L’insicurezza e la paura del cittadino: timore del crimine e rischio effettivo

di Anna Paola Lacatena*

La crescita delle città nella seconda metà del XX secolo, il cambiamento dei modelli di vita e l’alta concentrazione urbana hanno modificato sostanzialmente le caratteristiche dello spazio pubblico urbano, e ciò ha determinato un diverso rapporto tra gli abitanti e la città stessa: si è, così, passati dal “rischio della città” alla “città del rischio” (Nocenzi, 2001).

E’ noto che il timore del crimine non sempre è in proporzione al rischio criminale. Negli ultimi anni se la criminalità si è mantenuta entro limiti e tassi di sviluppo “fisiologici”, la paura, soprattutto nei grandi centri urbani, è cresciuta (Travaini, 2002). Ovvero, si riscontra talora che la “vittimizzazione vicaria”, cioè la conoscenza di reati occorsi nel proprio circondario o il racconto fatto da persone che sono state vittime, incide sulla paura più ancora di quanto non faccia la vittimizzazione diretta (d’altro canto l’ansia è per definizione anticipatoria) (ibidem, 2002, pp. 42-56). E’ del pari noto che spesso se il rischio di subire un reato predatorio cresce con l’innalzarsi del livello sociale, la paura è, viceversa, inversamente proporzionale al ceto (Barbagli, 2002).

Di fatto, paura del crimine e percezione della probabilità di divenirne vittima non sono sinonimi. La letteratura criminologica straniera distingue poi fra “fear of crime”, cioè paura personale della criminalità, e “concern about crime”, ossia preoccupazione sociale per la criminalità spesso all’origine dell’invocazione di pene più severe. Paura personale e preoccupazione sociale non sempre sono correlate, ma, almeno negli Stati Uniti, si sono viste entrambe aumentare in concomitanza con il tasso di furti, rapine e omicidi (Barbagli, 2000).

C’è però da chiedersi se talora essere “spettatori” divenga più importante persino dell’essere attori, data l’importanza che oggigiorno assume l’informazione televisiva, fino a poter definire quella attuale una “viewer society” (Mathiesen in Cottino, 1992).

Nonostante una buona parte della risposta aggressiva nasca dalla paura, taluni avvertono il «bisogno di convincersi che l’avversario non è un nostro simile, bensì un essere abominevole, iniquo, etc.; si rende necessario un indottrinamento che eriga delle barriere alla comunicazione ed estranei dalla realtà, fino al delirio.» (Oliviero Ferraris, 1998, p.83). In pratica si assiste al passaggio dalla paura esogena alla paura endogena, con le inevitabili conseguenze scaricate sull’Altro in termini di pericolosità sociale. Più comoda, infatti, appare la strada dell’esternalizzazione e della ricerca del capro espiatorio, in quella che diviene una sorta di collettiva proiezione.

Se l’irrazionalità è di per sé più apparente che reale, la stessa si offre opportuna e comoda non già a contrastare il crimine ma più strumentalmente a manipolare il consenso. La proiezione accompagnata dalla dislocazione sono poi manifeste nel meccanismo del capro espiatorio, il farmacos, la concezione del male anche interno come qualcosa che può essere trasferito su di una persona che a sua volta potrà essere socialmente sacrificata.

E’ così che prende forma, attraverso il relitto storico di un singolo reo, la partecipazione delle istituzioni all’irresponsabilità generalizzata, la complicità dei sistemi giuridici nell’opera di disintossicazione collettiva dalla paura e di blocco della spinta collettiva alla autoregolamentazione (Stella, 2002).

Se il tema della sicurezza si trova, quindi, in cima alla lista delle preoccupazioni del cittadino italiano, in particolare di quello residente in alcune macroaree del Paese, il cosiddetto diritto a vivere sicuri diventa, conseguentemente, una delle sfide cui la politica non può abdicare. La paura può essere contenuta razionalmente, magari dicendo che forse non è fondata, ma il fatto che esista è di per sé già un elemento sociale e politico da non trascurare, basti ricordare che sentirsi poveri, spesso, pesa più di esserlo e che, quindi, è la percezione della propria condizione ad influenzare prevalentemente comportamenti e scelte.

Una centralità politica e culturale, quella della paura, che non è patrimonio di pochi o di precisi schieramenti politici. È merce pubblica, oggetto di scambio, terreno di consenso elettorale con il rischio che la semplice enunciazione dell’allarme finisca con il diventarne la sua più realistica manifestazione, spesso l’unica. La cura proposta, dunque, rischia di diventare patogena. Per contro, l’unica soluzione possibile resta quella di insegnare a non avere paura che della paura stessa.

È indubbio come la richiesta sempre crescente sicurezza rischi di legittimare risposte improprie, acuendo solitudine e diffidenza. Troppo spesso sotto l’egida del bisogno di alleggerire la paura rinunciamo a parte delle nostre libertà, rivendicando sistemi di sicurezza e controllo mortificanti rispetto alla nostra vita e a quella degli altri. Soprattutto se questi sono persone ristrette, ree o in attesa di giudizio. In estrema sintesi, persone che vivono o cercano di farlo nel carcere. A tal proposito, rifacendoci all’invito della studiosa Hannah Arendt, forse, solo la conoscenza è in grado di scongiurare il male dell’irrazionalità.

L’obiettivo del libro “Reclusi. Il carcere raccontato alle donne e agli uomini liberi” (Carocci, 2017), di cui la scrivente è co-autore assieme a Giovanni Lamarca, è quello di proporre un’analisi per far conoscere la vita ristretta e le sue vicende umane come appartenenti di fatto a contesti sociali più ampi. Se il lettore, al termine del libro, sentisse il desiderio/bisogno di rimettere in discussione la sua personale idea di libertà, allora questo lavoro editoriale avrebbe avuto un senso. E, forse, una qualche forma di paura una sua auspicabile delegittimazione culturale.

* Dirigente sociologa presso Dipartimento Dipendenze Patologiche ASL TA

 Bibliografia

Travaini, G.V., Paura e criminalità. Dalla conoscenza all’intervento, FrancoAngeli, Milano, 2002.

Barbagli, M. (a cura di), Perché è diminuita la criminalità negli Stati Uniti?, Il Mulino, Bologna, 2000.

Barbagli, M., “La paura della criminalità”, in: Barbagli M., Gatti U., La criminalità in Italia, Il Mulino, Bologna, 2002.

Cottino, A., “Panico morale e nemici appropriati: riflessioni in margine a due contributi di T. Mathiesen e di N. Christie-K. Bruun”, in: Giasanti A. (a cura), Giustizia e conflitto sociale. In ricordo di Vincenzo Tomeo, Giuffrè, Milano, 1992

Constant, B., Principes de politique, trad.it, S. De Luca (a cura di), Principi di politica applicabili a tutte le forme di governo, Rubbettino, Soveria M, 2007.

Nocenzi, M., “Dal rischio della città alla città del rischio: riflessioni su un’inedita dimensione urbana”, in Il dubbio, n. 1, 2001.

Stella, F., Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Giuffrè, Milano, 2002.

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