Il senso dell’individualità della persona disabile nei servizi sociosanitari


di Roberto Cerabolini*

Nonostante molte convinzioni radicate nel senso comune, le definizioni che riducono il soggetto portatore disabilità alla sua specifica condizione fisiopatologica costituiscono una generalizzazione priva di senso; in generale, cercare di definire le caratteristiche comportamentali di un individuo a partire  dalla condizione di sintomatologia o malattia, parlando “del diabetico, dell’ipercinetico, dell’autistico“, oltre ad essere una scorrettezza sul piano della scienza prima ancora che dell’etica, non dice molto della specificità del comportamento o della personalità dell’individuo considerato.

Quante volte gli operatori si orientano a ‘leggere’ le caratteristiche di un dato individuo facendo riferimento a nozioni generalizzanti apprese sulla base di studi statistici (“è proprio un bambino Down” oppure “è un epilettico”)? Le definizioni e i tratti che vengono attribuiti a queste tipologie, definite sulla base di una generalizzazione del deficit o della malattia, rendono difficile un corretto inquadramento, e di conseguenza una adeguata presa in carico della persona nella sua specificità.

Un clamoroso errore della medicina del secolo scorso esemplifica le distorsioni di questo modo di procedere: era stato attribuito un ‘carattere epilettico’ agli individui che presentavano sintomatologie epilettiformi (Minkowska, nel 1932, indicava una “personalità epilettica” che appariva caratterizzata da egocentrismo, ipocondria, religiosità “bigotta” ed aggressività); poi, in base a successive ricerche più rigorose, questo ‘carattere’ è stato considerato frutto non della malattia in sé, ma della “esistenza di strutture di carattere diverse, determinate dalla propria esperienza personale, dalla capacità di instaurare rapporti interpersonali, dalla maggiore o minore capacità di accettare il fenomeno per quello che è e dal tipo di epilessia caratteristica del soggetto”(1); tra le condizioni che avevano determinato le distorsioni vi era stata ad esempio la pratica del ricovero degli individui epilettici all’interno di istituti.

Difficoltà nella valutazione
Nelle valutazioni psicologiche e sociali condotte sulla persona con disabilità risultano riduttive le descrizioni che colgono come caratteristici e preminenti gli aspetti deficitari dell’individuo, con riferimento alle competenze che in un dato momento egli non possiede o alle performance che non manifesta. Ogni persona si caratterizza per la composizione di diversi aspetti (sesso, gruppo sociale, professione, vita familiare, lingua, cultura, credenze politiche e religiose) che costruiscono nel corso dello sviluppo il suo repertorio potenziale di capacità; nel caso della persona con disabilità tale sviluppo può essere fortemente condizionato dalle limitazioni della possibilità di sperimentare e produrre un repertorio di esperienze personali, sociali e culturali. Tali limitazioni sono dovute non solo a impedimenti neurofisiologici oggettivi, ma anche a fattori legati al contesto di vita.

Il fatto di essere identificato continuamente con il proprio deficit – paraplegia, sordità, cecità ecc. contribuisce a mortificare la possibilità di sviluppo del repertorio potenziale dell’individuo, a partire dalle relazioni interpersonali dei primi anni di vita.
Per acquisire una corretta valutazione delle competenze dell’individuo con disabilità, correggendo le distorsioni sopra accennate, la classificazione internazionale proposta dall’OMS nel 2001 (ICF) ha posto in primo piano l’identificazione degli elementi di ‘funzionamento’, e il ruolo -ad essi correlato- dei fattori ambientali e sociali.
Tuttavia la dimensione personale non è ancora oggi generalmente tenuta nella considerazione che merita nelle relazioni professionali con gli individui portatori di disabilità e nell’offerta di servizi e politiche sociali ad essi relative.  Si parla -ormai da anni- della centralità del Progetto di Vita, che ha trovato notevole espressione con la Legge 22 giugno 2016, n. 112; ma spesso si continua ad operare attraverso la proposta di Servizi e procedure standardizzate.  La presa in carico ‘sociale’ della persona con disabilità raramente avviene attraverso un percorso di conoscenza e valutazione dei suoi bisogni e delle sue risorse, e le proposte formulate dagli operatori sociali sono sovente commisurate (e modellate) alla disponibilità di risposte nei Servizi prestabiliti(2).

Orientamenti per il trattamento
La questione di fondo di ogni programma educativo o sociale è di natura culturale, e consiste nel sapere se l’individuo portatore di deficit è posto nelle condizioni di comprendere il contesto in cui si trova, di assumere consapevolezza della propria unicità e delle proprie abilità al di là del deficit, per sapersi accettare e sentirsi compreso nelle relazioni con il proprio contesto come ‘persona’.

Quando un individuo continua ad essere considerato principalmente con riferimento ai suoi deficit, finisce per introiettare questa condizione quale elemento caratterizzante la sua personalità, identificandosi con quest’unica dimensione. Impara così, attraverso l’esperienza quotidiana, le strategie più semplici per mantenere le relazioni fondamentali di cui ha bisogno, sul piano materiale e anche affettivo-relazionale. Cerca così di comportarsi come gli altri guardano a lui, assumendo come propria la prospettiva di uno sguardo esteriore che viene introiettato e diventa col tempo un modello interno di riferimento.

Questo processo impedisce lo sviluppo di altri aspetti potenziali della sua personalità, e rischia di rendere la persona scarsamente capace di attivarsi con le proprie risorse in contesti nuovi e diversi dalla routine. In questo modo si determina un drammatico limite allo sviluppo personale, prodotto dall’interazione con il contesto disabilitante, che può condurre l’individuo ad una sostanziale marginalità sociale, fino a possibili evoluzioni psicopatologiche. Infatti è ancor oggi carente, per le persone con disabilità intellettiva, l’accessibilità a Servizi in grado di svolgere interventi basati su competenze psicologiche e dotati all’occorrenza di approcci psicoterapeutici adeguati. In particolare per i casi di persone con disabilità che manifestano disturbi psichici si verifica di frequente il rinvio dall’uno all’altro dei vari Centri, da quelli per la salute mentale alla riabilitazione psichiatrica o a quelli per la disabilità, spesso senza rapporti tra loro sufficientemente adeguati.

I Servizi per le persone con disabilità sono ancora in molti casi impostati “nel segno del deficit”, tengono conto soprattutto delle minorazioni e dei limiti e cercano di ‘colmare le lacune’ attraverso interventi mirati a incrementare le loro abilità prestazionali.
In tali Servizi, di frequente, le persone con disabilità si trovano di fronte a compiti di ‘apprendimento’, con la riproposizione per anni (se non decenni) di un modello culturale e relazionale improntato a quello della scuola.

La carenza di autonomia tende a produrre una dipendenza della persona con disabilità dalle figure di accudimento o di riferimento; nel rapporto con gli operatori si strutturano così modelli improntati alla relazione del bambino coi genitori. La persona viene di conseguenza infantilizzata, limitandone l’accesso a dimensioni di adultità e l’espressività si riduce ad una gamma elementare di contenuti, che nel tempo tendono a proporsi in forme tendenzialmente stereotipate. L’individuo disabile può in tal modo assumere un ruolo definito e ottenere anche un discreto riconoscimento da parte di chi interagisce con lui, pagando però il prezzo di comprimere lo sviluppo e l’espressione della propria soggettività.

Che fare?
Per evitare questa china, nel contesto dei Servizi socioeducativi, l’intervento sociale ed educativo dovrebbe sempre più realizzarsi attraverso un accompagnamento della persona a sperimentare situazioni variegate, favorendo molteplici esperienze e l’acquisizione, da parte del soggetto, di un maggiore controllo sul proprio percorso di vita.

Tale impostazione, che si realizza necessariamente in un contesto di inclusione sociale, dovrebbe costituire un orientamento comune a tutte le forme che assumono interventi sociali, educativi e clinici dedicati alla persona disabile: da quelle della domiciliarità a quelle dei centri diurni, fino alla residenzialità, indirizzate tutte a favorire l’emersione dell’individualità del soggetto nella propria specifica identità, in un percorso di incontro e confronto con gli altri individui e di rapporto dialettico nei gruppi familiari, amicali e istituzionali.

 

Note

(1) Harnic D., Hadjichristos C., Hadjichristos A., Caratterialità epilettica, 2016.

(2) Maria Turati, Servizio sociale e personalizzazione dei servizi, dicembre 2020.

 

*psicologo psicoterapeuta, Milano

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *