Narrazione autobiografica e scrittura d’esperienza: le storie che non sono ‘chiacchiere da salotto’

Roberto Cerabolini *

conversationNel lavoro di cura rivolto a persone e famiglie interessate da malattie gravi, stati cronici di disagio o disabilità, accade frequentemente di trovarsi di fronte alla produzione spontanea e abbondante di narrazioni riguardanti la vita dell’individuo, o dei famigliari che lo assistono.
Le persone malate o interessate da menomazioni parlano di sé, appena possono, delle loro sofferenze come degli aspetti gradevoli della loro vita, e molto dei desideri e dei sogni che ne alimentano l’esistenza.
La produzione di diari e di autobiografie, non necessariamente artistiche, è abbondante in queste tipologie di individui, e ciò non è casuale. Come ha rilevato J. Bruner il meccanismo generativo della narrazione “è la difficoltà, un ostacolo, un problema percepito… un pericolo.” Le difficoltà possono attrarre la nostra attenzione e ci stimolano a “estendere ed elaborare il nostro concetto del Sé. E’ affrontando problemi e difficoltà, reali o immaginati, che modelliamo un Sé che si estende oltre il qui e ora degli incontri immediati, un Sé capace di contenere sia la cultura che dà forma a quegli incontri, sia le nostre memorie di come abbiamo fatto fronte a essi in passato” (Bruner J., 1997).

L’analisi di Bruner ci consente di comprendere la ragione della grande diffusione in età adolescenziale della diaristica spontanea (ora allargata anche ai social media): sono le naturali difficoltà di crescita e di adattamento del giovane, posto di fronte al nuovo e mutato rapporto col mondo, a fornire la spinta ad annotare e analizzare gli avvenimenti quotidiani, alla ricerca di un senso per le cose e soprattutto per l’adolescente stesso. In modo analogo possiamo comprendere l’esigenza che spinge la persona sofferente a raccontarsi, interrogandosi e implicando l’altro nelle proprie vicende. Come nel caso della grave malattia, la disabilità è una condizione che disequilibra (e repentinamente, nel caso di eventi traumatici) la relazione della persona con gli altri. La menomazione comporta una perdita di status prima ancora che di abilità funzionali.

La narrazione, in forma orale o scritta, può offrire uno strumento prezioso per individuare i significati dell’esperienza della disabilità e aiutare la persona a riconoscere la propria identità, in modo da facilitare a tenerne conto anche coloro che le vivono accanto.

Tuttavia, a causa delle maggiori difficoltà espressive, la comunicazione dell’individuo con disabilità intellettiva si caratterizza in modo stereotipato e spesso unilaterale, ponendo all’interlocutore difficoltà di ascolto e di comprensione. Talvolta è necessaria un’azione di sostegno e di potenziamento cognitivo per consentire alla persona di raccogliere ed elaborare i dati della propria esperienza, in modo da renderli comunicabili.
Parlare della disabilità, e particolarmente quando riguarda sé stessi o un proprio caro, può risultare difficile: molte difese possono deformarne la percezione, così come le emozioni intense e brucianti possono rendere la testimonianza scomoda e dolorosa. Ma, come qualsiasi altra forma di comunicazione, essa richiede il coinvolgimento di un altro: l’atto narrativo è reso possibile non soltanto dal soggetto che vive e racconta la malattia o la sua menomazione, ma anche dall’interlocutore che lo ascolta, sia esso un genitore, un compagno, l’amico, l’educatore, il riabilitatore o il medico.

L’importanza della narrazione può essere individuata anche facendo riferimento ad alcuni principi enunciati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha sancito il diritto dell’individuo di affermare la propria autonomia decisionale nel partecipare consapevolmente alla gestione del percorso di cura (OMS, 1978). Oltre al rispetto per l’autonomia dell’individuo, questo principio tiene in considerazione il fatto che la scelta consapevole facilita l’adesione a percorsi di prevenzione o terapia, e ne migliora i risultati in riferimento agli obiettivi di benessere e salute; ristabilisce un rapporto personale e responsabile tra le conoscenze professionali e le persone che ne sono destinatarie; orienta gli operatori a prendersi cura delle persone di cui si occupano,  e non solo delle loro patologie e infermità (Tognoni G, 2005).
Raccogliere storie significa perciò dare voce, parola e dignità al malato come alla persona con disabilità, e favorire in tal modo la sua partecipazione. Questa è possibile a partire dall’affermazione di un’identità definita della persona, identità spesso negata e banalizzata nel caso del malato e del disabile (Cerabolini, R., 2014). L’ascolto genera possibilità nuove, perché le persone attivano risorse interiori per affrontare e gestire in modo attivo le difficoltà della loro condizione; agevolare l’ascolto significa stimolare la partecipazione, l’empowerment.
Le forme in cui la ‘comunicazione narrativa autobiografica’ si realizza possono essere molteplici, e spaziano dai gruppi di parola o di auto-mutuo-aiuto a specifiche sessioni di laboratorio autobiografico.
Visto che in molti casi l’espressione verbale è assai deficitaria, la relazione con la persona disabile comprende necessariamente le dimensioni comunicative non verbali, analogiche, gestuali, con una grande implicazione della corporeità. La relativa indeterminazione di molti degli spunti comunicativi dell’individuo disabile generano quindi la necessità di interpretare sul piano verbale i significati manifestati attraverso l’azione e le espressioni corporee, o attraverso l’immagine e il disegno.

