Che fatica la guerra tra genitori: non amatevi, rispettatemi!

parent coordinatorI servizi sociali nelle guerre dei bambini contesi

di Elena Giudice*

‘Che fatica, dovrei lavorare solo per loro’, ‘Tanto non si può far nulla’, ‘Non cambia mai niente, si fanno sempre e solo la guerra’, ‘Mi sembra di fare la segretaria più che l’assistente sociale’.
Questo sono solo alcune delle frasi che sento girando nei servizi sociali e che io stessa a volte penso quando lavoro con le cosiddette coppie altamente conflittuali, ovvero quelle coppie per cui sembra che il conflitto sia una ragione di vita, una coperta di Linus di cui non si possono fare a meno, una guerra lacerante nella quale i bambini sono continuamente nominati e, altrettanto, dimenticati.

E ogni tanto mi è venuto da chiedermi: cosa resterebbe loro senza il conflitto?
Un conflitto talmente invadente che a volte porta i professionisti, consciamente o meno, a schierarsi da una parte o dall’altra o che finisce per farci cadere nella trappola della legittimazione del conflitto diventandone parte confliggente.
A volte l’unico punto sul quale questi genitori sono d’accordo è che i servizi sociali sono incompetenti, che tanto non sono in grado di fare nulla per loro. È da rilevare tristemente, non da dati statistici che purtroppo mancano, da un’attenta osservazione e dal confronto con molte colleghe di servizi sociali in Italia che il lavoro estenuante svolto dagli operatori sociali è spesso non solo inefficace, anche inefficiente. Quante ore di lavoro si usano per lavorare con queste coppie e per quanti anni? Con quali risultati?
Io stessa passavo ore a rispondere a decine di telefonate al giorno dell’uno e dell’altro genitore, ad ascoltare ognuno di loro ‘vomitare’ le proprie ragioni e gli insulti nei confronti dell’altro, a fornire indicazioni inascoltate, a ribadire concetti esplicitati innumerevoli volte. Parole non solo inascoltate ma anche manipolate. Parole, parole, parole, soltanto parole… pochi fatti e scarsi risultati, anzi si vede spesso l’acuirsi del conflitto.

Ho riflettuto tanto sul dispendio di energie, di soldi pubblici, di risorse personali e professionali, di impegno chiesto ai genitori e ai bambini e agli operatori. Mi sono resa conto che il mio lavoro non serviva quasi a nulla. MIi sono domandata se il paradigma dell’accoglienza a tutti i costi e della decisionalità partecipata spasmodica che ci è stato propinato in tutte le salse in questi ultimi anni non avesse rovinato la possibilità di lavorare al meglio con queste coppie.

Io per prima credo profondamente nel coinvolgimento delle famiglie nelle decisioni dei servizi sociali, nell’analisi della loro situazione, nella progettazione degli interventi. Ma davvero queste strategie funzionano con tutti? Credo di no. Mi sono domandata se estono paradigmi teorici che possono valere sempre e comunque o se dovremmo iniziare a ragionare in termini di appropriatezza dell’approccio teorico e del metodo di intervento.
Ho allora provato a fare in modo diverso. Un giorno, ormai alcuni anni fa, ho iniziato ad adottore uno stile differente con ogni coppia che vedevo dipendentemente dal tipo di conflitto che portava e dal grado di questo conflitto. L’ho fatto in maniera artigianle, poco strutturata. Non avevo un quadro teorico che mi supportasse e ho seguito la mia intuizione.
Ho iniziato ad utilizzare un modo di lavorare molto direttivo con le coppie più conflittuali, a inserire strumenti simbolici molto forti come lo scettro della parola, le foto dei figli sul tavolo, regole chiare e trasparenti con utilizzo prevalente di e-mail scritte inviate a tutti gli interessati. Ho modulato la mia direttività e decisionalità sulla base dei progressi che la relazione di aiuto portava con sè. Ho capito quanto direttività ed accoglienza non siano in contrasto. Al contrario possono essere conpresenti laddove la direttività rappresenta il contenimento emotivo e relazionale di cui queste coppie hanno bisogno per poter iniziare a vedere i loro bambini, i loro bisogni, la parte buona dell’altro genitore e, soprattutto, a sperimentare a volte per la prima volta una relazione costruttiva in cui un adulto si assume al responsabilità di ‘fare l’adulto’. Ho visto cambiamenti nelle coppie con cui lavoravo e, altrettanto, ho imparato molto su di loro e su me stessa come professionista.

In Italia fino a dieci anni fa le situazioni di separazioni altamente conflittuali non erano ancora la maggioranza delle famiglie seguite da un servizio sociale. Ora lo stanno diventando, i conflitti si stanno inasprendo, la macchina giudiziaria non sembra in grado di farvi fronte e i servizi sociali hanno, nella maggior parte dei casi, applicato metodi e strumenti già conosciuti ma del tutto inadeguati in queste situazioni.
Negli anni ho avuto modo di confrontarmi con colleghe che condividevano le mie stesse perplessità e ho incontrato sulla mia strada un metodo che ha fornito una cornice teorico-operativa alle mie intuizioni ancora acerbe. Il Parent Coordinator (“Coordinazione Genitoriale” come è stato tradotto in italiano) è infatti un metodo di lavoro nato e diffuso negli Stati Uniti che, anche se non nella sua forma più pura, è ampiamente declinabile nei servizi sociali italiani soprattutto laddove si riesce a dialogare costruttivamente con la Magistratura. Quando ho conosciuto per caso questo modello negli USA e poi per coincidenze fortuite ho seguito un corso a Roma ho sentito che si stava aprendo una strada possibile per uscire dalla frustrazione, dall’invasione del conflitto.
Il Parent Coordinator si colloca nell’ambito dei metodi di risoluzione alternativa delle controversie (ADR – Alternative Dispute Resolution) tra gli interventi di riduzione del danno rivolti ai casi di contezioso giudiziario, accompagnati spesso da sintomatologie anche importanti sia negli adulti sia nei bambini, o in situazioni in cui si verificano violenze anche alla presenza dei bambini.

In Italia si è sviluppato maggiormente il filone degli interventi di prevenzione come la mediazione familiare non trovando spazio invece fino ad ora metodi specifici di riduzione del danno nel lavoro con le coppie altamente conflittuali. Il metodo del Parent Coordinator mette al centro i bambini fornendo regole chiare di comportamento ai genitori ed educandoli sui danni evolutivi provocati dal conflitto oltre ad agire per creare un ‘piano’ di custodia efficace, strutturato ed appropriato per quella famiglia specifica. Il ruolo del Parent Coordinator si potrebbe collocare nella nostra organizzazione dei servizi tra l’assistente sociale che valuta e lavora con le coppie conflittuali e il Consulente Tecnico di Ufficio che, come ausiliario del Giudice, dà la propria opinione sui quesiti inerenti la regolamentazione delle visite e la custodia dei figli. Questa figura professionale contiene ed educa i genitori con fermezza e autorevolezza. Deve avere competenze sfaccettate: valutazione delle capacità genitoriali e della rete sociale-comunitaria; gestione dei conflitti anche interculturali; materie educative; gestione dei casi e della rete dei servizi-professionisti; diritto di famiglie; sviluppo evolutivo e salute mentale.

* Assistente sociale libero professionista; www.assistentesocialeprivato.it; info@elenagiudice.it

3 pensieri su “Che fatica la guerra tra genitori: non amatevi, rispettatemi!

      1. roberto cerabolini

        Nella mia esperienza di psicologo mi sono imbattuto più volte con minori coinvolti e disorientati dalla conflittualità dei genitori, sia prima che dopo il conseguimento della separazione. Trovo che -in primo luogo- il raggiungimento di questo traguardo comporti il vantaggio di portare a definizione i processi in atto e di costringere a prendere posizioni che, se non condivise dalla coppia genitoriale, richiedono di ricorrere alla mediazione o alla decisione di terzi.
        Quando però la conflittualità dei genitori in lizza diventa corrosiva, e rischia di intaccare anche gli operatori, come giustamente osserva Elena Giudice, credo che il rischio più grave sia quello della paralisi dell’operatore sociale e del rinvio al giudizio della Magistratura, corredato da consulenze tecniche che si svolgono in un tempo tanto più lungo quanto più complessi sono i problemi rilevati, tempo nel quale vengono rinviate le decisioni e ‘congelate’ le relazioni presenti tra i genitori e i figli.
        La condizione di sofferenza dei bambini contesi richiede una tutela che non può essere ignorata per tempi talvolta lunghissimi. In questo senso è assai utile ipotizzare l’intervento di una figura di ‘Coordinatore Genitoriale’ che assuma una funzione attiva e quindi necessariamente direttiva.
        Si tratta di una figura che deve necessariamente disporre delle competenze necessarie, indicate da Elena Giudice. Ma dubito che debba trattarsi di una figura in più, da aggiungere alla rete degli operatori, ritenendo invece che possa costituire una caratterizzazione specifica dell’operatore sociale che si occupa di questa rilevante fascia di utenti. Il tratto specifico di questo tipo di intervento (poco presente nella pratica psicosociale) starebbe proprio nella capacità di assumere iniziative per la determinazione di un piano efficace di tutela.
        L’interrogativo che si apre a questo punto è: da dove l’operatore sociale può ricavare l’autorevolezza e la fermezza necessarie per esercitare tale funzione?

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