Un’occasione per incentivare nelle regioni meridionali i processi virtuosi di pianificazione delle politiche sociali prospettati dalla 328/00
di Michelangelo Rago*
Legge quadro: facciamo il punto
E’ opinione condivisa nel dibattito scientifico sviluppatosi negli anni successivi all’approvazione della 328, che la legge quadro abbia ottenuto delle conseguenze pratiche contenute e sicuramente inferiori alle aspettative. Al giustificato entusiasmo, ha fatto seguito una graduale presa di coscienza circa la reale portata di questo passaggio, certamente storico sotto la prospettiva simbolica.
Si è convenuto che per “valutare la 328 occorre tenere ben presente che si tratta di una legge quadro”. Essa, diversamente dalle leggi di delega o quelle di spesa, “non va quindi valutata tanto sui benefici diretti e immediati” quanto piuttosto sul sistema che definisce e sui processi che può attivare per il conseguimento degli effetti desiderati. Difatti, per almeno tre ordini di ragioni fra loro interconnesse e che vedremo di seguito, la l. 328 non trova ad oggi una omogenea ed opportuna applicazione:
- Mancanza di continuità politica. All’approvazione della l. 328 seguì una riforma costituzionale del Titolo V che, affidando la materia socio-assistenziale all’esclusiva competenza legislativa delle Regioni , svuotava nei fatti il Piano Sociale Nazionale nella sua funzione di indirizzo e coordinamento.
- Scarsità di risorse. Il tema della sostenibilità economica influenza da decenni la dialettica sui sistemi di protezione sociale, aprendo – in chiave sociologica – a nuove definizioni di welfare meno gravose per le finanze pubbliche (welfare mix) e – sul piano delle politiche nazionali – a percorsi fatti di tentennamenti e profonde distanze fra dichiarazioni valoriali e stanziamenti effettivi di risorse. Una forbice, questa, che permane nel tempo. Vanno intese in questi termini: la mancata adozione del Reddito minimo d’Inserimento , e la mancata definizione dei livelli essenziali di assistenza sociale.
- Assenza di obiettivi concreti. La 328/2000 non definisce obiettivi chiari e misurabili da conseguire in tempi certi. Di contro sono numerosi i rimandati ad atti successivi. Non è stato, inoltre, previsto un sistema di monitoraggio in merito all’effettiva realizzazione dell’impianto normativo, né un pacchetto di incentivi e sanzioni vincolante verso i livelli inferiori di governo.
- Lo scenario che ne deriva ci costringe a prendere atto di quanto l’impatto della riforma non abbia assunto le dimensioni che ci si attendeva, ciò specialmente in termini di crescita dell’offerta di servizi alla persona. Le indagini dell’ISTAT evidenziano, in materia di servizi sociali, profonde differenze geografiche nei livelli di spesa per abitante. Se nel 2010 la spesa media nazionale era di 118 euro, tale valore conteneva al suo interno differenze enormi. Così in Calabria si spendevano 26 euro per abitante, mentre nella Provincia Autonoma di Trento se ne spendevano 304, ovvero 12 volte di più.
Sembra, quindi, che le realtà più consolidate abbiano avuto la capacità di cogliere i benefici del quadro normativo molto più di altre che, per mancanza di adeguate strutture tecniche, risorse ed esperienze pregresse, arrancano nella traduzione di moderni ed ammirevoli principi in servizi sociali fruibili nelle proprie comunità.
La legge Quadro e la logica programmazione “bottom-up” che si inaugura con i piani di zona, si innescano su uno contesto nazionale tutt’altro che neutro. Ogni esperienza è il frutto delle circostanze preesistenti, delle relazioni politico-istituzionali tra gli attori di governo, della gestione e della storia dei servizi presenti sul territorio .
E’ indubbio che senza uno sforzo in direzione della omogenizzazzione, e con ciò ci si riferisce alla definizione dei livelli essenziali, si rischia una condizione di tacita tolleranza della eterogeneità delle prestazioni e dei servizi, che grava sulle persone disagiate residenti in quelle realtà che non hanno ancora maturato soluzioni adeguate per la programmazione ed il governo del sistema locale dei servizi alla persona.
In tal senso, all’ombra di una bella facciata, di uno Stato dichiaratamente proteso a tutelare i più moderni diritti sociali, sarebbe questa logica a disegnare la vera morfologia dei servizi sociali nel nostro Paese.Il Programma Nazionale Servizi di Cura, all’infanzia e agli anziani non autosufficienti
E’ una delle priorità del Piano di Azione per la Coesione. Nasce con l’obiettivo di spendere, e bene, i fondi resi disponibili dall’Unione Europea, evitando il rischio che le risorse comunitarie potessero essere revocate in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi. Il programma viene predisposto nel 2011 e destina risorse finanziarie pari a 730 milioni di Euro alle 4 regioni ricomprese nell’obiettivo europeo “Convergenza”: Calabria, Campania, Puglia, Sicilia; per una durata triennale (dal 2013 al 2015, poi prorogata al 2017). Punta a potenziare l’offerta dei servizi all’infanzia (0-3 anni) e agli anziani non autosufficienti (over 65), riducendo l’attuale divario di offerta rispetto al resto del Paese.
Il PAC consente agli Ambiti zonali di dotarsi di risorse aggiuntive rispetto a quelle già disponibili, a condizione che questi dimostrino all’Autorità di Gestione che siano soddisfatte precise condizioni organizzative e progettuali richieste dalle Linee Guida di riparto. Ne consegue che tutto il percorso concertativo, la progettazione e l’implementazione dei servizi deve rispondere fedelmente ai criteri stabiliti per il finanziamento stesso, pena la non aggiudicazione. Ciò realizza un sistema naturale di incentivi e sanzioni che responsabilizza i territori al conseguimento di precisi risultati. Le Linee Guida limitano la facoltà di utilizzare le risorse per investimenti strutturali e favoriscono, invece, la produzione di servizi. Stabiliscono, fra le altre cose, precisi profili professionali da impegnare nella realizzazione degli interventi e altrettante tariffe orarie (conformi alle disposizioni ed ai contratti collettivi) da corrispondervi.
Proprio in ragione della metodologia che sovraintende l’accesso a questa dotazione finanziaria, il Piano sembra poter generare, negli ambiti zonali, esperienze di concertazione partecipata che maturano ed incentivano i territori ad adoperarsi proprio nella prospettiva definita dalla legge 328/00. Realizzando, invero, un’occasione per l’acquisizione di quel know-how procedurale e metodologico che pare costituire un elemento imprescindibile per una sua efficace realizzazione.
In alcuni contesti zonali, i fondi PAC possono velocizzare quel processo che ha portato diversi Ambiti – all’indomani della approvazione della legge – a dotarsi di strumenti tecnici (Uffici di Piano) per istruire ed alimentare la programmazione dei servizi sociali. Sviluppando, così, una più articolata rete di “social planner” che vede tecnici e referenti politici riconoscersi reciprocamente nelle loro prerogative, al fine di procedere verso una crescita quali-quantitativa di servizi.Altre possibili ricadute - Accrescimento del know-how procedurale e metodologico degli ambiti
- Ingresso di competenze tecniche nella programmazione locale delle politiche sociali
- Riconoscimento delle professioni sociali (assistenti sociali, OSS, educatori)
- Rafforzamento dell’integrazione socio-sanitaria (tra Ambiti Zonali e Distretti socio-sanitari
- Superamento della logica della spartizione delle risorse a favore di una visione organica del territorio
- Maggiore assorbimento del settore dell’assistenza domiciliare e all’infanzia nel lavoro regolare, a beneficio della fiscalità generale e del miglior monitoraggio della qualità del settore
- Alleggerimento del carico di cura in capo alle famiglie …
* Assistente Sociale Specialista. Attualmente collabora con la Cooperativa Sociale Don Bosco in qualità di responsabile del Centro d’ascolto comunale di Trebisacce.