Il rischio del piacere. Le sostanze psicotrope dall’uso alla patologia

di Anna Paola Lacatena*

Tanto si è parlato in passato di tossicodipendenza, soprattutto in chiave moralistica, a fronte di una presunta attuale normalizzazione che ha impedito di approfondire e leggere l’evoluzione del fenomeno nel tempo.

Trasversalmente pochissimo si è parlato di piacere perdendo credibilità nei confronti dei consumatori e dei giovani, disperdendo risorse ed energie in programmi di formazione e prevenzione fuori dalle evidenze scientifiche e dalla realtà vera del consumo.

Ancora oggi l’approccio più diffuso alla sensibilizzazione e all’informazione circa l’uso di sostanze psicotrope si fonda sulla stigmatizzazione e sulla condanna.

Anche gli addetti ai lavori inciampano spesso sulla difficoltà di trattare l’argomento senza indulgere in valutazioni di merito e facili condanne.

L’antidoto e la conseguente tutela della credibilità dell’intervento dovrebbe prevedere invece una maggiore attenzione nei confronti del concetto di piacere.

Quest’ultimo, infatti, tanto che lo si consideri una perdita di sé, uno stato di benessere nirvanico, di ottundimento dagli affari del mondo, di espansione dello stato di coscienza e delle capacità percettive o che lo si legga in termini di alleggerimento dello stato di malessere interiore, toccasana di uno stato depressivo, anestetico dalle sofferenze, possibilità di sperimentare senso di adeguatezza alle situazioni esterne, è in ogni caso desiderabile, fascinoso, seduttivo, apparentemente risolutivo.

Il DSM-5 (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, ultima edizione pubblicata negli USA 2013 e in Italia 2014) non separa l’abuso e la dipendenza da sostanze ma li fonde nel DUS,  Disturbo da Uso di Sostanze, misurato su un continuum da lieve a grave, i cui criteri per la diagnosi, quasi identici ai precedenti criteri, sono stati uniti in un unico elenco di 11 sintomi e dunque, al di là delle indubbie implicazioni negative (sociali, lavorative, sanitarie, ecc.), il piacere, sia pur declinato in maniera differente, rimane una costante tanto che si faccia riferimento al consumatore che al dipendente patologico.

Nel testo, la dipendenza patologica e l’uso di sostanze vengono declinate dal funzionamento del sistema della ricompensa/gratificazione alle parole dei consumatori perché non è detto che l’accezione attribuita all’esperienza del piacere sia condivisa in modo unanime.

Chi è il dipendente patologico? Chi è per se stesso, per gli operatori, per il mondo dell’informazione? Sembra ancora senza soluzione, evidentemente anche per la mancanza di un’informazione reale e scientifica, l’annosa diatriba tra “malato” e “vizioso”.

Nei capitoli centrali, nel tentativo di trovare delle risposte, vengono analizzati gli effetti, le proprietà, i rischi, le esperienze dirette in merito alle sostanze più conosciute e diffuse confrontando il sapere scientifico con la realtà di chi vive in prima persona l’esperienza del consumo.

Dalle parole di questi ultimi prende vigore l’idea che con il termine piacere si possa intendere una condizione di benessere ricercata per allontanarsi dal dolore. Se la risposta più comune, e forse più onesta, è “consumo perché mi piace”, la sostanza o il comportamento a rischio mi serve, con il sopraggiungere della problematicità prima e della dipendenza poi, per un piacere diverso, ossia per non sentire il dolore e  il malessere che alla ricerca di quel piacere hanno condotto. Per non sentire il dolore che l’impossibilità di raggiungere la medesima gratificazione iniziale finisce per determinare. Per reggere una vita senza piacere, anedonica,  perdendosi in un piacere senza vita.

Quanto consumare sostanze e soprattutto quanto la dipendenza patologica possa far riferimento alla scelta personale, alla motivazione al cambiamento e quanto, invece, deve fare i conti con l’idea della malattia e conseguentemente della presa in carico e della cura sono questioni che chi opera nel settore si pone da tempo. A tal proposito sono riportate all’interno del manoscritto una serie di riflessioni.

Diverso è il “like” dell’utilizzatore dei social da quel “mi piace” dell’utilizzatore di droghe. Differenze fanno segnare nel tempo i consumatori, le sostanze, gli effetti ricercati, i piaceri goduti così come i dolori sottesi alla tossicodipendenza e alla società attuale. Il piacere resta trasversalmente una costante sebbene finisce per perdere tutta la sua iniziale fascinazione.

Le conclusioni ribadiscono la necessità di interventi mirati, di una prevenzione che guarda alla persona e alla necessità dell’ascolto dentro e fuori dai Servizi, che tenga conto del contesto e di aspetti socio-culturali troppo trascurati a favore di un riduzionismo scientifico che ci ha detto molto su come funziona il meccanismo delle droghe ma meno sul perché se ne fa ricorso.

In estrema sintesi il libro intende promuovere una riflessione complessa su di un fenomeno complesso la cui eziopatogenesi è multifattoriale (medicina, biologia, psicologia, sociologia), sebbene ancora oggi si tende a guardarlo in chiave strettamente clinica.

Se i risultati sul piano dell’efficacia e dell’efficienza appaiono con evidenza piuttosto deludenti in termini di prevenzione e cura, forse, è il caso di leggere con più attenzione il fenomeno evitando semplificazioni e moralismi ma avvalendosi anche e soprattutto della complessità.

Il rischio del piacere. Le sostanze psicotrope dall’uso alla patologia, Carocci editore, Roma, 2018

*Dirigente Sociologa presso Dipartimento Dipendenze Patologiche ASL TA

Un pensiero su “Il rischio del piacere. Le sostanze psicotrope dall’uso alla patologia

  1. ondedeivittorio

    Un approccio necessario, che va concettualmente a colmare la forbice tra consumo e “trattamento” che caratterizza, nella sua generalità, l’approccio al problema dell’abuso di sostanze. Qualche passaggio mi ha richiamato al pensiero la lettura dei testi di Foucault dedicati alla storia della sessualità. Greci e Romani (e primi Cristiani) forse ne sapevano più di noi. Avevano cioè rappresentazioni e modalità discorsive che affrontavano il piacere in forme che permettevano di comprendere come la gradazione, la disciplina, la consapevolezza permettessero di “gestire” la propria relazione con il piacere. Intanto grazie.
    vittorio

    Rispondi

Rispondi a ondedeivittorio Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *