“Soagna Fossal”

di Franco Marengo*

Etimologia

In piemontese soagné significa aver cura, trattare con riguardo e i fossal sono i fossati, conosciuti sia come fossi a bordo strada sia come confini divisori.

Soagna fossal è un’espressione probabilmente inesistente nel linguaggio parlato, ma che aiuta a ricordare chi un tempo aveva cura dei bordi strada e dei fossi e, assicurandone la pulizia, manteneva le carreggiate in ordine, impedendo la tracimazione dell’acqua e i danni che l’incuria avrebbe provocato. Perché le strade erano un bene di tutti, consentivano i collegamenti in quel territorio di cui erano parte integrante.

Non era un vero e proprio mestiere, ma un’attitudine richiesta dalle regole della convivenza e ciascuno, nelle campagne soprattutto, ne incarnava e interpretava una parte. Meglio ancora, ciascuno svolgeva la propria parte affinché strade e fossi, per intero, fossero trattati con cura e assolvessero pienamente alle funzioni cui erano destinati.

Significati: pratico e simbolico

Comportarsi come soagna fossal significava aver cura di un bene comune, da questo accudimento dipendeva la qualità degli spostamenti e dei rapporti, la qualità della domiciliarità vissuta in quel preciso territorio. E quando i fossati si trasformavano in canali per i campi coltivati assumevano sì una funzione divisoria fra le proprietà ma ne consentivano anche l’irrigazione e il reciproco rispetto.

Aver cura dei fossati e dei bordi strada era una prerogativa della vita regolata sui ritmi della terra, un tacito accordo di solidarietà, come aiutarsi nel periodo del raccolto. Rappresentava un codice di collaborazione ad un progetto condiviso, quello della più ampia cura del territorio abitato. Perché le strade, le mulattiere, i sentieri anche stretti, così come le tangenziali e le autostrade, sono le vie di collegamento fra le relazioni e consentono le relazioni stesse. Sono parte integrante del territorio abitato e sono intorno ai nuclei dei singoli luoghi abitati. Era anche espressione di un consapevole senso di responsabilità che invitava a mettersi in gioco in prima persona perché il primo a dover aver cura del proprio territorio è chi lo abita, prima ancora di pretendere interventi esterni.

Poi è subentrata la cultura della residenza più tecnologizzata e specializzata, che attribuisce ruoli e delega precise funzioni a “chi è competente ed è pagato per farlo”, deresponsabilizzando così chi nella quotidianità potrebbe e ne avrebbe le competenze, ma non è più autorizzato ad occuparsene.

Questa metafora vale anche per le relazioni sociali di cura e per le stesse relazioni umane, ancor più in questo tempo che sembra non solo dimenticare ma soprattutto aborrire qualità come solidarietà e accoglienza liquidandole spregevolmente come buonismo, enfatizzando i sentimenti di paura, rivendicazione e rifiuto delle differenze, delle non conformità.

Non conformità a quale modello poi? E stabilito da chi e accettato da chi?

È questa una cultura che delega anche le funzioni relazionali agli specialisti della giurisprudenza, dell’ordine pubblico, della sanità, trasformandole in discipline sempre più scientifiche e sempre meno umanistiche, privando di questo ruolo il singolo cittadino, l’individuo, negandogli la sua parte di responsabilità e  possibilità di agire come parte per il tutto, se non come solo attore passivo adattato e privo di creatività.

Cosa può significare oggi

Siamo in un passaggio culturale ed etico che non riconosce più i valori della comunanza ma instilla la paura del nemico come se fosse presente subito dietro la porta di casa, quando non già dentro casa stessa. È la stessa cultura della domiciliarità ad essere minacciata nella sua stessa essenza costitutiva perché a incombere sulla tranquillità e sulla qualità della vita non sono solo le pressioni economiche e fiscali, le incognite sul futuro di chi ha figli e sul proprio futuro pensionistico per chi ha un lavoro. È minacciata perché a incombere su di essa è il suo stesso diritto di esistenza, sempre meno acquisito e sempre più messo in discussione da operazioni che aumentano la spinta verso i conflitti, le separazioni, le divisioni fra le persone, i loro bisogni e i loro diritti di esistere nella multiformità. Si sta pericolosamente rinforzando l’idea che solo conformandosi a dei modelli prestabiliti e imposti da qualcuno di esterno a quel “territorio di vita” come a quel “territorio di relazioni” si possa “essere a posto”.

C’è sempre qualcun altro, la norma, il governo, l’Europa, che decide cosa deve accadere nei singoli territori, al di là e sovente in contrasto con le istanze portate dai territori stessi.

Prendere iniziative personali, non autorizzate, “non disposte da un ordine superiore” è diventata una rischiosa intraprendenza a cui non si plaude più per il coraggio di osare qualcosa di nuovo, ma la si stigmatizza come pericolosa devianza dalle norme della sicurezza e dal controllo esercitato da chi è autorizzato ad occuparsi di decidere “chi deve fare che cosa”. Anche quando è chiaro che il risultato finale non è a beneficio di chi vive quel luogo, quel territorio, quelle relazioni e quella domiciliarità.

Il Mose veneziano è solo il drammatico esempio più recente, ma se pensiamo alle sole infrastrutture e alle grandi opere spacciate per utili, fondamentali e necessarie e, infine, mai realizzate o, spesso, realizzate in modo inadeguato ed essenzialmente a beneficio di chi ci si è arricchito con le tangenti e non per i millantati motivi di beneficio collettivo, eh beh… il nostro Bel Paese ne ha una collezione formidabile. Così facendo abbiamo consentito che scomparissero i soagna fossal.

Non solo a livello letterale, che si potrebbe ancora dire che ci han pensato per un po’ i cantonieri, peraltro ormai pochi e insufficienti, ma soprattutto a livello metaforico, per tutto ciò che riguarda la capacità di prendersi cura del proprio pezzo di responsabilità nella cura dei canali di comunicazione. La politica, quella “grande” ha ampliamente rivelato le proprie incapacità e inadeguatezze alla cura dei territori e quella “piccola” è da reinventare. Ma proprio quest’ultima passa dai soagna fossal, da chi ha il coraggio di ritornare a prendersi cura di qualcosa che è, si, piccolo, ma territoriale e essenziale poiché di prossimità.

Perché là dove le relazioni sono da riconoscere, valorizzare e curare lì occorre aver cura di ciò che le collega, dei canali comunicativi, dei rapporti, dei luoghi di incontro. È necessario ridiventare, ciascuno di noi, per la propria parte, un soagna fossal che intorno a sé ricominci a trattare con riguardo le strade che lo collegano agli altri, mantenga puliti e in ordine quei fossi che potrebbero intasarsi e sporcare le vie che invece devono restare pulite per consentire i viaggi, in entrambe le direzioni e anche per gli incontri occasionali, così come per le escursioni turistiche di conoscenza di un luogo altro. E per lo scambio delle parole e delle idee fra le persone, affinché anche esse restino pulite, chiare, convincenti e non equivoche.

Se una sfida esiste per contrastare la provocazione della paura e dell’egoismo, credo passi anche dalla gratuità del gesto del soagna fossal, che pulisce il tratto di sentiero che è in grado di gestire senza chiedere nulla a nessuno, che offre un servizio a tutela di un bene comune condiviso, che accetta di fare per primo qualcosa che nessuno fa più. Sia operativamente nel tratto di strada di casa sua, sia metaforicamente nei confronti delle relazioni umane che intreccia.

E accetta di farlo al di là del giudizio.

Nel concreto

Per questo nel servizio diurno per persone con disabilità e disturbi del comportamento nel quale lavoro, abbiamo deciso di dar vita ad un’attività che si chiamerà proprio soagna fossal e ci vedrà una volta a settimana percorrere le strade della collina in cui ha sede il servizio per ripulirle e manutenerle.

