Curare in Riva al Brembo

Riflessioni di un neurologo tra certezze e incertezze della medicina e della neurologia, tra cura della malattia e qualità della vita

di Giampietro Salvi*

Il giardino e le rive del Brembo sono il luogo che io rivisito spesso: lo stormire delle fronde, la brezza, e il gorgoglio delle acque hanno il potere di riconnettermi, con piacevoli sensazioni di benessere, con le certezze di base che, insieme alla formazione degli anni di studio ed esperienza clinica, fondano il mio mestiere. Il Brembo ha un potere rasserenante nei momenti di dubbio e incertezza, come il pedalare in solitaria ascoltando il ticchettio delle ruote e il salto della catena al cambio lungo i 40 km di ciclabile che lo costeggiano…

Leggere Coen “L’arte della probabilità, certezze e incertezze in Medicina” Raffaello Cortina Editore), in riva al Brembo ha avuto risonanze particolari (vedi anche gli articoli pubblicati in questa stesso spazio di Augusta Foni e Rita Montoli).

Ad esempio, appassionanti sono le storie dei pionieri della ricerca “sul campo” in medicina, come quella di Pierre Charles Alexandre che nei primi anni dell’800 ha demolito 2000 anni di pratica dei salassi (1): come lui altri hanno messo in discussione pratiche di routine, la potenza di consolidate istituzioni, la relazione con i “Padri Formatori” sopportando conflitti e ostracismi ma sempre salvando la propria capacità di osservare, pensare, dare un significato a quello che rilevavano, costruendo così con scarse risorse un metodo basato sulla raccolta di dati oggettivi e di confronti tra gruppi di pazienti.

Bisogna essere molto forti per affrontare queste trasgressioni e molto determinati nel difendere la propria capacità di pensare e di costruirsi una area di certezze, verificate dalla propria esperienza, dal proprio metodo sperimentale.

Illuminante la frase “quando tutti pensano allo stesso modo, nessuno sta pensando” (citazione di B. Franklin in Coen, pag.19)

E cosi il potenziale terapeutico delle istituzioni scende a zero, ma nessuno si accorge; tutti credono di stare facendo qualche cosa, burnout individuale ma anche istituzionale… la burocrazia aumenta, tutto sembra sotto controllo ma i pazienti entrano ed escono con pochi miglioramenti.

Incredibile anche la storia del dott. Lown nel famoso ospedale di Boston, il Bent Brigham: nei primi anni 50 si accorge che tenere a letto per trenta giorni i malati colpiti da infarto per fare riposare il cuore contribuiva pesantemente all’aumento di embolie, depressioni, uso di sedativi e morti. Il giovanile entusiasmo di Lown lo sostiene nel cambiare la procedura (meno letto, più attività fisica), insieme alla convinzione che poi questa nuova procedura sarebbe stata accettata dai più e in questo modo sono state salvate centinaia di vite, secondo i dati pubblicati nel 1952 al congresso dell’American Medical Association (2).

Leggere Coen mi ha riportato alla mia infanzia vissuta in ambienti naturali, in campagna, dove il grande libro della natura permette al bambino la libertà di giocare, di esplorare e sperimentare con adulti che danno sicurezze ma non inibiscono la naturale curiosità infantile; e poi prendersi cura degli animali e aiutarsi reciprocamente: la mancanza di mezzi che caratterizza questi contesti fa si che “non si lascia a piedi nessuno” come dicevano i nostri vecchi. Questa è stata una grande fortuna: vivere in un contesto di montagna, dove la vita è spesso determinata dagli eventi della natura e per questo i valori della solidarietà sono molto saldi.

L’esperienza della solidarietà è continuata in adolescenza nel Collegio di Celana: studio e molto sport e un po’ di aiuto per i compiti ai più piccoli. Esperienza di uno stile di vita sano, per la mente e per il corpo “mens sana in corpore sano” come si leggeva sui muri della palestra. E così fare il medico è stata una scelta precoce.

Queste sono le certezze di base o come si direbbe oggi le “embodied cognitions” (3) le cognizioni incarnate che sono le fondamenta su cui poi si è inserito lo studio alla facoltà di Medicina. Anni di studio, frequenza ai laboratori e alle cliniche dove la passione per la medicina veniva da letture quali la storia del dottor Schweitzer nell’ospedale di Lambaranè (4) oppure dalle meraviglie per l’introduzione negli anni 70 della Tac.

Dopo gli studi a Pavia, inizio la mia formazione a Innsbruck alla Clinica di Riabilitazione Neurologica, sede di un Centro riabilitativo riconosciuto a livello mondiale, dove mi è possibile dedicarmi alla cura dei traumi cranici, dei comatosi, e da qui la scelta di fare il neurologo con la speranza di conoscere e sempre più entrare nel mistero del funzionamento del cervello. Questo imprinting di base ha sempre sostenuto il mio desiderio di sperimentare nuovi trattamenti sinergici a quelli tradizionali (ad orientamento neuromotorio e cognitivo) integrando musicoterapia, arte terapia e teatro nella speranza che differenti stimoli potessero portare energie riparative al cervello. Era un momento in cui si cominciava a intravedere la possibilità di riparazioni neuro- plastiche delle zone danneggiate, tramite fattori neurotrofici di crescita stimolati dalle energie attivate dalla riabilitazione. Oggi ormai una certezza, dopo le evidenze prodotte dalle neuroscienze con approfonditi metodi di indagini basati soprattutto sulla risonanza magnetica nucleare, la genetica e la biochimica dei neurotrasmettitori.

Successivamente ho la possibilità di andare alla Quarenghi di San Pellegrino Terme, per occuparmi dell’organizzazione del reparto di riabilitazione per gravi cerebrolesi e portare a San Pellegrino le migliori pratiche riabilitative.

Intanto l’emozione di un luogo, l’ambiente, la villa di famiglia in stile liberty e decori simbolisti, trasformata da Merino Quarenghi, dopo esperienze a Zurigo. La clinica propone un orientamento naturale e antroposofico (5), sfruttando il potenziale terapeutico della sana alimentazione, dell’attività all’aria aperta nel giardino, dei bagni termali in modo che la mente e il corpo ritrovassero la loro armonia e nuove energie per i processi di guarigione. Oggi ci rendiamo conto di quanto fosse anticipatore nella comprensione della stretta interdipendenza della salute dallo stile di vita ma anche dalla qualità dell’ambiente naturale in cui si vive.

La cura

Quanto sostiene l’informazione scientifica nei lunghi e complessi percorsi di cura con malati gravi per i quali l’imprevedibilità sul decorso è un dato sempre presente? Assistiamo ad una grande variabilità nel recupero anche in situazioni in partenza gravi. Come anche in modi differenti assistiamo a risvegli dopo lesioni cerebrali di diversa origine: recupero di consapevolezza di vita vissuta, pensieri, emozioni e dimensioni spirituali. Questa rimane un’area di mistero.

La diagnostica oggi si avvale della possibilità di integrare apporti multidisciplinari, la clinica neurologica, la riabilitazione neuromotoria e cognitiva con i risultati di esami raffinatissimi Tac, RMN, e competenze neurofisiologiche e neuropsicologiche: conoscere meglio la sede cerebrale della lesione e la sua estensione orienta il timing, l’intensità e la direzione della stimolazione in modo delicato per non invadere con stimoli dolorosi e destrutturanti la precaria organizzazione di questi pazienti. Si fanno piccoli passi guidati dalla sensibilità e dalle osservazioni raccolte da tutti gli operatori che assistono nella quotidianità i pazienti. Ogni impercettibile movimento del corpo, del volto delle mani, ogni sussulto può essere colto come risposta ad uno stimolo percepito. La ricerca ci mostra oggi che i soggetti totalmente non responsivi agli stimoli sono una minoranza; nella maggior parte dei casi la presenza di coscienza è possibile. Così è stato dimostrato dalle tecniche di neuroimaging funzionale che queste persone provano la sensazione del dolore, e che togliendo il dolore dovuto alla spasticità, possono migliorare la condizione complessiva della persona. Come nel caso di un nostro ragazzo con gravissimo trauma cranico che ha ripresa coscienza dopo 5 anni di cure e assistenza.

Ci sono continue scelte etiche, come non forzare a vivere là dove le funzioni vitali di base non sono più autonome ma allo stesso tempo il dovere di raccogliere i minimi segnali che ci dicono che la coscienza non ha fretta di morire (6). Oggi esiste una maggiore consapevolezza che inguaribile non vuole dire incurabile quindi molto impegno ci attende per migliorare la cura in ogni suo dettaglio nei tempi della ospedalizzazione e dopo.

Di grande aiuto sono le certezze di base personali. Ogni giorno lo verifico nella cura di persone con gravi disturbi di coscienza, come nei pazienti in coma, in stato vegetativo o di minima coscienza per cui le conoscenze sono ancora scarse ma bisogna sempre avere la fiducia che il nostro lavoro non serva solo ad alleviare sofferenze ma forse possa aprire qualche canale di comunicazione anche se non vediamo risultati immediati. La cura in questo campo è un complesso percorso, irto di molte incertezze in cui l’arte della probabilità non è facilmente applicabile.

Un medico al Pronto Soccorso ha a che fare con pazienti nei momenti della urgenza ma spesso non può entrare in un percorso di cura perché il paziente è trasferito nei reparti: l’urgenza per la salute del malato, la pressione istituzionale per affollamento e adesso la grande ostilità del pubblico rendono “il pensare” molto difficile.

In queste situazioni il “gut feeling” (sensazione di pancia) e l’occhio clinico supportano le decisioni del medico. Questa modalità di presa veloce delle decisioni, oltre ad ancorarsi al nostro secondo cervello, l’intestino, come spiega Coen (7), si agganciano alla sicurezza di base che ciascuno di noi costruisce a livello senso- motorio, cognitivo, affettivo (embodied cognition) (8) a partire dalle esperienze infantili, quando queste hanno permesso un attaccamento sicuro.

L’occhio clinico è un veloce ripercorrere situazioni, pazienti ed esiti di cui si ha memoria ed esperienza: in quei momenti la statistica aiuta poco ma lavora in modo preconscio nel groviglio delle emozioni: è in gioco il rapporto con il paziente soprattutto se nel tempo della cura si è creato un legame e una profonda conoscenza di vicissitudini e affetti che toccano le radici profonde della identità del medico.

Cognitivo ed emotivo, memorie implicite non accessibili alla verbalizzazione, reazioni a livello neuroendocrino interagiscono per aiutare il medico ad uscire dalla situazione difficile. Si torna attraverso queste veloci reazioni là dove sono state scolpite nel corpo e nella mente, nella anatomia e nella biochimica del cervello, nella storia evolutiva di ciascuno le prime esperienze di accadimento che sono alla base dei comportamenti sociali di protezione e cura, di sintonizzazione sugli stati affettivi dell’altro, come ha dimostrato la ricerca neuro-scientifica degli ultimi decenni. In particolare la neurobiologia interpersonale sviluppata da Dan Siegel (9), dagli anni 90, integra campi separati di ricerca in una teoria e un modello operativo che descrive lo sviluppo umano e il funzionamento come un prodotto delle interazioni tra corpo, mente e relazioni in un continuo interscambio tra geni e ambiente: certezza questa di estrema utilità per un neurologo-riabilitatore anche perché basata su evidenze raccolte attraverso indagini basati su tecniche di neuroimaging che mettono in evidenza come pratiche di meditazione, di Mindfullness ed esperienze di attaccamenti affettivi influenzano in modo significativo la riorganizzazione di aree e circuiti cerebrali durante tutto il ciclo di vita. Questa certezza, che guidati dalla indispensabile empatia, si possano fondare scientificamente terapie personalizzate è una consolazione nei momenti difficili che si incontrano in ogni percorso di cura soprattutto con casistiche molto gravi che sembrano mettere in discussione i nostri sforzi.

E dopo la riabilitazione in ospedale?

La dimissione dal ricovero apre seri e gravi problemi per le famiglie. Innanzitutto la riorganizzazione della casa e l’accesso all’assistenza domiciliare che sappiamo essere poca cosa in confronto alle grandi necessità di assistenza medico-infermieristica e alla fatica per conquistare quanto è dovuto al malato e alla famiglia: eccessiva burocrazia, file interminabili, assistenti sanitarie e sociali oberate di lavoro, ecc. Il familiare che diventa caregiver è ormai il perno attorno a cui si organizza tutta la cura e l’assistenza domiciliare: la tendenza è di professionalizzarlo, di formarlo; non si valuta lo stress fisico e mentale che in molti casi compromettono la sua salute e la salute mentale di tutta la famiglia. La letteratura scientifica di matrice anglosassone parla di “compassion fatigue” (10) per gli operatori che si confrontano con malati gravi e devono fare uso della propria emotività nella cura, ma del caregiver chi se ne occupa?

In Italia la figura del caregiver familiare è riconosciuta ma non disciplinata a dovere. Ancora oggi infatti non esiste una normativa in grado di tutelare questa professione lavorativa, nonostante possa riguardare ognuno di noi nel corso della vita. (11).

Spesso si aprono anche problemi economici, se la persona traumatizzata era in attività lavorativa viene meno il reddito e questo apre una strada di impoverimento per la famiglia. Alcune regioni danno sussidi economici nei casi di pazienti in coma ma questi vengono tolti se cambia la diagnosi e il paziente recupera qualche barlume di consapevolezza. Spesso la diagnosi clinica non evidenzia i deficit nella loro complessità e i bisogni sociali, sanitari educativi che la cura e il reinserimento nella vita scuola o lavoro, comportano. Sarebbe da raccomandare l’utilizzo da parte degli operatori del settore, per valutare gli effettivi bisogni, l’uso del test ICF (International Functioning Classification) messo a punto dal World Health Organization nel 2007 (12) che offre una modalità per descrivere e organizzare informazioni sul funzionamento e la disabilità con un linguaggio condiviso e una base concettuale utile per definire e misurare la salute e la disabilità.

In un quadro regionale non omogeneo e con gravi carenze, visto l’aumento dei traumatizzati per incidenti stradali, incidenti vascolari o traumi da lavoro (questo dovuto alla grave mancanza di attenzione alla formazione e alla prevenzione nei luoghi di lavoro) supplisce talvolta a tutto questo il volontariato con modalità e competenze utili ma molto disomogenee; spesso interviene in situazioni in cui le istituzioni competenti abbandonano le famiglie.

Questa dolorosa consapevolezza ci ha spinto nel 1989 a fondare, insieme a pazienti, familiari ed operatori l’Associazione Genesis – Associazione per il recupero dell’Handicap da trauma cranico – per iniziare un lavoro di sensibilizzazione sul problema del trauma cranico, ma anche per dare un contributo morale e materiale alle famiglie di persone divenute disabili a seguito di trauma cranico, con una particolare attenzione ai giovani che statisticamente sono sempre più coinvolti in incidenti stradali. Come tutte le Associazioni abbiamo organizzato momenti ricreativi per i pazienti e le famiglie, consulenze mediche, burocratiche e legali ma anche offerto contributi economici. Prima del Covid ci siamo impegnati a realizzare incontri nelle scuole della zona, usando come testimonial ragazzi da noi riabilitati per trauma cranico per sensibilizzare ragazzi e genitori all’uso del casco anche se in Italia non è ancora obbligatorio per chi va in bicicletta.

È stata costituita nel 2005 La Rete delle Associazioni Riunite per il Trauma Cranico che si occupano del trauma cranico in tutta Italia. La domanda è: cosa deve fare lo Stato centrale e gli organismi periferici per chi è in stato vegetativo, quali e quante riabilitazioni sul territorio, quali standard di trattamento etc? Ormai non si può più lasciare tutto al caso e alla iniziativa locale perché i diritti di questi cittadini sono uguali in tutta Italia.

Nel 2009 a San Pellegrino è stata promossa la stesura insieme alla Associazioni dei Familiari riunite nella Rete, della Carta di San Pellegrino al fine di tutelare la dignità, la libertà e i diritti delle persone in stato vegetativo e minima coscienza, e in condizioni di grave disabilità acquisita, in sintonia con gli operatori sanitari in un percorso di alleanza terapeutica. La Carta è frequentemente aggiornata in seminari e convegni organizzati dalle Associazioni Scientifiche e dalle Famiglie. Questa Carta ha valore non solo per le affermazioni di principio ma soprattutto perché nasce dal confronto di tante esperienze di vita vissuta di familiari e operatori e sposta l’attenzione dalle diagnosi alle Persone.

Col passare degli anni è stata sempre più evidente la necessità di arrivare ai livelli della politica sanitaria e sociale, regionale e nazionale, i dibattiti non bastavano più i problemi aumentavano con l’aumento degli incidenti di strada, sul lavoro.

Queste sono le mie certezze; il mio radicamento sul territorio e i legami con le comunità della valle mi sostengono e mi aiutano nello sviluppare momenti di condivisione e partecipazione ai problemi della salute, e a volte mi sembra sempre di essere il medico condotto dei miei primi anni di pratica… A queste energie e al sapere medico faccio ricorso nell’impostare progetti di trattamento nei casi di patologie complesse, fiducioso di avere come alleato la riattivazione di processi neuro plastici che certo difficilmente si attivano quando si ha a che fare con “la medicina in bianco e nero, della routine, della tradizione non verificata basata sul perpetuarsi di false certezze della burocrazia” dove l’empatia non può esistere. In questo concordo pienamente con Daniele Coen: entrambi impegnati a trasmettere una medicina “romantica”, appassionata e appassionante, in quanto incarnazione di una prassi che non riduce la persona e la realtà a schemi astratti ma integra sindrome e persona nel suo contesto di vita.

 

Note

  1. Lebigre A.,”Salassare e purgare”, tr.it. in J. Le Goff, J. C . Sournia (a cura di), Per una storia delle malattie, Dedalo, Bari, 1986, pp. 335-342
  2. Lown, B. The lost art of healing: practicing compassion in Medicine, Ballantine Books, New York, 1999, (pag. 26).
  3. Caruana, F. Borghi, A. M. (2013). “Embodied cognition: una nuova psicologia”. Giornale Italiano di Psicologia, 1, 23-48. doi 10142/73973
  4. Cesbron, G, È mezzanotte dott. Schweitzer, Rizzoli, Milano, 1993.
  5. Bircher-Benner, M., Fruit Dishes and Raw Vegetables, 1926. Tradotto da Merino Quarenghi, Cibi di frutta e di verdure crude, Sperling e Kupher, Milano, 1940
  6. Salvi, G. P., “Che cosa è il coma” in Paoleschi, M et al., Genesis, dopo il lungo sonno. Editrice Aedimedica. Milano, 1997.
  7. Gigerenzer G., Decisioni intuitive. Quando si sceglie senza pensarci troppo, (trad it), Raffaello Cortina, Milano 2008.
  8. Shapiro, H., “Embodied Cognition”, in New Problems of Philosophy, Routledge, London, 2010.
  9. Siegel, D., La mente relazionale. Neurobiologia della esperienza interpersonale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1999.
  10. https.//www.medicina narrativa,eu; Napolitano,S,. Stress traumatico secondario, compassion fatigue nelle professioni sanitaria: cosa sono e come difendersi.
  11. Con la legge regionale 2/2014 «Norme per il riconoscimento e il sostegno del caregiver famigliare (persona che presta volontariamente cura ed assistenza)» la Regione Emilia-Romagna riconosce il Caregiver familiare e promuove una rete di sostegno con interventi in ambito sociale, sociosanitario e sanitario.
  12. I.C.F. Classificazione Internazionale del Funzionamento della Disabilità e della Salute. Erickson Editore 2007.

 

*Neurologo Riabilitatore, Istituto Clinico Quarenghi, San Pellegrino Terme

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