Reclusi: Imparare la libertà

di Claudia Turconi*

Non sembrava possibile ai tempi del coronavirus: eppure da ottobre a dicembre 2020 siamo stati in sette in una stanza armati di mascherine e disinfettante, con le finestre aperte nonostante con il passare dei giorni la temperatura fosse decisamente scesa.

Dentro quella stanza assai arieggiata, tuttavia, incontro dopo incontro è cresciuto il calore, la vicinanza di chi entra in contatto con l’altro come può, attraverso gli occhi, la voce che esce dallo strato di tessuto, la presenza con il corpo. E quest’ultima cosa abbiamo ri-scoperto essere densa di significato.

Secondo Stranghellini (2020) noi facciamo esperienza del corpo in tre modi: come un organismo da sentire, che ci permette di conoscere il mondo in modo immediato e sorprendentemente caotico, non prevedibile; vedendolo dall’esterno, attraverso la mediazione di uno specchio, una foto, uno schermo; facendolo vedere agli altri e definendo attraverso il loro sguardo la nostra identità. I collegamenti web portano spontaneamente a guardarci riflessi nel quadratino dello schermo che monitora la nostra inquadratura, a vedersi dall’esterno, ma limitano l’esperienza di sentire il corpo ed essere visti dall’altro per ciò che il corpo comunica. Il grande rischio dei percorsi di gruppo svolti on line è quello che Sartre individuava nella differenza tra il descrivere il mondo e il vivere il mondo, tra una conoscenza di sé come oggetto da comprendere e il viversi e sentirsi accadere nel qui e ora, rispecchiato dagli sguardi degli altri (Sartre, 2014). “Forse anche lei vuole dirci cosa pensa: non ha parlato ancora ma si è mosso continuamente sulla sedia e il suo portachiavi di corda con cui è arrivato è ora completamente disfatto”, può osservare e restituire in presenza un conduttore al partecipante del gruppo. É stato possibile farlo nel contesto del Gruppo Genitorialità rivolto ai padri detenuti svoltosi all’interno della casa circondariale di Bollate.

Per le misure di contenimento del Covid 19 quest’anno solo sei i partecipanti consentiti. Ad attenderci al primo incontro – fuori dall’aula – c’erano almeno il doppio delle persone, con fogliettini -chiamati in gergo carcerario domandine – con cui testimoniavano la loro richiesta di partecipazione. Portavano il loro desiderio di relazione in questo tempo in cui in carcere incontrare operatori e volontari è diventato più difficile. Abbiamo dovuto con tristezza tenerli fuori, lasciando il messaggio di speranza che anche per ognuno di loro si sarebbe provato a creare uno spazio di parola, a due o nuovamente gruppale. C’è chi è tornato a scendere dalla cella all’aula a più riprese, puntuale alle nove e trenta, senza dire nulla, ma comunicando attraverso il corpo presente il bisogno di essere ricordato. Questa insistenza non è stata dettata dalla noia, dal non avere nulla da fare. Non quest’anno. Lo capiamo bene dopo aver vissuto la reclusione sulla nostra pelle durate il lockdown. Il vero problema non è annoiarsi, bombardati come siamo di stimoli culturali, film, musica, persino di lavoro: soffriamo la mancanza di senso e sentiamo forte il bisogno di ricercarlo.

Abbiamo accumulato impressioni sensoriali ed emozioni che hanno bisogno di essere codificate, simbolizzate per diventare pensiero e narrazione. Per fare questo necessitiamo di quello che Bion definisce un contenitore, come il gruppo o la mente solida e strutturante dell’altro, attraverso cui “fatti indigeriti” possano essere metabolizzati nell’apparato psichico (2001).

Noi, come chi è detenuto, non possiamo in questo momento cambiare le condizioni che ci impediscono di essere liberi, possiamo però migliorare le nostre capacità di essere liberi in queste circostanze di costrizione. È quello che il gruppo ha dato l’opportunità ai padri di fare.

Attraverso il gruppo verso nuovi sguardi

Il gruppo ha permesso a Domenico di superare il suo vissuto di impotenza e la sensazione che tutto sia ormai perduto. “È la rabbia che sento forte!” afferma. Lui non può uscire e gli altri là fuori non si comportano come ritiene sarebbe giusto. Il risultato è che da due anni non ha rapporti con sua figlia e ricorsivo è il pensiero che nessuno la stia avvicinando a lui. Ha molta paura che il passare del tempo crei tra loro una distanza insanabile, depositaria di nostalgie, rimpianti, ferite. Il Gruppo Genitoriale fa sentire a Domenico che dentro di lui scorre una linfa: la sua capacità affettiva. È da anni che non la sentiva più quella linfa ed era convinto di averla smarrita; è commosso nel ritrovarla. “Non gli altri devono fare, ma io sono ancora capace di tenere vivo il legame”, si ripete.

Il Gruppo ha inoltre aiutato Rodrigo ad affrontare la paura di parlare con suo figlio della fase critica di vita che stanno attraversando. Rodrigo fa un respiro profondo e racconta agli altri padri di non aver saputo rispondere allo sfogo di suo figlio di 9 anni. “Basta dirmi bugie” gli ha detto Alejandro nell’ultima telefonata. Lui è rimasto senza parole e ne ha dette pure di sbagliate, con i pensieri confusi e un profondo senso di colpa. Rodrigo è entrato da qualche mese in carcere e ha raccontato al figlio di essere via per lavoro. Ha sempre pensato che i bambini vadano protetti da verità tristi ma oggi, insieme agli altri papà, ha capito di avere sempre cercato per non affrontare aspetti intimi della vita, come la fragilità, l’errore, il dolore.

Come parlare ai bambini di cose così difficili anche per un adulto? Dopo l’incontro di gruppo Rodrigo ha raccontato ad Alejandro di essere in punizione in carcere e poi ha ascoltato le emozioni, i pensieri, i dubbi del figlio. Il ragazzo nelle settimane a seguire ha aperto con il padre un canale di dialogo su altre bugie che i grandi gli dicono per nascondere verità ritenute indicibili, come ad esempio che mamma ha un fidanzato, che il suo gatto è morto, che la nonna non vuole tornare dalla Bolivia.

Il gruppo ha infine fatto sperimentare a tutti come si possa provare un senso di oppressione e immediatamente insieme sentire fiducia nella possibilità di andare oltre.

Per rappresentare “la forza che sorregge” un papà sceglie infatti una foto particolare che lascia tutti perplessi: un uomo con le mani che coprono il volto e lasciano intravedere gli occhi sbarrati. A molti di noi quell’immagine rimanda privazione, spavento, ostacolo al respirare liberi (come con la mascherina) e all’espressività emotiva piena. Chi l’ha scelta ce la narra invece così: la forza degli occhi sorretti dalle mani, comunicare intensamente, guardare oltre, dilatare le pupille. Ascoltandolo arricchiamo in un istante la nostra prospettiva e spostiamo il pensiero sulla straordinaria capacità delle pupille di dilatarsi in assenza di luce, o quando siamo in ricerca di qualcosa, o quando sentiamo piacere come nell’innamoramento. A tutti noi che siamo in questa stanza capita in questo periodo di vivere il buio e di sforzarci per trovare la luce, i piccoli piaceri; di sentirci oppressi e guardare dalla finestra.

Ora proviamo inquietudine per una bocca trattenuta ma, nel medesimo istante, siamo presi da incanto per il potere degli occhi di dilatarsi per cercare di vedere al buio e continuare a innamorarsi del mondo. Kant (2000) diceva che la colomba vola e fende l’aria e immagina che senza la resistenza di questa il suo volo sarebbe migliore. Senza l’aria tuttavia il suo volo non potrebbe esistere. Se riusciamo a non fermarci alla privazione, la condizione che ci opprime potrà generare nuove possibilità.

Emotivamente potremo così dire, alla fine del lockdown”: Questa carcerazione mi è stata utile”, come dicono alcuni padri in procinto di uscire.

Bibliografia

  • Stanghellini G., Selfie: sentirsi nello sguardo dell’altro, Feltrinelli, Milano, 2020.
  • Sartre J.P., L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano, 2014 (prima edizione, 1943).
  • Bion W. R., Apprendere dall’esperienza, Astrolabio, Roma, 2001 (prima edizione, 1962).
  • Kant I., Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari, 2000 (prima edizione, 1781).

 

*Laureata in pedagogia e in psicologia è specializzata in genitorialità, psicotraumatologia e project management.

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