Tradurre è un po’ tradire, ovvero “best practices” e “buone pratiche”

di Davide Pizzi *, Angelo Bozzoni **

Burn out

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Un noto adagio popolare indica quanto sia difficoltoso il lavoro della traduzione: tradurre è un po’ tradire! In alcuni casi non si può fare altrimenti, due sistemi linguistici non sempre hanno in comune gli stessi vocaboli. C’è da dire però, che noi italiani abbiamo il mal vezzo di tradurre liberamente, e in alcuni casi di esagerare, fino al punto di trasporre altro rispetto all’originale, anche quando si dispongono di vocaboli identici in comune tra l’italiano e la lingua madre dell’opera. Numerosi esempi esplicativi li troviamo facilmente nei titoli dei film esteri, di frequente tradotti in altro modo, che persino lo stesso autore farebbe fatica a comprendere che si tratta del suo film!

Detto ciò, crediamo che mediamente ogni italiano sappia la differenza tra questi due termini: best e good. Non serve un’elevata conoscenza della lingua inglese, sono entrati nel linguaggio comune, e non presentano nemmeno problemi di traduzione con l’italiano: migliore e buono.

La differenza non è poca tra migliore e buono, migliore detiene un primato

Agli inizi del ventesimo secolo l’ingegnere Frederick Taylor sperimentò all’interno dell’industria delle auto Ford un sistema organizzativo e produttivo basato sui concetti di: organizzazione scientifica del lavoro, e metodo del “miglior modo” (one best way). Ben presto arrivarono le critiche, e un noto film, tempi moderni, interpretato dal famoso comico Charlie Chaplin, evidenziò gli aspetti negativi del “miglior modo”. Herbert Simon successivamente, chiarì l’impossibilità di stabilire il “miglior metodo scientifico”, ponendo l’attenzione sui “limiti della razionalità umana”.

La questione in ballo è: si può parlare di “buone prassi” per i servizi sociali? È possibile applicare un modello industriale/aziendale, best practice, ai servizi, soprattutto quando si parla di servizi alle persone? Partendo dal fatto che esiste già alla base un errore di traduzione, voluto o meno, ci sono altri fattori da prendere in considerazione.

  1. In primis, il concetto di “buono” è difficilmente conciliabile con il pensiero critico e razionale, non è scientifico, e non poggia cioè su delle basi epistemologiche che consentono la possibilità di applicare la teoria della falsificabilità di Karl Popper. Qualcuno potrebbe a giusta ragione obiettare dicendo che lavorare all’interno dei servizi sociali non è la stessa cosa di lavorare all’interno di un laboratorio. Ma sta proprio tutta qui la questione se si decide di prendere un pensiero da una disciplina, che non ha nulla a che vedere con il lavoro nei servizi dedicati alle persone.
  2. Il secondo aspetto lo si ricava dall’analisi semantica del vocabolo “buono”, che lo colloca immediatamente nell’ambito dei valori, come categoria soggettiva, e non come dato oggettivo. I valori non sono scientifici. Un qualcosa di buono non può rappresentare un fatto oggettivo, è solamente un’opinione: il buono in sé è un valore, e ogni valore è condizionato da vari elementi, es. storici, geografici, ecc. Cosa sono i valori? Un tentativo di risposta breve al quesito per nulla facile, è che i valori definiscono una sorta di gerarchia delle “cose importanti” per un determinato individuo o per un gruppo di persone, e non per altri. I valori per questa ragione sfuggono al campo dell’osservazione oggettiva.
  3. La terza e ultima considerazione la chiariamo con un esempio: un bambino vede un signore barbuto dai lineamenti severi e chiede alla sua mamma se quel signore sia buono o cattivo, ma non chiede: «mamma chi è?». Sta tutto qui lo scarto tra il metodo scientifico e l’orientamento valoriale, perché il metodo scientifico si pone delle domande, cerca di capire cosa ha di fronte, indaga, compara un metodo ad un altro, cerca di stabilire delle leggi, dei nessi causali e a quali condizioni si ripresentano. Frederick Taylor studiava proprio questi elementi, e infatti usava anche la giusta terminologia: best, not good! L’adattamento dello strumento delle cosiddette “buone pratiche” al lavoro sociale è un capzioso ragionamento.

La realtà dei servizi

La realtà quotidiana a diretto contatto con l’utenza insegna all’operatore che gli interventi da attuare, soprattutto per i casi complessi, non sono affatto semplici da costruire: mancano sempre “pezzi di informazione” (quello che appunto sosteneva Herbert Simon), le cause non sono sempre chiare, e l’operatore deve muoversi e districarsi all’interno di un universo di concause, a tratti da solo, a tratti con altri, con le loro specificità professionali del servizio di appartenenza, e con le loro rigidità, e le proprie letture personali (fattori che creano stress emotivo elevato!).

Si potrebbe dire che parlare di “buone prassi” significa parlare di “ideal tipo”, come direbbe Max Weber, e la realtà come si sa, è sovente diversa. Nella nostra società siamo circondati da “mode del momento”, e neanche gli ambienti professionali, quindi anche quelli attinenti al lavoro sociale, sono capaci di sottrarsi. Sorgono e si utilizzano nuovi termini, modelli di pensiero attinti da altri campi a cui si cerca di dare una veste intellettuale e sociale, ma non sempre le novità come l’esperienza insegna, portano a migliorare lo stato delle cose. Tutte le mode sono destinate a finire.

Buone prassi

Buone prassi può suonare come una bella parola quando la si utilizza, “riempie la bocca”, è diventata una specie di jolly che si può piazzare un po’ dappertutto, un passepartout, un intercalare nel gergo degli operatori sociali, una tappa obbligata se si vuol essere al passo con i tempi, se si vuol dare una buona impressione a chi ci ascolta. Ma chi può stabilire cosa sia realmente buono? Magari fosse sempre così semplice! Nella pratica giornaliera ci orientiamo con i riferimenti normativi (leggi regionali per esempio), i modelli teorici acquisiti all’università, i principi deontologici, la propria esperienza e quella dei colleghi. Ciononostante certe volte tutto questo non basta, come non basta ad altri, e non per incapacità, semplicemente perché la complessità spesso disarma, sorprende, spiazza, induce a pensare e a ricercare con affanno soluzioni tra dubbi e perplessità, ridimensiona le sicurezze di noi operatori, e ci fa ricordare che non può essere inscatolata con procedimenti standardizzati.

Se proprio si deve usare il termine “buono”, allora forse meglio parlare di “buon senso” e di ragionevolezza. Crediamo che l’operatore sociale ne debba avere un pizzico in più rispetto alla media della popolazione.  Come in tutti gli ambiti della vita, chi ne è provvisto (e, dispiace dirlo, spesso è un talento che difficilmente si acquisisce), riesce a trovare solo metaforicamente la quadratura del cerchio nelle cose che fa, perché anche questa dal punto di vista matematico non esiste!

* Assistente sociale Ordine della Regione Puglia;

** Assistente sociale in quiescenza, Lombardia

2 pensieri su “Tradurre è un po’ tradire, ovvero “best practices” e “buone pratiche”

  1. patrizia taccani

    Facendo appello proprio a quello che penso sia il (mio) buon senso e la (mia) ragionevolezza, in parte frutto dei ripensamento sugli errori fatti nel lavoro professionale, in parte esito di lunghi anni di confronto con gli operatori, esprimo una riflessione sul testo appena letto.
    Ho sempre pensato che quando nei servizi sociali si parla di “buone prassi” , si usi l’imprecisa traduzione perché consapevoli di operare con situazioni specifiche e complesse, i cui cambiamenti in positivo hanno a che fare, sì, con l’intervento dei professionisti, ma anche con elementi altri, estranei e sconosciuti al servizio stesso, come scrivono gli Autori dell’articolo.. L’aggettivo “buono” segnala riconoscimento di un esito positivo del processo di aiuto ( o di altro processo nel sociale) ma accompagnato da cautela. A mio modo di vedere ha il senso di una proposta da porre in discussone con i colleghi (così come dovrebbe succedere con gli insuccessi del proprio operato) e non come un modello da seguire acriticamente. E d’altra parte, in un contesto ove la svalorizzazione vige per lo più sovrana, perché non rendere conosciuto un processo che “ha funzionato”, offrendo con chiarezza tutti gli elementi per la comprensione del percorso? Chiamandolo appunto una prassi “buona”, proprio perché non siamo in grado di sapere se sia stata la “migliore”.

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