Dotati di guanti, sacchetti per la raccolta dell’immondizia, falcetti, vanghe, zappe, ramazze e forbici, con i nostri bei giubbotti fluorescenti e delle targhette minimamente identificative assolveremo a questo compito.

Che sarà di pulizia e cura di un bene comune ma anche con un risvolto più sottile. Perché insieme a ciò vogliamo trasmettere anche il messaggio che le persone con disabilità non sono unicamente dei “richiedenti servizi” ma anche chi, in una certa misura, proporzionale alle proprie competenze, i servizi può anche offrirli, magari proprio là dove ce n’è bisogno ed è difficile trovare chi scelga di occuparsene.

Il nostro centro ha una dislocazione collinare alla periferia di Torino, in una zona residenziale avvolta dai boschi. I nostri vicini di casa sono perciò sia pendolari, anche di ceti sociali abbienti, che abitano la collina “bene” ma lavorano in città e che quindi non abbiamo occasione di incontrare negli orari di apertura del nostro servizio, sia i più prosaici cinghiali che regolarmente fresano parte dei nostri terreni e i sottoboschi circostanti.

Le strade di collina non rischiano gli allagamenti della pianura, certamente, ma se i fossi non sono ben puliti diventano dei torrenti nei quali le auto scivolano a valle come se fossero tra le rapide. Può sembrare una descrizione esagerata, ma mi è successo sostituendo un collega autista in un pomeriggio di pioggia torrenziale che, in città, ha divelto parte dell’asfalto. Quelle strade rischiano l’invasione di foglie e rami, rischiano i danni da incuria, che si possono invece contenere con una manutenzione regolare.

Quando ne abbiamo dato comunicazione agli amministratori comunali dicendo che tutto ciò avverrà a titolo gratuito e come servizio al territorio abbiamo capito di aver colto nel segno e si è subito creata l’occasione per ampliare la portata dell’iniziativa.

Nei mesi scorsi eravamo stati contattati da AIESEC, un’organizzazione di volontariato internazionale che ci ha proposto di ospitare alcuni giovani stranieri ai quali offrire la possibilità di collaborare ai servizi per le persone con disabilità. Si tratta di accogliere persone che magari arrivano da Australia o Sud America per sei o otto settimane, offrendo ospitalità e integrandoli nelle attività. E’ una possibilità bella e interessante che ci ha subito orientati a cercare dei partner che, nel nostro caso sono diventati l’amministrazione comunale e la parrocchia di Castiglione T.se.

Perciò quando ci siamo ritrovati tutti insieme a ragionare su come organizzare questo servizio e come creare occasioni di interazione fra le proposte che i diversi soggetti avrebbero messo in campo, questa dei soagna fossal è diventata la prospettiva che avrebbe collegato il nostro servizio, i giovani dell’oratorio e la volontà degli amministratori comunali di dare segnali visibili di presenza sul territorio.

I prossimi mesi ci vedranno perciò attivare questo servizio minimo ma continuativo che, come una piccola goccia, sarà offerto al territorio del quale siamo parte costituente da decenni, fino a coinvolgere i volontari, quando arriveranno per ampliarne la portata agli altri soggetti istituzionali coinvolti ed a aree territoriali più urbane e di maggiore impatto sulla cittadinanza.

Parlarne qui vuole essere anche un invito ad altri servizi come il nostro per riprodurre o trasformare quest’idea in altre attuabili nei diversi contesti, per promuovere questa cultura inclusiva che riduca le distanze fra le differenze, rendendo servizio a beneficio collettivo quella che può essere una piccola, individuale partecipazione, in quello spirito che promuoveva Giorgio Gaber nel pensare la felicità e la realizzazione passando dall’io al noi.

 

* Cooperatore sociale, Vice presidente della Cooperativa Il Riccio di Castiglione T.se (TO), Socio dell’Associazione La Bottega del Possibile

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