“Mi cedi il posto per favore?”

di Patrizia Taccani*

 

“Da lunedì̀ scorso la nostra campagna comportamentale è entrata nel vivo con l’hashtag #cedilposto e diverse iniziative tra cui affissioni in metropolitana, spille disponibili presso gli Atm Point e online, annunci dai nostri altoparlanti. Uno sforzo che abbiamo messo in campo per invitare i passeggeri dei mezzi pubblici ad alzare lo sguardo e cedere il posto a chi ne ha più̀ bisogno.”

Sono tornata recentemente a guardare in internet i siti che si sono occupati di questa campagna di sensibilizzazione al suo inizio, nello scorso mese di giugno, e ne ho tratto la parte sopra virgolettata.

Ricordo che al momento della sua uscita con locandine abbondantemente collocate sui mezzi pubblici avevo provato una sorta di “orticaria psicologica”, un indefinibile fastidio unito a un certo senso di stupore per quella che da subito mi è parsa una buona dose di ingenuità da parte degli ideatori della campagna. Vista la mia tutt’altro che verde età e alla luce dei numerosi episodi in cui giovani – tra cui molti stranieri – in questi ultimi anni mi hanno ceduto il posto, avrei dovuto, invece, condividere l’idea di un aperto sollecito verso i più distratti nei confronti dell’età avanzata, della fragilità, del bisogno di un posto a sedere ad esempio per una donna incinta o con un bimbo piccolo in braccio. Eppure c’era qualcosa che non mi convinceva.

L’estate poi mi ha distratto con periodi di lontananza da Milano e il dopo-estate mi ha visto impegnata a pensare ad altro. Mi era sempre restato però, in un angolo della mente, il pensiero di fermarmi su questa questione di cosiddetta educativa comportamentale. Assidua utente dei mezzi pubblici, infatti, resto ogni volta inevitabilmente colpita dal perfetto allineamento delle teste dei passeggeri seduti, con gli occhi incatenati al piccolo/medio strumento di contatto con il mondo: il cellulare. Mi è capitato di fare giochi con me stessa, come contare in quanti eravamo in un vagone della metropolitana visivamente privi dell’aggeggio, e un pomeriggio dovetti trattenermi dal congratularmi ad alta voce con una giovane donna seduta parecchio più in là, palesemente immersa nei suoi pensieri, le mani libere posate in grembo. Eravamo in due – lei ed io tra decine di passeggeri – le uniche a non parlare al telefono, a non fissarlo, a non digitare freneticamente messaggi.

Le piccole locandine bianche e blu che iniziano con “…alza lo sguardo…” ora sono praticamente scomparse, e non credo ci sia modo di sapere quanto abbiano sollecitato i viaggiatori in Milano a modificare i loro comportamenti. Una lettrice di La Repubblica in quel periodo aveva scritto sfiduciatissima alla rubrica milanese Posta Celere dicendo che la sfida era doppia: quella di far alzare lo sguardo dal telefonino ai viaggiatori e quella di rammentare loro le normali regole di comportamento. Zita Dazzi, curatrice della rubrica, concludeva la sua risposta con molto più ottimismo, ipotizzando che tra i passeggeri uno su dieci avrebbe potuto restare colpito dall’invito e, quindi, ravvedersi.

Torno al mio senso di disagio di cui ho detto all’inizio. In parte lo attribuisco alla convinzione della estrema difficoltà nel poter “comunicare” efficacemente con una popolazione di tutte le età che in pochissimo tempo è riuscita a trasformare un luogo come un comune, vecchio mezzo di trasporto, “a succursale del proprio ufficio”, o anche a “stanza tutta per sé”, a seconda che il cellulare serva per anticipare o prolungare i tempi lavorativi, oppure venga usato per conversazioni personalissime, come questioni di cuore, di salute, di famiglia. Dei messaggi non so, ma posso immaginare che non si discostino troppo dalle due precedenti categorie. Resta aperta la questione dei giochi/passatempo, della lettura su tablet: anche qui l’immersione sembra totale e ciò che avviene intorno è solo elemento di disturbo. Persino la stazione MM usata ogni giorno – pur soavemente annunciata in duplice lingua – per alcuni sembra arrivare fastidiosamente troppo presto. Per fortuna la breve corsa verso l’uscita quasi sempre fa raggiungere e scavalcare la linea gialla sani e salvi.

Il nodo cruciale – ed è anche la ragione per cui ho deciso di scrivere questo post –  riguarda la questione della “spilletta” color blu cielo intenso con la scritta “Mi cedi il posto per favore?” Chi pensa di averne bisogno – specifica l’azienda di trasporti milanese – può richiederla agli ATM Point ma anche online sul sito e la riceverà gratuitamente a casa.

Sono d’accordo con un antico adagio che recita “Ciò che non si vede non esiste”. Parole più che mai attuali in tempi di ininterrotte esposizioni mediatiche. Mi sono immaginata indossare la decorative pin bianca e azzurra dopo una lunga ricerca del punto più visibile dove appuntarla (non troppo vicino alla sciarpa ondivaga, attenzione al risvolto del piumino, al centro fa molto bersaglio…) e successivamente, andare alla ricerca – difficilissima – del passeggero ritenuto a intuito il miglior interlocutore del messaggio non verbale di richiesta di aiuto.

“Mi cedi il posto per favore?”. La mia spilletta non ha voce, la sua richiesta è muta. Chi la deve ascoltare lo deve fare con gli occhi. E quindi, proseguendo con la fantasia, immagino il ragazzo che ho scelto come possibile ricevente del messaggio posare – in modo del tutto fortuito –  lo sguardo sul bottoncino bianco e blu e alzarsi di fretta, imbarazzato, e scusarsi. Con la spilletta.

Bravissimo. Ma non mi ha guardata, non mi ha vista. Io continuo a non esistere. Con i miei capelli bianchi, le rughe assolutamente non d’espressione ma da età avanzata, la spalla destra lievemente curva per il peso di una borsetta un po’ troppo carica. La prossima volta, quando cambierò giacca dimenticando – è cosa certa – la spilla su quella che indosso oggi, quel ragazzo mi cederà il posto?  Non so.

In ogni caso, lasciando l’onere della comunicazione alla spilletta mi sentirei ancora più fragile, più inabile: diventata incapace di usare le mie parole per fare una richiesta molto semplice.

Grazie ATM del pensiero. Ma ho deciso che continuerò con il vecchio metodo. Una cortese richiesta verbale (tra l’altro sono abituata a dare “del lei”, a meno che non mi trovi di fronte a un/a ragazzino/a), un caldo ringraziamento, il tutto seguito dalla gradevole sensazione di avere vissuto un fuggevole ma reale momento di rapporto umano.

p.s.  Sia chiaro, quello che ho scritto vale per me, non ho inteso scoraggiare i portatori di spilletta ATM, che tuttavia mi pare non siano numerosissimi: nel mio frequente uso di mezzi pubblici non ne ho mai incontrato uno. Eppure, salvo rari casi, non sto con gli occhi fissi sul cellulare.  Comunque in numero assoluto le spillette distribuite non sono poche: oltre tremila, dato fornitomi molto gentilmente dall’Ufficio Stampa dell’Azienda.

*Psicologa, formatrice, redattrice di Prospettive Sociali e Sanitarie

5 pensieri su ““Mi cedi il posto per favore?”

  1. Pierluigi Emesti

    Interessanti queste riflessioni che traendo spunto dalla campagna ATM riverbera sui nostri comportamenti sui mezzi pubblici, e non solo. (ahimè, anche al ristorante è più facile vedere persone chine sul cellulare piuttosto che apprezzare il cibo e la compagnia che si ha davanti)
    Comunque, vistomi costretto dopo un po’ di tempo a frequentare quotidianamente in orario casa-lavoro i mezzi ATM, mi ritrovo in questi pensieri. Ma dopo un primo momento di stupore misto a sguardo di rimprovero verso tutti questi esseri che non riescono a smettere di guardare il proprio cellulare mi sono sforzato di immaginare delle spiegazioni possibili.
    Sui mezzi pubblici negli orari di punta quando si va al lavoro o a scuola, siamo in ostaggio della calca, siamo vittime di ritardi, del traffico, siamo quasi “violentati” nei nostri tempi di vita, e nel nostro spazio fisico intimo. (il famoso uovo prossemico)
    Non vorremmo stare in piedi addosso ad altre persone guardando il cappotto o la nuca di un’altra persona a 2 centimetri dalla nostra faccia.
    Quindi cerchiamo una via di fuga, ci isoliamo per non soffrire, troviamo il nostro spazio intimo virtuale, dove non sentiamo più gli odori sgradevoli, i rumori molesti delle porte che si aprono e chiudono, gli stridii dei freni all’approssimarsi delle fermate; siamo da un’altra parte, siamo dove nessuno si impone con lo sguardo, perché siamo soli.
    Se per caso riusciamo a conquistare un posto seduti, non è certo la panchina di una riserva della squadra, ma bensì un trono. Un luogo di potere dove ci concediamo dello spazio in più e un minimo di riposo.
    Ovviamente questo succede nei momenti di maggiore afflusso di passeggeri.
    Un particolare comportamento però mi sfugge dal capire, è quello che tengono molte persone e che particolarmente mi erode la pazienza, le persone che si mettono davanti alla uscita senza doverne avere bisogno.
    Ho assistito a persone che per sette, otto fermate sostavano, in barba ai disagi di chi doveva salire o scendere dal mezzo, davanti alla porta. Quale oscuro bisogno o paura esprime chi non si vuole avventurare un paio di metri oltre la soglia?
    Forse la voglia di non essere completamente dentro quel luogo.
    Però, sinceramente potrei farne a meno.

