Green Week 2019 a Milano: giardini e orti conclusi si aprono

di Patrizia Taccani*

Milano Green Week è la manifestazione promossa dal Comune di Milano e organizzata insieme a tutti coloro, soggetti pubblici e privati, che collaborano alla cura e gestione del verde in città. Milano Green Week è una festa diffusa che coinvolge chiunque voglia contribuire a rendere la città più verde e sostenibile attraverso un ricco palinsesto di eventi, incontri, laboratori, passeggiate, convegni, mostre e spettacoli. Partecipare a Milano Green Week significa essere cittadini consapevoli dell’importanza delle tematiche ambientali per la vivibilità nella nostra città e del nostro pianeta.”(Milano Green Week).

Che cosa si poteva vedere, a che cosa partecipare, come coinvolgersi? Innumerevoli le iniziative. Dall’inaugurazione di nuovi parchi all’allestimento di aree attrezzate in quelli storici; dal rinverdimento temporaneo ma davvero suggestivo di una pensilina a una fermata di tram alla presentazione di soluzioni milanesi ed estere in tema di verde sui tetti, sui muri, nei cortili; dalla visita agli orti didattici nelle scuole alla “riscoperta” del Monte Stella (nella mia famiglia, nel dopoguerra, la si chiamava la Montagnetta); dalla partecipazione a una piantumazione lungo il Lambro alla fruizione di nuove aree per il gioco, accessibili a tutti i bambini, quindi senza barriere di sorta; dal ritiro gratuito di compost per il proprio verde (giardino, balconi, aiole davanti a casa,) sino alla visita guidata ai nuovi spazi verdi all’interno della Casa Circondariale di San Vittore. E poi, in chiusura, consegna di nuovi orti, festa per un’associazione pescatori che tutela il Parco delle Cave, e numerosi altri momenti di ritrovo sparsi nei diversi quartieri cittadini per fare memoria di qualcuno che in quel luogo ha vissuto e lasciato tracce, o per rendere più sensibile in tema di tutela del bene comune chi vi abita.

Insomma un programma molto denso e capace di attirare l’attenzione di tanti.

Ho scelto nel caldo pomeriggio del 28 settembre di conoscere il progetto verde che ha preso avvio con “Parole in circolo” all’interno del carcere di San Vittore. (Incolpevole ritardataria, per un soffio, non resto chiusa fuori dall’imponente portone di Piazza Filangieri 2: tre mezzi per arrivarvi.) Perché questa scelta tra le tante offerte della verdissima settimana milanese? Difficile spiegarlo se non con l’aver seguito la spinta del cuore.

All’appuntamento siamo poco oltre la decina di persone, come guide Ilaria Scauri responsabile del progetto e Carlo Marinoni, agronomo del Comune di Milano che ha seguito il processo di realizzazione come esperto; Roberto Quadraro, funzionario dell’istituto carcerario, ha illustrato alcuni aspetti storici e architettonici dell’edificio. Discreta ma assidua la presenza di due giovanissime guardie carcerarie, il regolamento lo impone.

Il viaggio inizia da una zona verde su cui si affacciano uffici da un lato e parte dell’edificio detentivo vero e proprio dall’ altro.

A una prima occhiata il luogo non colpisce certo per grande bellezza, cura, particolarità botanica o paesaggistica. Eppure, ascoltando le parole dei nostri accompagnatori sono in grado di cogliere, con emozione, le potenzialità di quel lembo di terra dove sono state messi a dimora arbusti, sempreverdi, fiori perenni. Il caldo estivo e il finire della stagione hanno lasciato il loro segno di disordine, eppure penso a quello che ci viene detto: “Qui con l’inverno tutto muore e scompare, e con la primavera tutto riprende vita.” Anche a chi, detenuto, ha lavorato a questo giardino ancora da completare, queste parole sono arrivate, magari senza essere pronunciate. Semi e segni di speranza.

Torniamo all’interno dell’edificio: corridoi, porte che si aprono e si chiudono alle nostre spalle, sino al giardino della Sezione Femminile, luogo che non ha nome, probabilmente parte di un antico chiostro di un altrettanto antico convento, di cui però nulla è restato scritto. Mi colpiscono i due alberi grandissimi, un fico e un nespolo che ombreggiano fittamente questo pezzetto di terra; mi colpisce l’intenso profumo di bosso e mi riporta alle estati toscane della mia lontanissima infanzia, in una fattoria dove il giardino era invece assolato e assordato dal frinire delle cicale.

Qui ancora qualche fiore di fine estate, ma poco altro. Il senso di solitudine, quasi di abbandono mi impressiona, e ancor più quando ci viene spiegato che tra primavera ed estate non sono stati pochi gli eventi dove il “dentro e il fuori” si sono incontrati: spettacolo teatrale, aperitivi, momenti conviviali con l’attiva partecipazione delle donne detenute. Ora, tutto questo sembrerebbe dimenticato. Forse, proprio come nel romanzo di Frances Hodgson Burnett, il giardino è un giardino segreto, e tale resterà sino a che qualcuno (l’istituzione? le detenute stesse? la città? o tutti insieme?) non lo prenderà così tanto a cuore da iniziare a trovare semi e pianticelle adatte a mettere radici, crescere, fiorire.

Altre entrate e uscite, scale, un lungo corridoio che ci porta a visitare la “rotonda centrale” da cui si dipartono i raggi. Luminosità e ampiezza, un certo via vai di persone mi fa pensare a un luogo di vita. Da qui faccio fatica (o non voglio proprio?) immaginare come sia oltre, come siano le celle la cui unica esperienza visiva sono per me le finestre intraviste dall’esterno, come ferite nei muri.

Siamo di nuovo all’aperto ma in un luogo particolare. Una sorta di ponte dalle mura molto alte: ci viene spiegato che si trattava di uno squallido corridoio scoperto, utile al passaggio dei detenuti giovani adulti verso il luogo in cui hanno attività di tempo libero, di sport. La struttura fisica è sempre quella ma di squallido oggi non c’è più nulla. L’occhio va alle alte pareti ridipinte con una tonalità tra il giallo chiaro e il crema, lo zoccolino corre tutto intorno risaltando nel suo bel verde scuro. In alto, rivolta al passante, troneggia una scritta ORTO, messa in verticale: ogni lettera è formata da un ortaggio colorato e la T spicca con il suo rosso a puntini bianchi: un’amanita muscaria! Il tutto esito del lavoro di gruppo dei giovani detenuti partiti da idee, idee messe poi sulla carta, e infine realizzate con le proprie mani. Peccato davvero il divieto di fare fotografie dei risultati.

E poi, addossate alle pareti, il segno tangibile della partecipazione a Green Week. Grossi pallet di legno rigorosamente dipinti di verde e appoggiati al muro in verticale. “Questo a dimostrazione che per far funzionare le cose bisogna saper anche cambiare verso e direzione”, è pressappoco il commento fatto in sordina dall’agronomo Marinoni. Un messaggio per tutti.

Sui diversi piani, quasi si fossero arrampicati per conto loro, in ordine e armonia, sono a dimora tutte le piante aromatiche dei nostri climi, e piccoli ciuffi di insalate varie, un bel pennacchio di prezzemolo e, se non ricordo male, un giovane sedano. O alloggiano direttamente nelle cavità del pallet riempito di terra, o sbucano da fagotti e fagottini di tessutonontessuto riempiti di buona terra. Io sono ammirata e continuo a passare lo sguardo da un piano all’altro, godendomi la vista questi minuscoli orti in verticale, qui mi sembra di sentir vivere allo stesso modo passione, voglia di bellezza e capacità di prendersi cura. (Penso al Giardino dei Semplici di Chiaravalle: là la reclusione è volontaria, qui no.).

Incontriamo loro, il gruppo di giovani detenuti, scrutano le nostre facce, forse perché siamo nuovi, forse anche perché dalle espressioni vogliono capire che cosa ci sembri quello che hanno realizzato. Si sono posti a lato del gruppo visitatori, due da una parte, cinque dall’altra. Sembra che qualcuno non sia sceso. Le nostre guide ci introducono alle fasi del progetto, poi danno la parola ai giovani. Uno di loro sembra il designato a spiegare. Le parole sono semplici: parla del tempo di reclusione, della voglia di fare, del crescente sentirsi parte di un progetto, anche della fatica richiesta, soprattutto dalla ripulitura di quei muri altissimi. Sembra un ragazzino l’artista della scritta ORTO: è lui a farci notare che ogni lettera è un ortaggio. Un battimano, se lo merita, se lo meritano tutti. Chiedo la parola. Mi rivolgo ai ragazzi per sapere se avevano già esperienza di lavoro della terra, di cura delle piante. A sinistra c’è un sovrapporsi di risposte positive, uno di loro indicando le cascatelle di aromatiche e verdure dice che quelle cose lì le ha fatte sin da piccolo, con la nonna. Non è italiano, forse nella sua lingua la nonna l’avrebbe chiamata abuela. I due ragazzi di destra scuotono la testa: mai fatto, ma hanno imparato. Circolano emozioni nel silenzio che ci accompagna verso l’ultimo giardino recluso. A me ha colpito la forza dell’immaginazione che l’orto rivela, perché di questo soprattutto c’è bisogno quando in un non luogo si portano alla luce vita e bellezza.

L’ultima tappa ci porta al Giardino Condiviso realizzato dai detenuti del Centro Clinico a partire dal 2017. “Vedrete persone più avanti negli anni, anche se io li chiamo ragazzi”. Non possiamo sapere nulla delle loro storie e a me questo un po’ manca (per deformazione professionale) e un po’mi aiuta a guardarli lì, solo come i veri ciceroni della visita a questo luogo. Più grande del giardino segreto, ma neppure tanto, eppure ospita una quarantina di piante perenni che formano macchie dove il colore verde in tutte le sue sfumature si accosta al bianco, al crema, all’ocra già autunnale. Svetta qualche anemone giapponese dal delicato colore rosa. “Deve venire in maggio e giugno” sono le parole di un signore in età che mi ha portato sino ai cespugli di ortensie, sul fondo, dove iniziamo a discutere delle potature giuste e di quelle sbagliate. Una fontana di pietra (o forse cemento, anche qui una foto sarebbe stata utile) con una sorta di pilastro centrale da cui fuoriescono rivoletti d’acqua: pesci rossi e tartarughe navigano placidamente. Anche della fontana e dei suoi abitanti occorre prendersi cura e ci viene spiegato che va cambiata l’acqua con regolarità e gli animali nutriti. Non ho contato i detenuti presenti. La cosa interessante è stata che poco dopo eravamo tutti mescolati, un po’ seduti sulle panche di pietra, visitatori e residenti, vicini, a scambiarsi informazioni botaniche, a fare domande e dare risposte. Prima del congedo una convocazione sul praticello “che non ha bisogno di essere tagliato”, folto di foglioline della Dichondra Repens (almeno io credo fosse questa specie) e qui abbiamo riascoltato particolari botanici; abbiamo rivisto con sguardo circolare questo luogo dove, a seconda della stagione, si possono cogliere frutti, odorare erbe, far passare lo sguardo dal punto più assolato a quello più ombroso, ma anche a piedi nudi sentire la cedevolezza del prato.

Chi ci congeda ci invita a ritornare il prossimo anno a gustare i primi grappoli d’uva della vite che, sapientemente curata, formerà anche una tettoia freschissima, come nei berceaux di ottocentesca memoria.

*Psicologa, formatrice, redattrice di Prospettive Sociali e Sanitarie

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