La psichiatria, tra il pessimismo di Mario Tobino e la poetica di Ungaretti

di Davide Pizzi*

sono una creaturaIl medico psichiatra e scrittore Mario Tobino ha ottenuto meno consensi e palcoscenici rispetto al suo collega Franco Basaglia, e per queste ragioni è poco conosciuto, ricordato e citato. Egli, che ha lasciato un’indimenticabile memoria sulla sua esperienza psichiatrica nel manicomio di Lucca [1], manifestò la sua contrarietà alla legge 13 maggio 1978, n. 180 e scrisse queste parole al suo assistente: “Questa legge 180 ha del buon principio, ma come spesso in Italia accade saranno problemi. I malati vanno curati e amati. I politici guasteranno tutto… come sempre. Ma resteremo soli e la moda vincerà. Addio malati, cari compagni della mia vita”.

Alla luce della mia esperienza nel Centro di Salute Mentale mi sono spesso ricordato le sue parole. Quale sostegno alle famiglie che assistono un parente psichiatrico grave? A chi interessa la loro sofferenza? Chi fa concretamente qualcosa per gestire i conflitti interni? Sono tanti i quesiti da elencare, e ben poche le risposte operative che i CSM o la legge offrono al dramma di chi deve convivere quotidianamente sotto lo stesso tetto con un paziente psichiatrico. Le istituzioni non sempre sono in grado di cogliere il pianto invisibile delle famiglie disperate, che mi ricorda i versi di Giuseppe Ungaretti: “Come questa pietra è il mio pianto che non si vede, fredda, dura, prosciugata, refrattaria, disanimata” [2].

Quando la morte la si sconta vivendo

I versi di Ungaretti mi hanno sovente accompagnato nelle giornate lavorative di quel periodo, mi sentivo in prima linea, a fianco delle famiglie che si sforzavano di convincere operatori che la situazione a casa era insostenibile, d’urgenza, e non d’emergenza, vocabolo tecnico che esse non possono comprendere, che interpretano come sofisma della burocrazia. Alcuni familiari esprimevano il desiderio di morire piuttosto che continuare a vivere così. Famiglie lacerate, duramente provate e senza serenità: “Non è rimasto che qualche brandello di muro, nessuna croce manca: (il loro) cuore il paese più straziato” [3]. Ho sempre ascoltato con attenzione i loro sfoghi, le loro solitudini, empatia talvolta ritenuta eccessiva e considerata come un “punto debole” dagli altri colleghi. Mia debolezza o loro burn out? Le cose giuste non hanno bisogno di eloquenti discorsi, si prestano a rapide intuizioni, come queste frasi dei familiari che si commentano da sole:

  • Se il buon umore è contagioso lo sono anche la follia e la depressione… stiamo impazzando anche noi!”
  • “Nostro figlio è suscettibile, devi fare tutto ciò che ti chiede quando è in piena fase di delirio, guai a contraddirlo!”
  • “Mia madre anziana e vedova, mi ha chiamato l’altro giorno tutta spaventata perché mio fratello era in preda a una delle sue crisi. Ho pensato di informare il CSM che lo segue affinché intervenissero. Anziché ricevere comprensione sono stato rimproverato! Mi hanno risposto che se si è arrivati a questa difficile situazione è stato soltanto a causa di mia madre che ha viziato mio fratello.”

Per queste ragioni informavo le famiglie che la legge prevede di opporsi alle dimissioni dei pazienti psichiatrici con limitata autonomia, dagli ospedali e dalle case di cura private convenzionate.

È importante comprendere questo concetto nei tempi giusti. Arriva il giorno in cui, o per la gestione protratta da lunghi anni, o per problemi di salute, ovvero di senilità, i caregivers non possono più essere considerati una risorsa primaria. A loro volta necessiteranno di cure. Basta un po’ di buon senso per comprendere quanto sia duro il compito dei familiari, che gestiscono:

  • I deliri. Non è facile ascoltarli.
  • Gli equilibri familiari ruotano tutti attorno al malato psichiatrico. Egli è in grado di far dipendere le giornate dei suoi parenti dai suoi umori.
  • Il senso di colpa. Capita che nei familiari si instauri un sentimento di odio rivolto alla persona piuttosto che alla malattia, perché patologia e malato diventano un tutt’uno. Si smarrisce la capacità di fare distinzione, e quando il periodo turbolento termina, subentra il senso di colpa.

Un servizio sbilanciato

Ho trovato spesso mancante nei CSM una reale apertura alla valutazione sociale e familiare dei casi. La presa in carico dei pazienti dovrebbe includere anche questo aspetto, invece di privilegiare quello medico/sanitario come avviene in altre specialità mediche L’assistente sociale è, in quanto unico operatore non sanitario, in minoranza, e questo significa correre il rischio di sentirsi solo, schiacciato dall’invadenza degli altri colleghi, che non comprendono né gli strumenti, né l’epistemologia del lavoro sociale.

“Se non vuol venire noi non ci possiamo fare niente!” Non è raro che i parenti abbiano questo tipo di risposta, soprattutto quando ci sono nuove segnalazioni. Ricordo il caso di una signora che stava demolendo il mobilio, perché convinta che gli extraterrestri avevessero nascosto nella sua abitazione delle microspie. Aveva persino smesso di lavarsi per timore di essere vista nuda dagli alieni. Quando il figlio disperato si recò al CSM per essere aiutato, gli risposero che se la madre non si fosse recata di sua volontà (cosa che una persona psicotica difficilmente farà perché negherà di essere malata, anzi, sposterà sugli altri la sua patologia!) loro non sarebbero potuti intervenire.

Aleggia oggi nel pensiero della psichiatria un senso di colpa latente, catartico ai metodi disumani usati in passato nei manicomi? In che misura lo condiziona? Dove inciampa oggi la psichiatria? Incorre nell’errore opposto di una visione eccessivamente liberale

Esasperato concetto di libertà?

La libertà è un processo dinamico nello spirito di una persona che dovrebbe accrescere il senso di responsabilità, di maturità e di rispetto verso sé stesso e i simili. L’attuale condizione di “riscattati” dall’istituzione totale, espone i malati psichiatrici a pericoli di cui non sempre sono consapevoli, che i CSM scoprono con ritardo, quando il danno è già rilevante. La loro fragilità li mette a rischio di raggiri economici, prodigalità, piccoli episodi di prostituzione e pornografia amatoriale, accattonaggio ed elemosina, vagabondaggio, gravidanze irresponsabili, precarietà delle condizioni igieniche personali ed abitative, eccessivo tabagismo, abuso di sostanze alcoliche, e guida rischiosa col mezzo di trasporto. Lasciati in molti casi a oziare (l’ozio è il padre dei vizi), trascorrono le giornate senza alcun controllo, progettazione e protezione. Oggi sono le famiglie a essere prigioniere delle istituzioni, a non vedere via di scampo, e a desiderare a loro volta di essere emancipate! Ho l’impressione che la follia che i CSM non riescono ad arginare e a contenere, finisca col trasferirsi a carico delle famiglie e dei pazienti, che ricevono più libertà ma meno cure e protezioni dai pericoli dell’ambiente esterno.

Dati allarmanti in Europa e nel mondo

Un cittadino su tre, il 38%, ha un disturbo psichico di diversa intensità e durata, mentre nel mondo, uno su quattro soffre di un disturbo mentale. Si abbassa l’età minima in cui si manifesta un disturbo, e circa il 70% di tutte le patologie compaiono entro i 25 anni. Purtroppo, il tempo tra la comparsa dei primi sintomi, la diagnosi e la possibilità di cura è in ritardo di alcuni anni, e il ritardo delle cure peggiora gli esiti [4]. Nel 2020, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, l’umanità sarà più depressa e la depressione sarà la principale causa di invalidità nel mondo [5]. Se non si interverrà seriamente, la maggior parte del carico assistenziale di questi pazienti graverà sempre più sulle famiglie.

Tra deontologia e proposte migliorative

Non esistono operatori infallibili, ma si dovrebbe avere la professionalità e l’onestà intellettuale di non perpetrare errori di valutazione. Perseguire la domiciliarità a tutti i costi, serve solo ad aggravare la situazione; le case non sono ospedali, e i familiari non sono né medici, né infermieri, né operatori. Ai CSM servirebbe a mio avviso:

  • Turn over del personale per contrastare l’insorgenza del burn out. Non sono rari stigmi e pregiudizi rivolti verso i parenti o la famiglia d’origine del paziente;
  • Sostenere e lavorare sui e con i caregivers. Questo aspetto è stato previsto anche dalla Conferenza Ministeriale europea sulla Salute mentale, tenutasi a Helsinki nel 2005 .

 Conclusioni

Quando stiamo male, non aspettiamo che la situazione si aggravi, cerchiamo l’assistenza di un medico per farci dare una cura. Il malato psichiatrico, invece, giunge spesso alle cure in ritardo. Per tutti loro probabilmente, ci deve essere stato un periodo in cui erano ancora sani di mente, ed è su quel periodo che forse, bisognerebbe indagare di più. A pagare il conto più salato però, non possono essere le famiglie. Altrimenti si finisce col pensare che la segregazione del malato sia l’unica via d’uscita: “È tornata la voglia di vivere!” mi disse un giorno una coppia di genitori non più giovani, il cui figlio era definitivamente ospite in una struttura adeguata. “Ci siamo occupati per trent’anni di nostro figlio, che ci siamo resi conto che abbiamo trascorso il tempo ad abnegare, a sacrificare le nostre esigenze, personali e di coppia, per dedicarci completamente a lui. Non è stato semplice tornare a capire come vivere.”

[1] Mario Tobino, Le libere donne di Magliano, 1953

[2] Dalla poesia di G. Ungaretti “Sono una creatura”

[3] Dalla poesia di G. Ungaretti: “San Martino del Carso”

[4] Dati presentati dal dott. Claudio Mencacci nel programma di Radio 1 Voci del mattino del 09.10.2015, riascoltabile attraverso il sito da questo link di Radio1 oppure da questo link.

[5] Anna Rita Cillis in: Sesso estremo, tra eros e perversione. Ora le donne diventano protagoniste, Le inchieste di Repubblica, speciale 2011.

*Assistente Sociale, Ordine della regione Puglia

5 pensieri su “La psichiatria, tra il pessimismo di Mario Tobino e la poetica di Ungaretti

  1. Nucci A.Rota

    Una Basagliana convinta come me non si sente indignata bensì arricchita dall’articolo, sono sempre stata convinta che se non si crea una rete intorno alla famiglia del paziente psichiatrico chi paga le conseguenze più pesanti sono proprio i caregivers. Discorso che vale anche per altre patologie. La legge 180 ha funzionato come un “buon detonatore”, ha ridato dignità a malati che non l’avevano ma sono convinta che ci sia molto da fare ancora.

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  2. Pierluigi

    Caro Davide
    Purtroppo questa volta mi sembra eccessivamente fosco il quadro che dipingi.
    Sebbene le conclusioni che trai siano condivisibili, direi quasi scontate, altre parti dell’articolo non mi hanno convinto.
    Io ho fatto il tirocinio come Animatore Sociale (parecchi anni fa) in un C.P.S. In provincia di Milano e nell’èquipe c’era un Educatore Professionale che faceva parecchie attività con un gruppo di malati. Svolgevano degli incontri sportivi, borse lavoro, brevi momenti di incontro quotidiani, incontri di Arteterapia.
    Vero è che le risorse sono via via scemate e comunque non bastano mai a soddisfare le richieste.
    Ma non puoi fare sempre le cose perfette, puoi però farle al meglio.
    E’ mantra che ogni tanto mi devo ripetere anche io se voglio sopravvivere alla mia insoddisfazione.
    Inoltre devo ammettere che non sono d’accordo sul fatto che l’ozio sia il padre dei vizi.
    Che ci siano tutta una serie di pericolose attività che un malato mentale possa fare è vero, ma a quanto pare ad andare contromano in tangenziale fino ad ora non mi risulta abbiano beccato persone espulse dai manicomi.
    Tutti noi possiamo e dobbiamo poter sbagliare, entro certi limiti.
    L’ istituzione totale per come è stata realizzata non mi piace per nulla.
    Che ci siano dei notevoli margini di miglioramento è sacrosanto, ma forse non è sempre e ovunque una situazione tragica.
    Inoltre come spesso accade sia con la malattia mentale che con la disabilità si vede troppo spesso l’aspetto di “peso” e di “problema” e molto meno quello della “risorsa”.
    http://scambi.prospettivesocialiesanitarie.it/immaginabili-risorse-disabilita-e-valore-sociale/#comment-2327
    Alda Merini scrisse che “Anche la follia merita i suoi applausi”
    Chiudo tornando all’auspicato Turn-Over degli operatori.
    Nel campo della disabilità dove si vive una situazione parallela, se ne parla da tempo, ma ci sono delle frizioni al cambiamento che vengono anche da parte degli stessi lavoratori.
    E’ anche questo un momento delicato, che va governato e promosso, ma anche supportato non dispoticamente. http://scambi.prospettivesocialiesanitarie.it/cambia-il-mondo-ma-noi-no/
    tempo fa avevo superficialmente parlato di ciò.
    Saluti
    Pierluigi

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    1. Davide Pizzi

      Grazie per aver letto il mio articolo e aver lasciato il tuo pensiero al dibattito. Ho raccontato quello che ho visto nella mia esperienza lavorativa che negli anni è stata molto itinerante – ho lavorato da nord a sud dell’Italia – e ancora oggi continuo a vedere le situazioni che ho descritto, sebbene non lavoro più al CSM. Credo che quando un parente venga in lacrime al servizio a raccontare la sua disperazione, sia giunto allo stremo delle sue forze. La sofferenza merita sempre un solenne rispetto, perché io come operatore, per quanto possa essere empatico, non saprò mai appieno la portata del dolore altrui: certe situazioni le comprende solo chi le vive! Lasciamo raccontare la sofferenza ai familiari, e noi operatori, ascoltiamola con la massima attenzione, infine, lasciamo loro esprimere se il parente che assistono sia una risorsa o un problema, perché alla fine della giornata, noi ritorneremo nelle nostre case e ci dedicheremo ad altro, mentre loro, dovranno continuare. Nell’articolo non ho potuto raccontare di più, ma l’elenco sarebbe lunghissimo. Ho effettuato molte visite a domicilio, in ambienti che sarebbero da denuncia persino se vivessero degli animali, e certe volte, quando il paziente lo consentiva, eravamo costretti a mandare l’impresa di pulizie, che costava diverse centinaia di euro al servizio; “amare” un paziente psichiatrico, significa anche farlo vivere dignitosamente, come una persona umana, anche se egli non sempre è in grado di capire l’intervento degli operatori. Ho visto utenti indebitati con finanziarie (anche 30 mila euro), perché non avevano un amministratore di sostegno, ecc., ma sono contento per te che, invece, hai lavorato in un servizio d’eccellenza, e mi auguro che aumentino sempre di più. Saluti anche da parte mia.

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  3. Patrizia Taccani

    Mi sembra che sia l’articolo di Davide Pizzi, sia i commenti, mettano in luce uno dei problemi cruciali che tutti noi viviamo quando siamo a contatto con la malattia fisica o mentale (soprattutto quando è cronica), del dolore (soprattutto quando è protratto nel tempo), della solitudine (soprattutto quando non l’abbiamo scelta, né per noi né per l’altro): il problema del “limite”. Sino a che punto, sino a quando possiamo prenderci cura? Ciascuno ha la propria misura e non è mai lecito fare confronti. Vale per i famigliari, vale per gli operatori. Ho seguito famiglie dove il prendersi cura ha generato risorse inaspettate da cui attingere ogni giorno, altre che hanno chiesto aiuto per passare la mano. Ho incontrato operatori in continua crescita personale e professionale nel loro lavoro di supporto e di cura, altri arrivati a esaurire le loro capacità. Nei servizi, ciascuno dalla propria posizione, non cerca, in fondo che uno spazio di ascolto e di contatto, altrimenti la voce non esce e la distanza non si accorcia.
    Grazie per le riflessioni di tutti.

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