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    1. Patrizia Taccani

      Grazie a Pierluigi Ernesti che ha voluto rispondere alle mie osservazioni andando alla ricerca di una possibile spiegazione dei comportamenti di autoisolamento posti in atto dalla maggioranza dei passeggeri sui mezzi pubblici di Milano. Proprio la sua ipotesi, la descrizione di ciò che accade mi rende ancor più convinta che il mezzo più idoneo per rompere la barriera che ci divide e che tanto spesso impedisce di scorgere il bisogno di un altro (vecchio, disabile, donna incinta, adulto con bimbo piccolo in braccio, ragazzo con la stampella) sia il contatto interpersonale attuabile attraverso una richiesta diretta. Senza arroganza, con gentile determinazione.

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  2. sirio

    Viaggio anch’io esclusivamente con i mezzi pubblici e non mi ero per nulla accorta di questa campagna ‘educativa’. E non tengo lo sguardo incollato al cellulare! Certo ingenuo l’ideatore: le spillette che dovevano aiutare, sottolineano invece quella fragilità che ai nostri giorni non è per niente apprezzata, anzi spesso emarginata e vilipesa. Non mi stupisce quindi di non averne mai visto alcuna indossata come richiamo.Forse andrebbe promossa una campagna sulla gentilezza, sul rispetto, sulla buona educazione… Chissà che poi qualcuno riesca ad alzare la testa e a tornare a guardare l’umanità, ad apprezzarla e a scambiare qualche parola con il casuale viaggiatore del sedile accanto.

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  3. Benedetta

    Certamente questo articolo offre preziosi spunti di riflessione sulla fragilità di tutti noi: di chi sui mezzi pubblici trascorre il tempo, breve o lungo che sia, concentrato nel proprio mondo con in mano il cellulare e di chi cerca, indossando una spilletta, un po’ di attenzione per la propria condizione (di anziano, o disabile o di mamma incinta) senza avere il coraggio però di chiederla.

    Una volta sui mezzi pubblici capitava, spesso involontariamente, di iniziare ad ascoltare frammenti di conversazioni tra madre e figlia, o tra un gruppo di amici, tra due fidanzati.. discorsi divertenti, storie tristi, commenti banali.. insomma, pennellate della vita di quelle persone con cui stavi condividendo un breve tragitto in tram o in metropolitana.. ascoltare e osservare ci metteva in contatto con vite che quasi sicuramente non avremmo più incrociato ma che, chissà, una volta scesi alla nostra fermata, avremmo potuto continuare ad immaginare oppure semplicemente dimenticare..
    Oggi viaggiamo sui mezzi pubblici stretti come sardine, ma in fondo molto isolati.
    Sono d’accordo che la richiesta verbale, accompagnata da un sorriso, siano la via più efficace per ristabilire un contatto umano tra noi, e che mi sembrerebbe davvero molto triste trovarmi a cedere il posto perché lo sguardo si posa sul metallico accessorio, anziché alzarmi istintivamente dopo aver osservato le persone che mi circondano e colto il bisogno di chi mi sta accanto !

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  4. Maria Giogetti

    No, la spilletta io non la indosserei. Ho una “certa età”, problemi articolari e di circolazione sanguigna ma una sorta di pudore mi trattiene dal manifestare le mie fragilità…e non da ora ma da sempre.
    Ho un ricordo di me giovane sposa, incinta da poco e alle prese con i cali di pressione, apostrofata da una signora della mia età attuale che mi sollecitava a cedere il posto. E un altro ricordo: la prima volta che un ragazzo sull’autobus mi sorrise e si alzò per cedermi il posto…
    Due ricordi, due stati d’animo differenti. Nel primo fu un misto di senso di colpa, vergogna per non aver capito le difficoltà di chi mi chiedeva il posto, rabbia insieme a una sensazione di ingiustizia perché tra tutte le persone sedute, tra cui diversi uomini, aveva scelto me, proprio quel giorno che non stavo bene… Nel secondo fu un misto di stupore e consapevolezza che gli anni per me erano passati.
    Ricordi ma soprattutto incontri che hanno toccato la mia fragilità e la fragilità degli altri intorno a me. Tutti siamo concordi nell’affermare che bisogna sollevare lo sguardo dal cellulare ma lo dobbiamo fare facendo crescere dentro di noi la voglia di gentilezza, educando alla gentilezza, con o senza spillette.

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