“Lentius Profondius Suavius”

di Franco Marengo*

Suggestioni sulla disabilità in un motto di Alexander Langer

lentiusLavorare con la disabilità mette in rapporto le aspettative prestazionali dell’operatore con l’immaginario ideale di modello sociale a cui avvicinare l’utenza per aumentarne la dignità di cittadini.
Abitiamo un contesto richiedente a ogni livello; stimolati ad aumentare competenze, dare risposte più veloci, più efficaci, più economiche, se passiamo dal ruolo di cittadini, fruitori di servizi, a quello di operatori sociali, prestatori di servizi, manteniamo l’attitudine a spingere l’utenza che beneficia delle nostre attenzioni verso il modello a cui tendiamo come ovvio e naturale, il migliore o l’unico possibile.
L’immaginario sociale di riferimento, anche per le aspettative delle associazioni di famiglie di persone con disabilità, è che i propri congiunti abbiano accesso alle opportunità di tutti, che idealmente è legittimo.
Ma il modello ideale sta sfuggendo di mano, è sempre più ideale e meno praticabile. Le opportunità che abbiamo considerato ordinarie e scontate diventano “a rischio di élite” e lo scarto verso la disabilità aumenta.
Vale la pena provare a mettere in discussione questa visione educativa e chiedersi se sia davvero la strada migliore da percorrere “per aiutare i nostri utenti a stare meglio”? Forse vale almeno la pena farsi qualche domanda diversa dall’ordinario per intravedere risposte nuove.
Credo che l’educatore svolga una funzione di “mediazione comportamentale” tra soggetti e contesti, di traduzione di linguaggi, comunicazione tra luoghi, culture del sapere, sensibilità emotive e psicologiche diverse.
L’educatore come traghettatore, carovaniere a cui ci si affida per arrivare ad una destinazione ambita, attraversando spazi progettuali altrimenti inesplorabili.
Facilitatore di processi di autonomia, è un compagno di viaggio che indica la rotta, non necessariamente precede, ma affianca, incoraggia.
Figura che deve essere professionalmente preparata, interiormente equilibrata e consapevole della direzione da seguire, dei passaggi da attraversare, pericoli compresi e della bontà e inevitabilità del viaggio stesso, condividendone meta e credibilità, deve considerare anche la sollecitazione del contesto di riferimento, del territorio da attraversare, dell’obiettivo da raggiungere, che si sposta sempre più in avanti in una società che allontana gli obiettivi di benessere, di realizzazione dell’individuo, aumentando lo scarto fra chi può rimanere in corsa e chi non riesce.
L’educatore deve mediare fra distanze sempre più ampie soprattutto culturalmente.
Il “diverso” è sì sempre più conosciuto e idealmente accettato, ma non altrettanto nel suo diritto a rimanere diverso da quei modelli spesso improponibili già alla maggior parte delle persone.
L’impegno aumenta sui due fronti: il lavoro con chi ha una disabilità per potenziare le sue capacità e con il contesto di accoglienza per modellarne gli spigoli, aumentarne la tolleranza.
La parte più difficile del lavoro il mediatore comportamentale la compie in questo secondo ambito come ben sanno gli operatori che accompagnano progetti educativi di soggetti con disturbi del comportamento e della relazione per i quali è necessario “educare i contesti sociali” all’accoglienza per perseguire l’integrazione e rendere comprensibili, accettabili i comportamenti disturbati e disturbanti non sempre cancellabili.
Mantenere l’attenzione al modello di “come si dovrebbe diventare” allontana dall’osservazione e dal riconoscimento di chi è accompagnato. Occorre recuperare la pazienza di guardare chi è la persona con disabilità, come persona prima che come disabilità e immergersi in quell’habitat per comprenderlo, riconoscerlo, esplorarlo, abitarlo.
Due libri, diversi in stile e contenuti, hanno in comune un elemento interessante: “Il senso di Smilla per la neve” e “E venne chiamata due cuori”.
Il primo, un giallo, indica per gli Inuit più di dieci termini diversi per definire neve e ghiaccio a seconda di consistenza, umidità, friabilità. Il secondo, il viaggio di una donna statunitense fra gli aborigeni australiani, di cui scopre vita, cultura, saggezza, spiritualità, descrive come essi abbiano decine di modi differenti per definire le varietà della sabbia.
In un clima temperato possiamo permetterci espressioni più sintetiche come neve, acqua, sabbia, roccia e in ciascuna di esse racchiudere molteplici significati, in un ambiente dove l’elemento naturale dominante è uno solo è fondamentale imparare a coglierne le sottili differenze, per la sopravvivenza.
Condizioni estreme di vita sviluppano specifiche sensibilità.
Comunicare con chi vive condizioni estreme significa impararne il linguaggio, adattare lo stile di vita alle sue condizioni, modificare abitudini e prospettive esistenziali in funzione di altri orizzonti, cambiare i ritmi nella diversa relazione spazio-tempo.
Chi lavora con la disabilità, soprattutto la più compromessa, deve affinare la capacità di riconoscere le minime variazioni sintomatiche, umorali, gestuali, motorie, sonore: è con quell’ambiente che si confronta, è quel territorio che attraversa e abita per svolgere il ruolo di carovaniere, migrare persone e comportamenti, trovare risorse, operare scelte, vedere confini.
Riconoscere le sfumature espressive significa cogliere altre possibilità comunicative e valorizzare le variazioni minime in una condizione che pare indistinta, senza prospettive.
I ghiacci non si attraversano come un deserto, ma l’accortezza è la stessa: l’attenzione a non impazzire perché “intorno e davanti tutto è uguale” (burn-out?) e l’attenzione alla carovana, alle sorprese che si rivelano nel viaggio (obiettivi a medio e lungo termine?).
L’attenzione deve spostarsi dall’esterno all’interno della relazione. Non la ricerca di un “luogo abitabile il più vicino e simile possibile a quello degli altri”, ma la ricerca “del miglior luogo abitabile in quelle condizioni e del miglior modo di abitare quel luogo”.
Per ribaltare le priorità date e richieste agli operatori, alle famiglie, ai compagni di viaggio che chiamiamo utenti o clienti occorre fare attenzione ai cambiamenti semplici, lenti, apparentemente insignificanti, lavorando con pazienza e tenacia, nella profondità della relazione, la dolcezza dell’intervento, senza forzature.
Lentezza, profondità e dolcezza in latino suonano lentius, profundius e suavius, espressione cara a Langer nel prospettare un modello di vita meno frenetico, meno agguerrito.
In esso sintetizzava una proposta di ribaltamento delle priorità della civiltà moderna che potrebbe essere preso, con coraggio e ambizione, a paradigma per orientare Progetti Educativi per accompagnare l’utenza in un modo più rispettoso e attento alle persone, perché le terre della diversità che abbiamo il mandato di attraversare sempre più frequentemente ci raggiungono prima ancora di iniziare il viaggio e, sovente, sono esse stesse ad indicarci la direzione da seguire.

* Presidente della cooperativa Il Riccio scs, Castiglione Torinese

Sul numero di settembre di PSS, lo stesso autore firma un approfondimento di questo post. 

2 pensieri su ““Lentius Profondius Suavius”

  1. Massimo

    Argomento centrato e ottimamente argomentato, il tutto condito con un talento nella scrittura non comune. Per chi ha molti anni di esperienza sul campo e ha visto passare molte “mode” sugli approcci educativi e relazionali un vero punto fermo. Spesso si leggono cose interessanti, più raramente così ben scritte.

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  2. Claudio Caffarena

    Caro Franco, grazie. Per i pensieri che condividi con gli altri e per l’impegno che esprimi nelle varie occasioni di lavoro.
    Concordo, con chi ha espresso il commento prima di me, nell’apprezzamento per il tuo stile di scrittura: efficace e stimolante. Continua così.
    Buon lavoro.
    Claudio Caffarena.

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