardava dalle fessure delle porticine della propria casa con uno sguardo impaurito ma al contempo curioso e quell’aria coinvolgente e festosa ci ha permesso di creare una fila così lunga da contare 85 bambini. Nei giorni seguenti siamo riusciti a coinvolgerne più di 200.

Le attività prevedevano giochi in squadra e laboratori manuali e ricreativi ideati da noi e consistevano nella creazione di braccialetti con fili di cotone, di ventagli di carta colorati e coroncine.

Ricordo ancora chiaramente la prima volta in cui ho incrociato gli sguardi immensi dei bambini. La prima cosa che, con estrema naturalezza e spontaneità mi hanno mostrato, è stato il loro sgargiante sorriso, poi mi hanno preso la mano e mi hanno trascinata a giocare con loro.

Ogni tanto mi piaceva mettermi da parte ed osservarli giocare. Le ragazze più grandi tenevano sulle loro spalle i fratellini più piccoli, altre mentre si muovevano a ritmo di musica, facevano svolazzare fiere i loro vestitini colorati. I bambini invece erano rapiti dai palloni da calcio e non importava se fossero troppo gonfi e pesanti, si vedeva il loro desiderio di calciare e rincorrere nella sabbia quell’oggetto rotondo.

Durante la nostra permanenza abbiamo avuto l’opportunità di conoscere alcune iniziative di sensibilizzazione su tematiche sociali, sanitarie e ambientali e progetti di co-sviluppo in campo agricolo promossi dall’associazione socio-culturale Sunugal, come “Alimentare lo Sviluppo”, un progetto basato sull’agricoltura familiare e filiere di trasformazione. Sunugal significa in Wolof (lingua locale) “la nostra barca” e trasmette il desiderio di condividere un viaggio che può coinvolgere le differenze culturali attraverso le quali sono nati i suoi progetti, prima in Italia e poi in Senegal.

Abbiamo potuto indossare i vestiti cuciti a JisJis: la scuola di taglio e cucito che si impegna a sviluppare l’autonomia di ragazze e ragazzi provenienti da famiglie con scarse possibilità economiche.

Durante quei giorni eravamo rimasti colpiti dal numero di montoni che pascolavano ed invadevano le vie della città di Thies, trasformandola in un vero e proprio mercato. Gli animali erano infatti esposti per mettere in evidenza la loro forma e taglia. Erano i giorni che precedevano il Tabaski, ossia la ‘festa del sacrificio‘, celebrata ogni anno nel mese lunare di Dhū Hijja. La tradizione prevede che il primogenito a capo di una famiglia debba uccidere l’animale ricordando il sacrificio di Isacco.

Abbiamo avuto il grande piacere di trascorrere questa giornata nel villaggio di Modu, il presidente di Sunugal-Senegal. Siamo stati accolti dalla sua numerosissima famiglia che non ha esitato nel coinvolgerci nei preparativi per il grande festeggiamento. La mattina siamo stati svegliati dal canto della moschea: richiamo per tutti i componenti del villaggio per uno dei momenti di preghiera più importanti dell’anno. Siamo stati talmente travolti dai frenetici movimenti delle donne che organizzavano il pranzo e degli uomini che cucinavano, che in un batter d’occhio si era già conclusa quella giornata tanto attesa.

L’ultima settimana di permanenza in Senegal è stata dedicata al turismo, modalità di conoscenza del contesto anche grazie alla mediazione di guide locali e dei volontari in servizio civile. Abbiamo attraversato l’intera costa Senegalese, sfiorando il confine con la Mauritania fino alle terre della Guinea e visitando posti che non dimenticheremo mai, come l’isola di Gorée, protetta dall’Unesco che oggi si presenta come una colorata isoletta con tante bancarelle, abitata da artisti e vissuta da turisti, dove si organizzano festival musicali. Un tempo però, proprio per la sua posizione occidentale, l’isola serviva ai colonizzatori come punto di “vendita” degli schiavi africani ai mercanti europei in partenza per il nuovo continente americano.

Abbiamo attraversato Saint Louis, prima capitale del Senegal, città viva e movimentata, caratterizzata da una parte coloniale e da quartieri poveri per arrivare a Lompoul, con le sue meravigliose dune del deserto nella regione di Louga, dove abbiamo potuto danzare a ritmo dei tamburi, gustare un piatto tipico riscaldati dal fuoco di un falò. Fino a concludere il nostro viaggio a bordo di una piroga a Palmarin, prima città del Sine Saloum, tra le mangrovie e le saline. Questa esperienza ci ha permesso di assumere maggiore consapevolezza del luogo, della cultura e delle tradizioni locali.

Dover salutare i nostri amici è stato uno dei momenti più difficili. Avevamo condiviso con i volontari locali molti momenti emozionanti e non avevamo parole per descrivere la nostra gratitudine per l’aiuto che ci avevano dato. Quando ci dicevamo “ci vediamo presto” seguiva sempre un loro “Inshallah” (se Dio vuole).

E in questo momento di saluti e di arrivederci ho sentito più che mai la necessità di condividere un pensiero relativo a cosa significhi oggi avere il coraggio di mettersi in mezzo ai conflitti, alla cattiva propaganda, alle disuguaglianze per promuovere invece l’uguaglianza, la solidarietà.

Riflessioni

Dunque, decidere di partire per un’esperienza del genere comporta la consapevolezza di rinunce: si abbandona la routine che ci ha accompagnato fino a quel momento, si salutano gli amici e si rinuncia ai cibi preferiti. Comporta anche abbandonare tutte le comodità che consideriamo ormai scontate: la semplicità e l’immediatezza della comunicazione, la facilità degli spostamenti, la piena diffusione della tecnologia, la possibilità di avere tutto quello che desideriamo rapidamente e con poco sforzo. Comporta aprirsi a culture ignote, accettare nuovi stili di vita e nuove abitudini. Quello che ricevi però, vale il “prezzo del biglietto”. L’entusiasmo e l’affetto dei bambini, la cordialità ed i sorrisi della gente, le nuove e solide amicizie instaurate in brevissimo tempo, le esperienze vissute ai confini della normalità, la genuinità dei rapporti e delle relazioni con la popolazione locale. Impari a scoprire quanto non sia scontato potersi fare una doccia calda ogni giorno, impari ad andare a dormire con i piedi sporchi di terra e i capelli arruffati.

Durante quei giorni ci è stato possibile rompere le barriere di uno spazio che sembra sotterrato da pregiudizi senza avere la pretesa di farlo nostro, di cercare di capirlo, perché in fondo l’Africa è fatta di contraddizioni: è imprevisto e opportunità, è incontro e scontro, è nuvole di polvere e sabbia e sole cocente, è luoghi straordinari e distanze considerevoli, è rumori strani nella notte e vuoti incolmabili, è freschi e rigogliosi altipiani e terre aride e tormentate, è il nero dei loro occhi e il bianco dei loro sorrisi.

 

*Ricercatrice IRS

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