Cura educativa e partecipazione sociale… Un problema solo dei pazienti psichiatrici?

di Edoardo Re*

Nota della redazione: In occasione del convegno sul tema della salute mentale che si terrà a Milano il prossimo 2 aprile, abbiamo chiesto a uno dei redattori di PSS Edoardo Re, psichiatra, di scrivere un post per “Scambi”. L’autore ha accolto l’invito con molto entusiasmo e ne è uscito un post che vale la pena davvero leggere, anche se… supera le 1000 battute! Per cui Buona Lettura!

2 aprile

Mercoledi 2 aprile si terrà a Milano presso L’Università Bicocca una giornata di studio dal titolo “L’esperienza di cura educativa in salute mentale”. Mi viene in mente che in questi tempi di crisi, economica e valoriale, c’è proprio un gran bisogno di essere curati ed educati, e che questo non vale solo per chi soffre di un disturbo psichico. E’ diffusa una percezione di solitudine, mancano punti di appoggio, ci sentiamo “abbandonati dalle istituzioni”, alcuni di noi perdono le regole della “buona educazione” e del rispetto reciproco, per non parlare del rispetto della “cosa pubblica”.

Sono molti coloro che da una parte pretendono tutto dalla politica e dall’altra la screditano, molti tra questi nutrono aspettative messianiche nei confronti di uno che potrebbe risolvere tutto, altri manifestano preoccupanti segnali di derive tribali.

E noi si parla di partecipazione? Che ne è della libertà e della partecipazione di gaberiana memoria in cui tutti sono insieme liberi e responsabili?

Questo è uno dei temi che, preso dal punto di osservazione della salute mentale, verrà proposto alla giornata di studio del 2 aprile, e si tratta di un punto di osservazione interessante in quanto utile a leggere problemi che riguardano tutti, ma che per la psichiatria rappresentano un terreno operativo specifico. Su questo terreno è particolarmente necessario oggi porsi interrogativi che vanno al di là delle tecniche e cercare nuove risposte ai problemi di sempre.

Cosa significa curare, educare e promuovere la partecipazione in questo periodo storico? Se in tempi di crisi l’essere curati non è affatto scontato, figuriamoci se può essere pensato anche di chiedere ai nostri utenti di partecipare. A che cosa? Alla nostra crisi e al venir meno dei servizi? In tempi di crisi il desiderio di tutti è di avere “qualcuno” che si occupi di noi senza chiederci nulla (la cura) e deresponsabilizzandoci. Sia “lui” a dirci che cosa fare, “lui” dovrebbe saperlo, sia “lui” a indicarci la strada (l’educazione) perché da noi c’è da tirar fuori ben poco. Piuttosto che e-ducazione sogniamo una guida, la delega diviene una necessità per evitare la fatica dell’impegno, il dolore del fallimento e la nota paura della libertà. La partecipazione quindi si riduce a qualche sporadico voto telematico che ci fa illudere di essere parte di una collettività che pensa e decide… la canzone vincente. Questa condizione generalizzata si ripropone nell’ambito della salute mentale e il ragionamento inevitabilmente si muove in moto pendolare dal particolare psichiatrico al generale delle politiche sociali.

Partiamo dalla salute mentale. La psichiatria ci insegna quali sono gli assi su cui si muove il lavoro riabilitativo. Si tratta degli assi casa, lavoro e reti sociali, ma questi fattori, così cruciali per i malati di mente, rappresentano in realtà attualmente un problema per tutti, i cosiddetti malati come i cosiddetti sani. Le difficoltà che le giovani coppie o i singoli affrontano per sistemarsi in una loro abitazione autonoma, il problema disoccupazione, e non solo giovanile, il diffuso individualismo e isolamento sociale sono veramente problemi di tutti, solo che è più difficile affrontarli per chi già è più debole di suo. Da qui l’impegno che i servizi psichiatrici profondono per la riabilitazione e per l’inclusione sociale. In aggiunta a questo impegno, negli ultimi anni e coerentemente con il movimento della recovery, si cerca di realizzare una riabilitazione “soggettivata”, ovvero di fare esprimere alla persona le sue propensioni e aspettative per poi aiutarlo a “realizzarsi” nel proprio ruolo sociale e inserirsi così nella collettività degli umani. Ci si aspetta che il cittadino, questa volta il cittadino-malato, sia insieme consapevole, autonomo e partecipe. Tutto il contrario di quel che si diceva prima, ovvero del bisogno in tempi di crisi di affidarsi a qualcuno che si prenda carico di noi (almeno fin tanto che la crisi non è così drammatica da mettere a repentaglio i corpi perché allora, come ci insegnano gli epidemiologici, i malati, impegnati a fronteggiare guerre e carestie, guariscono per un atavico istinto di sopravvivenza).

Soggettivare risulta dunque attualmente una impresa titanica, per i sani come per i malati, e ancor di più lo è stimolare la partecipazione. I risultati con i pazienti (così come con la gente comune!) sono spesso modesti a fronte delle risorse impiegate. Tra l’altro nelle situazioni di difficoltà gli omologhi si cercano per fare gruppo e difendersi insieme. Ugualmente accade con chi ha una sofferenza mentale che in difficoltà lo è sempre.

Da qui, e si parla soprattutto dei pazienti più gravi, la loro naturale tendenza affiliativa, che è il contrario della inclusione e della partecipazione. Lo ha recentemente ricordato Warner in un commento ad un articolo su psicosi all’esordio e social network apparsi entrambi sul numero di giugno di Epidemiology and Psychiatric Sciences. E’ per questo che il lavoro viene offerto, accettato e maggiormente mantenuto se è in ambito protetto, la casa è soprattutto una residenzialità psichiatrica e le reti son soprattutto reti tra pari (anche se a onor del vero l’avanzamento delle conoscenze e delle pratiche su questo terzo asse è ancora molto lento).     Se dunque la crisi non aiuta e in più vi sono problemi intrinseci alla patologia, forse uno dei problemi che bisognerebbe porsi è come evitare che questa insorga (non è impresa da poco, ma una attenzione agli esordi è ormai diffusa nel nostro paese) oppure cercare di evitarne le conseguenze in termini di scadimento delle abilità, oppure pensare a una adeguata facilitazione ambientale utile a consentire alla persona di restare “inclusa”.

E’ la nota metafora dello zoppo sulle scale al quale si può insegnare a non inciampare, ma gli si può anche abbassare il gradino, e sappiamo anche dalla OMS, e già dagli anni settanta (studio pilota sulla schizofrenia nel mondo), quanto la persona malata, in quel caso si trattava degli schizofrenici, stia meglio a Bombay che a Manhattan. Poiché presto finiremo tutti a vivere alla Bombay tanto vale farne una virtù e una scelta. Decrescita dunque, più o meno serena, e abbassamento dei gradini per tutti ci possono aiutare.                                             A beneficio dei malati e dei sani si possono utilizzare queste considerazioni “psi” per andare al di là dello specifico e fare un ragionamento più ampio verso prospettive più generali, in primis per i pazienti, ma alla fine a beneficio di tutti. Un orizzonte potrebbe consistere in una integrazione del pensiero psichiatrico con il pensiero politico e in una duplicità di movimento, dal basso verso l’alto e viceversa. Si potrebbe immaginare di non più andare solamente bottom-up, dal paziente al suo contesto, ma anche top-down, dalla comunità alla persona fragile.

E’ quello ad esempio che sta accadendo al quartiere Comasina di Milano dove a partire dai pazienti psichiatrici e da tutte le altre persone fragili si sta lavorando sui bisogni trasversali alle diverse tipologie di vulnerabilità per rivolgersi poi alla intera cittadinanza, sostenendola in un processo di trasformazione verso una comunità di scambi, in cui sono compresi anche i negozianti di prossimità in un nuovo ruolo di “negozianti solidali”.  E’ ora infatti che le comunità locali (sulla dimensione geodemografica si può poi discutere) si organizzino intorno a questo tema delle fragilità e della coesione, non solo per includere i più sfortunati, ma per salvare anche tutti gli altri.  Abitanti, imprese e commercianti possono essere ugualmente coinvolti, in quanto è una questione che riguarda tutti e ci si può muovere insieme. La fase consumistica e competitiva forse è finita e, almeno per i tanti che tra non molto saranno “fuori” e non potranno più mantenersi e curarsi, occorre pensare ad altri meccanismi, meno produttivi e meno intermediati. Si tratta di promuovere a livello locale una inclusione e un benessere fondati non più sul servizio che include il singolo soggetto o sul servizio che cura, ma sulla reciprocità dello scambio diretto tra le persone, sane e malate. Il compito dell’ente pubblico e dei servizi potrebbe essere allora quello di stimolare tali forme responsabilizzanti e partecipative, non sottraendosi alla incombenza di provvedere ai più bisognosi, ma guardando a un futuro meno rigidamente condizionato dalla logica tasse-servizi. Apparentemente può sembrare uno scenario inquietante, sembra quasi una anticipazione del sistema tribale che si paventava prima, ma in realtà è forse proprio da questo che occorre passare, chiamiamola una tribalità locale autoorganizzata. Questa ipotesi un po’ si costruisce spontaneamente causa la crisi economica, un po’ potrebbe essere sostenuta da nuove politiche sociali, e da qui si potrebbero aprire scenari nuovi. E’ chiaro però che non bisogna aspettare troppo, perché se la necessità diventa estrema la tribalità diviene totalmente ingovernabile a scapito dei più deboli.

Torniamo però un passettino indietro e poniamoci la questione del perché si è persa la capacità di comunicazione e scambio tra le persone e dobbiamo ricuperarla in questo o in altro modo, ma che comunque è sempre promozione dell’inclusione e della coesione sociale.  Una ipotesi è che ci siamo ritrovati in un micidiale e contraddittorio intreccio di capitalismo avanzato e di stato sociale rigidamente radicato nelle coscienze e nelle aspettative. Il capitalismo è poi divenuto proprio “avanzato” nel senso di essere diventato un avanzo, un di più pericoloso, perché ha generato esigenze materiali troppo elevate e una competizione esagerata. Il risultato è che i più deboli vengono centrifugati ed espulsi e anche chi debole non è mai stato lo diventa per lo stress di reggere la pressione performativa a cui è costantemente sottoposto (quanti lavori abbiamo fatto su metropoli e disagio psichico, e quanti convegni!). Dall’altro lato, non quello capitalistico-liberistico, ma istituzionale-statuale, siamo andati troppo avanti nella creazione di servizi (e nella oblazione ai richiedenti), ma ora non riusciamo più a sostenerli, avendo intanto dis-educato la gente a organizzarsi per proprio conto.  Non ci si parla più nei condomini se non nelle assemblee condominiali o attraverso il custode,  quando si guasta l’ascensore si lascian dentro gli occupanti in attesa dei pompieri senza dar loro nemmeno il conforto di una parola; se cade un alberello in giardino o un poveraccio sta male in strada si chiama e si attende  “chi di competenza” per non parlare di un’auto in panne che non si può più far trainare dall’amico perché è vietato o di far giocare i bambini in cortile perché è pericoloso; mettiamoci pure le varie normative di sicurezza sul lavoro o di igiene alimentare che han tagliato migliaia di laboratori artigianali. [Recentemente a Torino ho visitato un grande, e ottimo, ristorante gestito da una cooperativa sociale di tipo B, situato al piano superiore di un edificio sede di una scuola alberghiera e sede di tirocini per la stessa. Ebbene i piatti che gli studenti preparano quotidianamente al piano di sotto sono regolarmente gettati nella spazzatura perché, causa norme igieniche di entrambe le strutture, non possono essere utilizzati dal ristorante del piano di sopra].

Tornando alla comunicazione e coesione sociale un altro elemento che gioca contro è lo sviluppo tecnologico. La tecnologia non sempre gioca a favore della comunicazione e dello scambio tra umani, pensiamo ai mezzi pubblici dove siam tutti con lo sguardo, basso, verso lo schermino del nostro telefonino oppure al fatto che in pieno e affollato centro cittadino cerchiamo le strade con il GPS come fossimo nel deserto. Di tutto può succederci intorno e le migliori disponibilità ad aiutarci possono esserci vicine, ma noi stiamo a contatto solo con la nostra rassicurante virtualità. In sintesi economia, stato sociale e tecnologia ostacolano l’incontro tra umani, ma se l’economia è in crisi e lo stato sociale pure c’è qualche speranza. Come affermava Mitscherlich negli anni sessanta il vicino di casa diviene visibile solo quando lo si percepisce utile e questo può essere il momento.

Come dunque perseguire responsabilizzazione e partecipazione? E’ un problema su cui da tempo si interroga la psichiatria sempre tesa a inserire i suoi malati e farli interagire con i sani, ma è anche forse giunto il momento che ad interrogarsi siano anche gli amministratori della cosa pubblica, anche semplicemente guardandosi intorno per osservare ciò che sta accadendo un po’ ovunque. Tra la cosiddetta gente comune, in buona salute e non militante a sinistra, già si colgono da tempo segnali interessanti di autoorganizzazione che nascono per fronteggiare la crisi e che poi si sviluppano con benefici effetti anche sulla coesione sociale e sul benessere personale e collettivo. Questo movimento sembra dettato da semplici necessità economiche, ed è potentissimo. Stimolata da bisogni concreti e ristrettezze economiche la gente si organizza informalmente: le mamme acquistano o scambiano vestiti infantili usati, fioriscono i mercatini in cui si comprano pentole, scarpe e vestiti di seconda mano (ormai una decina a Milano ogni fine settimana), la verdura la si coltiva nel cortile di casa o dell’azienda, i libri si condividono al bar o alla biblioteca condominiale,  i bambini si affidano alla vicina, come si faceva un tempo (anche se ora la si chiama tagesmutter e le si da qualche soldino). Mercatini dell’usato, orti condominiali e aziendali, giardini condivisi, book crossing, pedibus e tagesmutter e tante altre belle iniziative stanno fiorendo in un bel mix di risposte ad esigenze materiali e immateriali, che non son più patrimonio solo dell’elite intellettuale e di sinistra delle banche del tempo e dei gruppi d’acquisto. Questa potrebbe essere una strada, che si sta tra l’altro sviluppando in modo spontaneo, sulla base di bisogni materiali reali. E’ un movimento spontaneo che può essere sostenuto, qualificato, normato e protetto da politiche sociali più accorte e coraggiose. Accorte nel considerare l’inevitabilità del venire meno di certe garanzie assistenziali e coraggiose nel consentire forme di autoorganizzazione dei cittadini, tra l’altro ben note in altri paesi, pensiamo all’organizzazione comunitarie di molti edifici in svizzera, alla esistenza in tanti paesini tedeschi di una Festhaus comunitaria o all’abitudine anglosassone di metter fuori di casa, a disposizione di chi se li prende, mobili, elettrodomestici e suppellettili vari. Si tratta di superare l’individualismo dell’italiano medio e la sua sindrome del pezzente che vuol mostrarsi ricco, e iniziare a pensare che siamo tutti pezzenti, ma insieme si può anche essere felici. E’ quella che Bonomi chiama una economia sommersa in cui si muovono beni leciti in modo (finora) illecito. In questa strada potrebbero ritrovarsi persone svantaggiate e non, autoctoni e migranti, giovani e anziani, i più “sani” per sopravvivere, i più “malati” per non finire completamente marginalizzati. Shared economy e comunità di scambio sono tra l’altro termini che si stanno facendo strada tra gli economisti e tra i sociologi, vedi solo i frequenti contributi su questo tema che compaiono sul Sole 24ore, o il recente volume di Marta Manieri dal titolo “Collaboriamo!”. E’ qui che si innesta una possibilità di partecipazione autentica e strutturale, non quella ideologica di tipo veterocomunista o quella new age delle intelligenze collettive digitalmente connesse.         Voglio riferirmi ad un partecipazione semplicemente basata sulle cose che interessano e portata avanti dai relativi portatori di interesse. A questo proposito le spinte localistiche ci devono far riflettere e da esse si possono trarre utili insegnamenti.

Se anche in salute mentale ci si riuscisse a muovere in questa doppia direzione bottom–up e top-down allora si innescherebbe un bel processo di partecipazione e di inclusione. Dal paziente, con le sue necessità e le possibili relative risposte per migliorarne abilità personali, qualità della vita e inclusione sociale, ma anche top-down dalla comunità, le sue strutture, abitative, lavorative, urbanistiche alle sue funzioni, al fine di facilitare lo scambio tra le persone. I luoghi e le pratiche di cura per i malati di mente diventerebbero luoghi e pratiche rivolte trasversalmente ai bisogni comuni di tutte le tipologie del disagio e rivolte anche a chi di un disagio psichico o sociale specifico non soffre. Si innescherebbe un processo circolare e virtuoso tra diversità e normalità, a beneficio di tutti, normali e diversi, realizzando così, e chiudo solennemente questo lunghissimo post, il sogno faucaultiano di restituire al corpo sociale la delega di gestione della diversità, delega ora conferita a dispositivi di cura e di controllo  sempre più raffinati, ma costantemente deludenti.

* Psichiatra – www.retisocialinaturali.it

2 pensieri su “Cura educativa e partecipazione sociale… Un problema solo dei pazienti psichiatrici?

  1. micaela

    Condivido pienamente la lettura di Edoardo Re che mi richiama alcuni punti di attenzione della Nussbaum e di Bauman nella direzione di una trasversalità contemporanea della vulnerabilità e del disagio che ci pone davanti alla sfida generativa, se assunta con consapevolezza e progettualità di una orizzontalità co-costruita di fattori protettivi di cui tutti, tutti noi, necessitiamo.

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