Aggiudicare bandi nel sociale: si può innovare anche da qui

di Paolo Pozzani*

downloadComplici il caldo e la sonnolenza un po’ stordita che ne deriva, consueti e reiterati discorsi fra colleghi riaffiorano in toni più lamentosi. Assume toni quasi dolenti il parlare delle esternalizzazioni di servizi alle cooperative sociali e dei cordoni sanitari di “territorialità” e “radicamento territoriale” che le amministrazioni comunali vorrebbero stendervi attorno. Soprattutto, e prima ancora di tutto, si ripropone il tormentone amletico sul rinnovo contrattuale (farlo, non farlo, possibile o indecente, a tutti i costi…). Cascami di articoli e di commi del rattoppato codice dei contratti, delle direttive europee, delle leggi regionali e di multiformi sentenze dei giudici amministrativi ci scivolano addosso mentre parliamo, noi funzionari amministrativi in forza al sociale, e condiscono i nostri discorsi di velleità e di rassegnazioni equamente ripartite. L’amministratore locale medio è renitente a mettere in gara un servizio che già va bene, reso da una coop che va altrettanto bene. E se proprio lo deve fare, che sia almeno a favore di “un soggetto del territorio”… e allora seguono, fitte come se piovesse, sollecitazioni a trovare la soluzione, la via di fuga, il dispositivo amministrativo che ci tenga salva la capra con tutti i cavoli. Cose dette e ridette, e se fossi anch’io assessore o sindaco probabilmente le direi una volta di più. Tornando ai nostri cenacoli di funzionari, ci enunciamo a memoria i passaggi legislativi e le formule sentenziali che danno la risposta giusta o almeno la probabilmente tale, che ci infondono sufficiente serenità e magari ci mettono perfino al riparo dalle contestazioni e dai temuti ricorsi. Almeno per un po’. Ma un retrogusto amaro resta nel fondo della bocca e dei nostri fascicoli, una nota greve di insoddisfazione. La domanda, la questione apodittica e tonante, viene da un collega: “Ma insomma, se siamo contenti e funziona bene [quella cooperativa, quell’appalto] perché devo rimettere tutto in discussione con una gara?”. Già, perché? Sulla dialettica dei massimi sistemi – come l’implicito contrasto fra il liberoscambismo marca U.E. e le mille e non sempre chiare “specificità” del sociale – glisso subito: troppo impari le mie forze e l’esiguità dello scritto. E d’altronde mi voglio giocare una scommessa solo poco meno ambiziosa: rovistare in leggerezza fra gli angoli reconditi del codice dei contratti, aprirmi a riflessioni poco inclini all’autocensura, e vedere se alla fine non ne risulti, se non una vera via d’uscita, almeno la direzione di marcia di un’esplorazione con appena sufficienti margini di successo.

Comincio col dire che sul principio di gara pubblica non si transige. Chiamiamola meglio: procedura di evidenza pubblica. Ed ancora: “territoriale” e “radicato territorialmente” non è ciò che (o chi) abita in un determinato territorio, magari in rapporto confidenziale con l’ente pubblico: territoriale e radicata è la conoscenza di un territorio, e la testimonianza che se ne dà all’interno di elaborati progettuali ben studiati per comporre l’offerta tecnica. Su tutto questo non ho innovazioni da proporre, non diffondo illusioni sulla facile praticabilità delle mitica opzione del “rinnovo” e con ciò è piantato bene in profondità più di un importante paletto. Ma dopo?

Secondo assioma: se parliamo di servizi sociali e lo facciamo nel pieno rispetto dei principi della 328, qualunque esternalizzazione non può e non deve più svolgersi secondo i riti e i percorsi dell’appalto tradizionale, nemmeno di quello che – inspirandosi al modello dell’appalto-concorso, ed è pur un bel passo avanti – aderisca giudiziosamente al modello dell’ “offerta economicamente più vantaggiosa”. Preciso: parlo dell’interpretazione corrente, e quasi assoluta, che di tale modello si fa. Qui sta la fonte dei tanti patemi d’animo delle stazioni appaltanti e di giusti timori: appalti sociali ancora troppo debitori verso lo schema classico nato altrove, acritiche fissazioni dei rispettivi pesi della qualità e del prezzo, automatismi più o meno spinti nella procedura di individuazione del soggetto aggiudicatario. C’è chi prova a stiracchiare al massimo l’equilibrio dei pesi privilegiando la componente della qualità rispetto a quella del prezzo, e penso davvero che faccia bene. Ma sappiamo anche che pochi punti conquistati sul fronte del minor prezzo possono conquistare la vittoria di un progetto qualitativamente mediocre a scapito di un altro decisamente migliore ma – anche per questo! – più costoso. Da qui il terzo passo del ragionamento.

Terzo assioma, dunque: mai più aggiudicazioni nel sociale determinate dal prezzo, poco o tanto che sia il suo peso. Solo qualità progettuale al 100%. Qui davvero entro nei territori dell’eversione e della provocazione. E proprio per questo mi ci devo sostare per abbozzare un minimo di difesa, che almeno invochi su di me la buona fede e un’ingenua bontà amministrativa. Per far questo devo arrischiare due movimenti. Chiamo in primo luogo a mio sostegno il codice dei contratti, e precisamente: la concessione di servizi (art. 30), il dialogo competitivo (art. 58) e il concorso di progettazione (artt. 99 e segg.). Pur nelle evidenti e reciproche difformità, i precitati istituti concorsuali rinviano a percorsi di outsorcing il cui primo e fondamentale elemento marcatore sta nella complessità della definizione a-priori ed unilaterale di tutte le caratteristiche del servizio in gara e nella conseguente e ineludibile necessità di chiamare i soggetti del Terzo settore a compartecipare – nel contesto di una gara – al disegno preciso del progetto di servizio. Tutte e tre le formule d’affidamento qui nominate consentono (con l’espediente dell’accordo procedimentale ex legge 241/90) o addirittura prevedono esplicitamente – successivamente all’individuazione del miglior progetto – un dialogo pre- e pro- contrattuale durante il quale si dettagliano ulteriormente e si approfondiscono le specificità che poi faranno la realtà del servizio, dagli aspetti tecnici e gestionali a quelli economici. Ben poco spazio, su queste strade, a congegni meccanici di aggiudicazione. Le basi fondamentali di una possibile innovazione nell’approccio amministrativo alle esternalizzazioni dei servizi sociali sono con ciò posate, ma resta cruciale l’esigenza di una risposta sulla vexata quaestio dei pesi determinanti della qualità e del prezzo.

Ho detto dell’abolizione del peso del prezzo e del privilegio totale ed esclusivo da attribuire alla qualità dell’offerta progettuale. Senza sforzo mi contesto da solo: come si può prescindere da uno dei due metodi fondamentali di approccio all’aggiudicazione, e quindi in questo caso dall’“offerta economicamente più vantaggiosa”? La domanda auto-polemica ci riporta ai primi passi di questo piccolo contributo, laddove il metodo in questione veniva da me provocatoriamente ripudiato con aprioristica supponenza. Infatti non si può. Perché non si deve. Meglio: non ce n’è bisogno. Non di prescindere dal metodo si tratta, infatti, bensì di rovesciare un approccio che solo un’incontrastata abitudine ci porta a considerare unico ed esclusivo. Sinora ci siamo infatti adagiati – credo tutti – a praticare il rapporto qualità/prezzo operandovi inconsapevolmente con la medesima mentalità che esige il metodo del massimo ribasso, quello che premia con il miglior punteggio le offerte economiche più convenienti per la stazione appaltante. A questo punto il mio pensiero corre a quanto udito in conversazione privata da un apprezzatissimo docente di economia sociale: “Al rialzo si devono fare le gare nei servizi sociali, non al ribasso!”. Leggi: al rialzo dell’offerta tecnico-qualitativa. E poi ancora, in tempi più vicini e con maggior dettaglio espositivo, penso ai bravi ragazzi del “Comitato per l’Innovazione del Terzo Settore”, di bocconiana formazione, che nel loro sito postano una sezione dedicata proprio a questo, proponendo che si conducano i percorsi di aggiudicazione “…attraverso bandi che individuino i bisogni cui è necessario rispondere e il budget a disposizione dell’amministrazione. L’assegnazione avverrebbe secondo criteri di merito, favorendo il soggetto capace di offrire il servizio qualitativamente migliore, a parità di costo per la p.a.. Questo meccanismo eviterebbe che a vincere certi appalti siano soggetti che, grazie ad economie di scala più vantaggiose, siano capaci di fare l’offerta economicamente più vantaggiosa ma qualitativamente più scarsa, salvaguardando contemporaneamente i vincoli di bilancio della spesa pubblica e la necessaria qualità dei servizi sociali offerti” [http://propostadiriformadelterzosettore.wordpress.com/]

Mi fermo qui. Devo ben dire che non invento niente di mio, e che assemblo materiali rubacchiati in giro, ma guardate un po’ il successo del compianto Steve Jobs…

*Funzionario responsabile dei servizi sociali e culturali presso il Comune di Cerea (Verona), lettore di Scambi

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