Voci dal di dentro

Riflessioni su Rsa, anziani e familiari al tempo del coronavirus

di Luciana Quaia*

 

Dopo la prima ondata

Ho ripreso a lavorare a giugno, dopo tre mesi trascorsi, come tanti colleghi, fra le mura domestiche e le notizie devastanti di quanto stava accadendo nel nostro Paese, a quei tempi solitario nella conta dei morti rispetto a tutto il resto del mondo. Sapevo che, dopo, nei miei luoghi di lavoro avrei trovato ben altri paesaggi, anche se nessuno me l’aveva raccontato: i  tentativi di stabilire un collegamento con le mie case di riposo erano sempre risultati vani e io stessa avevo capitolato, finalmente consapevole che il mio desiderio di aggiornamenti non poteva trovare ascolto in quel girone infernale in cui ospiti e personale erano precipitati.

Nel ritornare al mio lavoro, io per prima ho dovuto orientarmi per leggere gli avvisi appesi alle porte, per decifrare segnali e percorsi sui pavimenti, per riconoscere locali del tutto stravolti rispetto alle originarie funzioni. E, soprattutto, per affrontare il vuoto. Silenzioso, incolore, straniante.

Quel mondo vitale, a volte un po’ frenetico e chiassoso fatto di voci, di chiacchiere, di saluti, di andirivieni di carrozzine, deambulatori e cammini incerti, di abbracci ad amici o familiari in visita, di uscite nel giardino a godere la luce del sole, non esisteva più. Al suo posto corridoi vuoti, operatori stranamente silenziosi nelle quotidiane mansioni, ospiti relegati nelle loro camere.

Questo l’impatto per chi era rimasto “fuori”. Dentro, invece, persone comunque sicure della nuova organizzazione, senza ancora il tempo da dedicare all’analisi dei propri vissuti, anch’essi occultati dalle mascherine indossate su volti  smagriti, ma con occhi vigili e attenti. Il tempo nuovo aveva portato con sé la necessità di ridefinire compiti, ruoli, piani di lavoro, turni. Ognuna delle tipologie professionali si era ritrovata a svolgere compiti ritenuti di altri, di altri che spesso erano casa, vittima del contagio.

A me, subito, è stato richiesto di occuparmi degli ospiti indenni, perché i contagiati, fortunatamente sopravvissuti, avevano già da sé risolto i problemi della socializzazione, essendo stati tutti confinati in uno spazio condiviso. Paradossalmente i più sfortunati erano proprio gli scampati, isolati in camere mestamente diventate singole, senza alcuna opportunità di uscire, nemmeno nel corridoio del reparto, per un tempo indefinito, coincidente con quello necessario per poter essere dichiarati finalmente Covid-free.

Nei mesi estivi, con laboriose ricerche organizzative, gli ospiti hanno potuto affiancare alla consolazione delle videochiamate la felicità di vedere a distanza e all’aperto i congiunti più stretti. A pagamento di un prezzo però: il nuovo ruolo del personale educativo si confermava nella pianificazione degli appuntamenti con le famiglie e accompagnamento dei loro cari per la visita cadenzata ogni due settimane, compito che impediva  la progettazione di qualsiasi calendario animativo.

Ancora a me, l’incarico di colloqui esclusivamente telefonici, riunioni con la piattaforma Zoom e l’approccio ad una nuova modalità comunicativa con l’esterno: un webinar rivolto ai familiari sugli aspetti psicologici dei residenti, di cui qui di seguito lascio traccia. Tale richiesta ha coinciso con le nuove disposizioni di ottobre che, nuovamente, ripristinavano una ferrea regolamentazione di qualsiasi accesso negli istituti. Stava arrivando il timore dell’annunciata seconda ondata.

Io, tu, noi, tutti: il virus e la psiche

L’impossibilità di fornire aiuto, assistenza e controllo al proprio anziano istituzionalizzato getta il familiare in uno stato di ansia generalizzata e sentimenti di impotenza che, a cascata, generano altre problematiche psicologiche. E poiché la relazione con l’anziano è influenzata dal modo di vivere la situazione di chi gli è caro, mi era parso importante rivolgere l’invito a interrogare innanzi tutto se stessi:  “Come sto reagendo a questa situazione” “Che tipo di comportamenti sto attivando?” “Sono spaventato, ansioso, arrabbiato, impotente, in colpa…?”., domande volte a conoscere  le proprie singole reazioni emotive e il loro potenziale riverbero sui legami affettivi.

Ci sono infatti cinque infide “i” che minano la psiche di noi tutti:

  • invisibilità, l’impercettibilità del virus genera un’angoscia di tipo persecutoria, poiché non si sa dove cercarlo e quindi, qualsiasi persona, luogo, oggetto possono essere fonte di contagio. Io stesso posso essere potenziale untore e in questo caso divento oggetto della mia stessa persecuzione;
  • isolamento, tutte le ricerche  dimostrano che benessere e qualità di vita vita dell’anziano dipendono in gran parte dalla socializzazione e da relazioni interpersonali sane e attive che incidono con beneficio anche sulla salute mentale e fisica. Solitudine ed isolamento possono provocare un declino importante delle funzioni psichiche e cognitive. La pandemia in corso ha di fatto ribaltato tali evidenze trasformando il contatto sociale in un pericolosissimo e tragico fattore di rischio;
  • ignoranza, non siamo potenti come pensavamo e siamo incapaci di controllare la Natura nei suoi fenomeni estremi. La scienza non possiede verità assolute o, per lo meno, possono apparire tali finché nuove evidenze dimostrano il contrario. Il progresso scientifico si basa proprio sulle controversie e gli errori, per questo ci vuole tempo, un tempo sufficientemente lungo per valutare l’efficacia del rimedio, affinché non risulti più dannoso della sua causa;
  • imponderabilità, non esistono ancora elementi analizzabili quantitativamente o qualitativamente per spiegarci perché alcuni si ammalano, altri nemmeno se ne accorgono, altri ancora muoiono. Il coronavirus corre veloce anche nel dimostrarci che la morte esiste, sbattendoci in faccia la sua aggressiva rapidità e la sua totale mancanza di pietà. La nostra psiche torna a fare i conti con la mai sopita, ancestrale angoscia di morte;
  • imprevedibilità, non si è trattato di un periodo provvisorio, anzi, ci è ancora richiesto un tempo in cui la limitazione delle nostre libertà individuali diventa improrogabile sostegno della tutela della salute altrui. Il perdurare del virus  ci sottopone a uno stress psicologico incessante poiché continuiamo a rinviare senza scadenze la possibilità di elaborare quanto successo, mentre la sua permanenza massiva ci riporta alla mente ricordi di drammatiche scene vissute ancora indelebili nella memoria.

C’è bisogno di qualche piccola certezza

Ritorniamo inesorabilmente a un presente in cui l’emergenza è diventata routine. Ma in questo clima di tensione, è d’obbligo fare leva sulle “positività” che resistono all’attacco della pandemia, senza quindi farsi trascinare nel panico della cascata di informazioni che riempiono le ore del giorno e considerando invece i fatti così come succedono nella realtà in cui i nostri anziani vivono.

Vediamo i principali:

  • Non si rilevano diffusioni di segnali allarmistici a livello psicologico:  la separazione dalle relazioni aumenta la possibilità di stati psicologici negativi (depressione, ansia, senso di abbandono, ipocondria). Fortunatamente negli ambienti protetti non sono presenti sintomi campanello di gravi depressioni (inappetenza, con relativo rischio di denutrizione, rifiuto di alzarsi dal letto, con relative conseguenze sul trofismo muscolare, apatia, desiderio di morte). Certamente gli anziani con cognitività  integra riportano un grado di consapevolezza che li rende preoccupati più per la salute dei propri cari che  per se stessi, anche se non si escludono casi in cui gli schemi di pensiero diventano autoreferenziali e portano alla luce atteggiamenti ipercritici o di eccessiva attenzione alle proprie condizioni di fragilità. L’isolamento inteso come rifugio ha il contrappasso nelle molte ore passate in inattività, che ovviamente fanno sorgere noia e solitudine. Ricordiamo che nell’epoca pre-Covid le RSA erano luoghi di vita  inserite molto attivamente nel contesto sociale (volontari, scuole, manifestazioni con le associazioni, mostre, uscite), mentre attualmente gran tempo delle figure educative è impegnato nell’organizzare le videochiamate, affinché un ponte di collegamento non indebolisca l’importante segnale del legame affettivo.
  • Sicurezza: sul fronte sanitario anziani, operatori e spazi ambientali sono supervigilati e monitorati attraverso l’applicazione periodica di tamponi, uso dei dispositivi di protezione e continua sanificazione della struttura. I dati epidemiologici ci spiegano che ora è il domicilio ad essere il luogo più pericoloso per la diffusione del virus, perché l’anziano inevitabilmente ha più contatti con i familiari, i quali a loro volta hanno rapporti con la vita esterna e quindi potenzialmente possono diventare fonte di contagio. Nell’RSA inoltre qualsiasi controllo sanitario viene espletato direttamente dal personale medico e infermieristico, senza necessità di prenotazioni  o spostamenti che, all’oggi, risultano difficoltosi da effettuare.
  • La pazienza spesso è una dote intrinseca della persona che invecchia: se la parola pazienza viene definita come “disposizione interiore e atteggiamento di chi sa tollerare a lungo e serenamente tutto ciò che risulta sgradevole, irritante o doloroso”, si può affermare che i nostri anziani hanno un’incredibile capacità di autocura, perché l’esperienza della loro lunga vita li ha già sottoposti all’incontro delle perdite, sia nel corpo sia negli affetti, eventi che hanno comportato un continuo  lavoro di ristrutturazione della propria condizione per non soccombere alla tragedia del dolore. Non è casuale che nella prima fase molti anziani minimizzassero il fenomeno pandemia, riferendosi a tempi lontani dove la Spagnola e la Guerra erano state prove ben più dure. Ciò non significa che gli ospiti siano esenti da preoccupazioni rispetto alle notizie trasmesse dai telegiornali, ma sanno farvi fronte con pacata rassegnazione e adattandosi ai cambiamenti che le disposizioni ministeriali man mano istituiscono. Citando la pazienza, viene spontaneo parlare della resilienza, il cui significato si riferisce alla capacità umana di saper trarre insegnamento dagli eventi dolorosi. Con un distinguo: resilienza non vuol dire resistere, bensì assorbire. Resistere infatti implica un impatto da contrastare verso qualcosa di esterno (con rischio di rottura), assorbire invece vuol dire accogliere quella criticità e farla diventare parte di noi per mettere in atto tutte le possibili strategie per dominarla.
  • Gli anziani con decadimento cognitivo: le persone con questa sindrome sono protette proprio dalla malattia, che li costringe a un disorientamento nel tempo e nello spazio e impedisce quindi di memorizzare i tempi di assenza fra un incontro e l’altro. La volontà di chi li accompagna nella vita quotidiana è rimasta quella di sempre, ovvero di facilitare la relazione sia nel reparto, sia nel predisporre le videochiamate che, per coloro che soffrono di demenza, acquisiscono lo stesso effetto sorpresa di qualsiasi oggetto si presenti loro.

Anziani e famigliari: i piccoli gesti ancora possibili, seppur a distanza

Il Covid-19 non ci può rubare il dono della cura e della creatività intesa come possibilità riparativa di qualcosa che abbiamo perduto. Fortunatamente la tecnologia ha già permesso di trovare una parziale soluzione al pesante sacrificio della separazione fisica, grazie all’adozione di forme di relazione a distanza tramite videochiamate. Sempre in campo tecnologico, pur essendo pochi gli anziani che ne possono usufruire (a causa della condizione fisica), per coloro che amano la lettura/musica e hanno la capacità di usare facili strumenti elettronici, possono essere utili lettori cd portatili per l’ascolto degli audiolibri o delle musiche preferite.

Nella perduta intimità delle confidenze faccia a faccia, si può riparare instaurando conversazioni volte a raccontare la propria vita quotidiana con riferimento a piccoli fatti positivi da condividere riguardanti la cerchia familiare (lavoro, nipoti, animali, cucina). Ma, analogamente, si possono trasmettere le proprie emozioni senza temerne la commozione (“mi manchi, mi dispiace che questo brutto periodo continui, quando penso a ciò mi sento triste”): l’anziano ha bisogno di sentirsi ricordato e amato e può, a sua volta, esprimere i propri sentimenti senza troppe censure.

La memoria autobiografica è una grande alleata della persona che invecchia. Risulta particolarmente terapeutico ricordare qualche momento significativo del proprio passato, magari recuperando alcune foto; ipotizzare piccoli progetti (l’acquisto di un particolare accessorio, trascorrere qualche minuto in occasione di una certa ricorrenza tipo compleanno, laurea di un nipote, ecc.).

Non ultimo, gli attori della cura hanno bisogno di percepire la solidarietà e la comprensione intorno alle loro fatiche. Operatori e  dirigenti delle RSA stanno attraversando un periodo di travaglio fortissimo: oltre alle angosce di contagio per se stessi e i propri cari, si aggiungono la responsabilità di proteggere in solitudine i propri ospiti e di rispettare con maggior rigore le varie disposizioni volte a contenere i contatti interpersonali. Per chi inoltre svolge ruoli direttivi si sommano altri problemi: garantire la sicurezza con i dispositivi adeguati, prevedere  l’adeguata assistenza quando scarseggia il personale, far quadrare i conti. In tal senso diventa imperativo fare proprio il sentimento della solidarietà: pur nella consapevolezza che il rapporto con il proprio caro è unico, il tempo va calibrato con un sistema organizzativo complesso. Nella certezza che se qualcosa non va, il personale curante avverte immediatamente il familiare, cercare di contenere le richieste non prioritarie, destinate altrimenti a sottrarre tempo prezioso alla cura e all’assistenza degli ospiti.

Ora più che mai è necessario abbandonare il “noi familiari”, “voi operatori”, “loro gli anziani” e abbracciare la parola “insieme”.

 

*psicologa

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