In conclusione si vede quanto opportuno possa essere lo sviluppo dell’approccio autobiografico nel panorama dei Servizi dedicati alla cura di individui in difficoltà, promuovendo un orientamento analogo a quello della medicina narrativa in ambito clinico.

Riferimenti bibliografici

  1. Bruner J., The Self across Psychology: self-recognition, self-awareness and self-concept, in “Annals of The New York Academy of Science, vol. 818, 1997
  2. Cerabolini R., Le disabilità e il senso dell’individualità.
  3. OMS, 1978, Dichiarazione di Alma-Ata, International Conference of Primary Healthcare, 1978
  4. (Tognoni G. Aneddoti, blob, storie e persone. La narrazione come priorità infermieristica? Assistenza infermieristica e ricerca, 2005; 24(3):112).

* Psicologo e Psicoterapeuta (www.robertocerabolini.wordpress.com)

2 pensieri su “Narrazione autobiografica e scrittura d’esperienza: le storie che non sono ‘chiacchiere da salotto’

  1. pierluigi

    Molto interessante e condivisibile questo articolo.
    riconoscere delle capacità in se’ stessi aiuta molto anche a livello di benessere psicofisico.
    Posso solo accennare al fatto che nel corso di una attività di relazione individuale con una persona con forti problemi nel movimento, nessuna capacità verbale e deficit cognitivo medio-alto, aiutato da una buona relazione empatica e dalla possibilità di fare esprimere un sì facendo schioccare la lingua, ho ricostruito un racconto di un pomeriggio domenicale vissuto da “giuseppe” ;con molta fatica di entrambi. Durante il racconto, che in realtà era una serie di proposte mie alle quali egli doveva rispondere se sì o no, la persona era sempre più eccitata dalla situazione, esplicitando la propria soddisfazione con i pochi movimenti e possibilità mimiche disponibili.
    Al termine ha anche voluto che lo trascrivessi sul quaderno delle comunicazioni alla famiglia.
    Il fatto che fosse inventato di sana pianta però mi ha posto in una situazione spiazzata.
    Allora per lui è stata una grossa soddisfazione potersi fare ascoltare, poter raccontare qualcosa. Forse per qualcuno che difficilmente ha qualcosa da raccontare essere supportato nella costruzione di un racconto gli ha permesso di sperimentarsi in una nuova situazione.
    Però rimane lo spiazzamento e il dubbio: è stato un gioco? un desiderio? Il livello cognitivo è più basso di quello che credo e ho fatto tutto io? Io avrei preferito che emergesse una cosa accaduta e vissuta realmente. Forse devo lavorare meglio sulla chiarezza di cosa chiedo al mio interlocutore. E’ una bella sfida.
    Comunque la cosa è stata bella e ha anche aiutato nella relazione con la famiglia, che ha trovato conferma nel fatto che nel centro che loro figlio frequenta ci sono persone che ascoltano. saluti Pierluigi

    Rispondi
    1. roberto cerabolini

      La- stimolante ‘scrittura d’esperienza’ di Pierluigi indica con dovizia di particolari come sia possibile (e utile!) usare il metodo narrativo anche nelle condizioni di estrema difficoltà espressiva. La narrazione prodotta insieme a Giuseppe è stata un’invenzione, frutto di una costruzione nella quale i ruoli di chi parla e di chi ascolta si sono mescolati, la persona con disabilità si è attivata ed ha espresso risorse impreviste, e la storia che ne è risultata ha potuto essere comunicata anche al di fuori della ‘coppia’ che l’ha costruita.
      Più che una notazione autobiografica quella di Pierluigi e Giuseppe è una scrittura di esperienza (quella della costruzione del racconto) servita a rinsaldare la relazione tra loro, a dare visibilità al loro comune impegno, a fornire ossigeno alla quotidianità stereotipata delle giornate di Giuseppe.
      Come una fiaba delle Mille e una Notte, il racconto incanta chi lo ascolta e mantiene in vita chi lo narra!

      Rispondi

Rispondi a pierluigi Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *