La fragilità come vaccino comunitario

Considerazioni circa l’impatto della pandemia sul mondo dei servizi per le persone con disabilità e sul lavoro degli operatori

di Riccardo Morelli*

 

Un piccolo virus in un sistema complicato

Possiamo considerare gli accadimenti legati alla pandemia come eventi tragici da lasciarci alle spalle e rispetto ai quali occorre riuscire a ricostituire un equilibrio accettabile.

Possiamo pensare che quanto accaduto sia una parentesi, che il nostro obiettivo debba essere quello di far ripartire i servizi e di farlo in modo da garantire il prima possibile lo stesso livello di prestazioni e di fatturato ante Covid.

Sarebbe un errore.

Il virus rappresenta molte cose. Ha causato eventi terribili, portando dolore e lutto.

Rappresenta però anche uno “stress-test” per la rete dei servizi dei quali ha rivelato fragilità e punti di forza; ci ha detto quali assetti organizzativi e quali legami comunitari preesistenti alla pandemia sono maggiormente funzionali alla tenuta della coesione sociale.

Riuscire a riflettere su questi elementi di tenuta e di fragilità può essere molto importante, perfino urgente, in questa fase, anche e proprio in relazione alle incertezze alle quali siamo esposti. Abbiamo forse la possibilità di correggere il tiro, di mettere a frutto gli apprendimenti di questi mesi.

D’altra parte, la pandemia è pur sempre un evento sociale che ha alla base una ragione biologica. Come qualcuno ha detto (1), colpisce la sproporzione dimensionale tra il virus, infinitamente piccolo e semplice, e la portata, l’enormità degli sconvolgimenti che ha provocato.

Un fattore imprevisto e minuscolo, il virus, ha messo a nudo tutta la fragilità del nostro stile di vita. Questa fragilità è fortemente connessa alla complessità della nostra società. La nostra società è complessa e, quindi, fragile. Direi meglio, è complicata e, quindi, fragile. Una precisazione semantica utile a evidenziare le stesse cause di quanto accaduto.

Tutto ciò che è organico è complesso, la vita lo è. Gli esiti della pandemia ci dicono che abbiamo costruito una socialità complicata, più che complessa. Usando la parola “complicata” mi riferisco ad un paradigma inorganico. Abbiamo un modo di stare insieme e di relazionarci alla biosfera che è pieno di automatismi meccanici. Stiamo nel mondo e il virus è una conseguenza diretta del modo con il quale lo abitiamo (2).

Anche il nostro lavoro come operatori è sempre più pieno di automatismi (procedure, protocolli, modelli, metodi, ecc.) finalizzato a garantire la prestazione e il prodotto, più che la relazione ed il processo. Come operatori sociali ci siamo adattati a questo status quo e la cosa è non poco scandalosa, visto che ci occupiamo della fragilità (delle persone con disabilità e nostra). Ci si può occupare della fragilità in modo automatico, inorganico? Eppure la fragilità dei nostri sistemi di fronte al virus, ovvero di fronte all’impatto che ha avuto, ci dice che siamo complicati, non complessi. Tendiamo a prescindere dall’organico, dall’umano.

Esiti lombardi

L’attenzione al prodotto e alla prestazione è una caratteristica che connota fortemente il modello lombardo. È forte in Regione Lombardia l’attenzione alle architetture organizzative necessarie a garantire le prestazioni in maniera sostenibile dal punto di vista economico.

In questi mesi si è dibattuto a lungo circa le ragioni di quanto è accaduto e sta accadendo in Lombardia. Possiamo concentrarci su eventi singoli, su scelte puntuali che sarebbero state sbagliate ai vari livelli di governo, ma temo che ciò ci farebbe perdere di vista il punto centrale della vicenda lombarda.

L’epidemia ha albergato e alberga con molta resistenza sul nostro territorio e meno su altri. Quanto accaduto ci restituisce il fatto che le nostre comunità non avevano, al momento dello scoppio dell’epidemia e non hanno tutt’ora, le risorse per contrastare efficacemente il virus. Il tessuto sociale e comunitario lombardo è stato logorato e smembrato da un lavoro costante di individualizzazione delle fragilità (3) e dal loro scollamento dalle comunità di appartenenza (4). La propensione marcata alla voucherizzazione e all’erogazione cash di supporti diretti alle persone con fragilità ha avuto vari effetti. In primo luogo quello di costruire un rapporto diretto Regione-cittadini finalizzato alla costruzione del consenso.

In secondo luogo, un effetto collaterale di non poco conto, ovvero sottrarre progressivamente alle comunità la possibilità e la capacità di costruire legami e relazioni inclusive intorno ed a partire dalle fragilità. La ricaduta in termini di politiche sociali e di costruzione della rete dei servizi ha determinato la nascita e lo sviluppo di un approccio burocratico-prestazionale, rigido, complicato e quindi disumanizzante, finalizzato a mantenere il controllo dei legami sociali, a garantire e preservare l’equilibrio del sistema (di potere) esistente. Un approccio che con la cartina di tornasole della pandemia ha mostrato tutti i suoi limiti.

Pandemia, organizzazioni e comunità

Siamo operatori immersi in organizzazioni. Lo “stress-test” dato dalla pandemia ci dice alcune cose. In primo luogo che le nostre organizzazioni hanno elementi di separazione (forse anche di segregazione) dalle comunità e questi elementi le rendono particolarmente fragili; in secondo luogo che questa separazione determina complicatezze su vari piani (in primis amministrativo) che ora, in questo momento così difficile, mettono a rischio la sopravvivenza dei servizi.

Un elemento concreto a supporto della prima affermazione è la dipendenza pressoché totale dei servizi dalle rette versate dalla pubblica amministrazione e il loro sganciamento dal coinvolgimento diretto delle comunità in cui i servizi si trovano, anche e proprio relativamente al loro mantenimento. La fiscalità generale, per di più per come viene vissuta nel nostro paese, non è certo percepita come un modo che la collettività ha per prendersi cura dei servizi e delle persone con disabilità.

Essere separati dalle comunità ritengo sia anche desiderato e cercato dalle nostre organizzazioni, perché mantenere separate le fragilità dalle comunità è stato forse un mandato occulto a cui abbiamo adempiuto, in una logica securitaria, per non mettere in crisi le soggettività “normali” non disposte a fare i conti con la propria di fragilità. Ci è servito anche per legittimare il nostro lavoro e affermare il potere di competenze spese per curare, protesi verso una cura impossibile. Siamo stati complici del disinnesco del potenziale di cambiamento che portano con sé le fragilità, del loro potenziale evolutivo. Abbiamo contribuito a congelare la realtà.

Siccome la realtà in cui viviamo è inzuppata di disuguaglianza, significa forse che, come operatori, siamo stati anche noi complici del mantenimento e dell’accrescimento delle disuguaglianze che il nostro vivere comune ha generato?

La pandemia e lo sdrucciolevole problema dei diritti

Tra le altre cose, la pandemia può essere utile anche per riflettere sul sistema dei diritti e sul suo funzionamento. In particolare sulle connessioni tra i diritti e le comunità.

La formazione e l’esigibilità dei diritti è di per sé fonte di inclusione? Cosa rende i diritti inclusivi e cosa no?

L’emergenza sanitaria ha visto il levarsi di più voci tese a sottolineare di volta in volta quali sarebbero state le categorie e le fragilità non considerate o poco sostenute. Queste grida sono servite a tirare la giacchetta del decisore politico e di volta in volta a ridistribuire le risorse.

Questo spettacolo non mi ha fatto pensare esattamente al concetto di coesione sociale e mi sono domandato se, in particolare rispetto al mondo della disabilità, tutto il lavoro di questi anni in tema di formazione e rivendicazione dei diritti abbia effettivamente prodotto inclusione sociale. Credo che quanto accaduto ci restituisca delle comunità poco attente alla disabilità e credo che questo debba interrogarci circa gli esiti del lavoro fatto sui diritti prima della pandemia.

Se il quadro normativo e dei diritti si inserisce in un sistema di welfare centrato sulla prestazione e l’individualizzazione ritengo che il suo effetto sociale possa essere paradossalmente esclusivo, ovvero che i diritti riconosciuti ed esigibili possano produrre distanza e segregazione in chi ne beneficia.

Occorre subito dire che l’equazione diritti = soldi è ingannevole e tutt’altro che esaustiva. Per i diritti che si traducono in provvidenze economiche è tutta da verificare la loro efficacia in termini di inclusione sociale.

Sempre, quando si parla di inclusione sociale, si deve parlare di relazioni e di comunità. Se i diritti, la loro formazione ed esigibilità si traducono in automatismi (specie di carattere economico) difficilmente si otterrà una maggiore inclusione delle persone fragili che ne beneficiano. Anzi, è molto probabile si traducano nella percezione della creazione di isole di privilegio.

Alla formazione dei diritti e alla loro esigibilità occorre abbinare un lavoro di intermediazione, proprio dei servizi e degli operatori, finalizzato a restituire alle comunità il contenuto relazionale dei diritti. Questo significa che, se per una persona fragile esistono dei diritti specifici, attraverso il loro godimento è facilitata la sua partecipazione alla vita comunitaria: ne conseguono coesione sociale e benessere generalizzato. Tutto ciò non è automatico e non può essere effetto di alcun automatismo. Ha bisogno di essere incarnato e innestato nella vita comunitaria con il supporto del lavoro degli operatori sociali.

Dall’operatore della mediazione a quello dell’inter-mediazione

Data l’incontestabile esistenza della fragilità e della disabilità, possiamo pensare che possa essere utile sfruttarne l’esistenza quale strumento di coesione, di evoluzione delle comunità e di crescita complessiva. Mi pare molto interessante la prospettiva per la quale la cura per le nostre comunità è la ferita, ovvero, la cura è la fragilità (5).

Ho quindi la presunzione di dire che ci serve capire che il nostro lavoro non è essere mediatori tra la fragilità e la sua cura, la sua normalizzazione attraverso il metodo e la tecnica giusta, ma quello di intermediatori tra le persone con disabilità, le loro fragilità e il resto della comunità, nel senso che ci serve (lo dico sempre con presunzione) acquisire consapevolezza circa la necessità e la delicatezza di un lavoro che accompagni le comunità all’accettazione delle fragilità quali elementi evolutivi. E’ la fragilità ad essere la cura necessaria per le nostre comunità.

Mi pare che il virus ci dia questa indicazione rispetto al nostro lavoro di operatori. Ci dice che da mediatori dovremmo divenire intermediatori, nel senso che dovremmo passare dal lavoro su oggetti (cosa sono le persone con disabilità nel momento in cui divengono campo di applicazione del metodo e sono prigioniere ai nostri occhi delle diagnosi?) al lavoro tra soggettività (tutte quelle coinvolte, in particolare tra le soggettività delle persone con disabilità e quelle delle persone che non hanno a che fare direttamente con la disabilità).

Se la cura è la ferita, in questa logica si può dire che un insegnamento da trarre da questa dolorosa vicenda è che porsi come intermediatori tra fragilità e comunità significa anche creare disturbo, turbare equilibri, distogliere le comunità dalle certezze legate alle loro omogeneità, alle loro “normalità”. Significa accompagnarle ad un generativo e sostenibile incontro tra fragilità, tra ferite. Siamo chiamati ad inter-ferire.

 

Note

(1) M. Benasayage e C. Volpato nella trasmissione radiofonica di Radio Popolare Memos del 19.06.2020 – https://www.radiopopolare.it/trasmissione/memos/

(2) Si veda a questo link e anche qui.

(3) Secondo l’adagio thatcheriano “La società non esiste: esistono individui, uomini, donne e famiglie”

(4) Così, a titolo esemplificativo e come un esempio tra i tanti, si citano le affermazioni, tratte da ADN Kronos, dell’on. Giorgetti, allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, nel suo intervento al Meeting di Rimini dell’agosto 2019: “Nei prossimi 5 anni mancheranno 45 mila medici di base, ma chi va più dal medico di base, senza offesa per i professionisti qui presenti?”. “Nel mio piccolo paese vanno a farsi fare la ricetta medica, ma chi ha almeno 50 anni va su internet e cerca lo specialista. Il mondo in cui ci si fidava del medico è finito”.

(5) AA.VV., La malattia che cura il teatro, Dino Audino editore, Bolzano, 2020.

 

*Assistente Sociale, Unità Zonale Disabilità Ambito di Garbagnate Milanese

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