Reddito minimo: togliere ai ricchi per dare ai poveri?

di Emanuele Ranci Ortigosa*

In Italia la spesa per l’assistenza sociale, per le misure erogate dall’Inps (54 miliardi) e per le funzioni svolte da Regioni e Comuni (8,5 miliardi), non si distribuisce fra la popolazione in modo da ridurre in misura significativa le sperequazioni di reddito, come ci si potrebbe aspettare da tale politica sociale. Dividendo la popolazione fra la metà delle famiglie più povere e la metà di quelle più ricche, il 63% della spesa va alle prime ma ben il 37% alle seconde. Considerando che molte delle famiglie più povere non ricevono alcun trasferimento e sono in situazioni di grave fragilità e criticità, credo naturale interrogarsi sulla equità di tale sistema.

Vi sono misure destinate a sostenere chi  deve affrontare specifici bisogni assistenziali, la non autosufficienza ad esempio, che non hanno direttamente a che fare con la povertà economica. Ma alcune importanti erogazioni nazionali sono finalizzate proprio all’integrazione di redditi considerati insufficienti (pensione e assegno sociale, integrazioni al minimo, social card), e anche di queste il 37% va alla metà delle famiglie più benestanti, e il 19% al terzo delle famiglie più ricche.

Trattandosi di risorse pubbliche, prelevate ai cittadini dal fisco, non mi pare che tale sistema sia accettabile. Io penso che sia un diritto costituzionale per tutti poter disporre di risorse adeguate per una esistenza dignitosa. L’equità potrebbe essere conseguita universalizzando le misure a tutti i beneficiari  e finanziando questo con risorse aggiuntive. Ma è scontato che soprattutto nell’attuale situazione di crisi risorse aggiuntive non ve ne saranno, e sarà già duro salvaguardare le risorse attualmente disponibili per le politiche sociali. Così stando le cose io credo che il diritto costituzionale prima richiamato sia così fondamentale da dover prevalere sulle misure non equitative in atto e impegnare quindi a rivederle.

Parte almeno delle risorse oggi erogate a persone appartenenti a famiglie ricche dovrebbe essere tolto a queste per andare ad assicurare un reddito minimo per un’esistenza dignitosa a tutte le famiglie che ne sono prive, e che dovrebbero a loro volta essere impegnate a attivarsi per avere un lavoro e un reddito, ove sussistano le opportunità personali e di mercato per acquisirlo.

Non mi nascondo la delicatezza del problema e di una tale operazione redistributiva, che solleverebbe certo obiezioni e proteste, e per questo sarei interessato a sentire il parere di altri in merito.

Aggiungo un’ulteriore considerazione: una scelta del genere è anche necessaria per arrivare a cambiare veramente le tradizionali erogazioni nazionali che ho citato, poco eque e poco efficaci sull’insieme delle condizioni di povertà, facendo una riforma a carattere universalistico, che tratti cioè in modo analogo analoghi bisogni, superando quindi criteri particolaristici. Forse che si ha diritto a un minimo di reddito solo dopo che si sono compiuti 65 anni e non prima? O solo se si ha un tratto di vita lavorativa per la quale si è versato qualche contributo? Il livello essenziale che si dovrebbe arrivare a definire in merito al contrasto alla povertà dovrebbe a mio parere avere come criterio di riferimento solo il bisogno economico. Si può concordare su questo?

* Irs, Milano; Direttore del mensile Prospettive Sociali e Sanitarie

Un pensiero su “Reddito minimo: togliere ai ricchi per dare ai poveri?

  1. Paolo Pozzani

    Certo: le risorse specificamente dedicate alla lotta alla povertà devono andare laddove c’è il bisogno economico (e non solo questo). La domanda è: sono povere le famiglie o sono poveri i singoli individui? Le criticità rilevate nel post mettono la famiglia al centro della considerazione, mi pare, e questo legittima le conseguenti perplessità. Soprattutto ai tempi della Grande Crisi. E dunque sia: facciamo la redistribuzione dai ricchi ai poveri. Ma, superata questa (accadrà mai?) si ripresenterà il problema se mettere al centro l’individuo o la famiglia in cui è immerso (e dalla quale può anche essere “trattato male”). Tutte le volte che parliamo di emancipazione, lo facciamo in riferimento ai singoli, mi sembra, e/o a specifiche categorie di essi (tipico l’esempio dell’individuo “donna”, il cui diritto all’indipendenza economica è accolto quasi universalmente nella versione “individualistica”, cioè a prescindere dalla situazione reddituale del coniuge ecc. ). Forse ad essere particolarmente criticabile è l’automatismo della misura, e questo riguarda ovviamente soprattutto le erogazioni di tipo assicurativo-previdenziale (i vari assegni Inps, insomma) mentre quelle il cui rilascio è più intimamente legato a valutazioni “ad hoc” di tipo social-professionale (quelle dei Comuni, di fatto) incorrono assai meno in questo rischio. Ma questo secondo flusso erogativo è, appunto, assai inferiore al primo, fa fatica a correggerlo, e soffre peraltro di altri problemi (la frammentazione ed eterogeneità da un Comune all’altro, in primis, e allora addio equità anche qui, per altri versi). Resta il fatto che il molto (molto?) che si spende poco produce in termini di riduzione della povertà, e questo è inaccettabile, soprattutto oggi. E quindi dico di sì a Robin Hood, ma aiutatemi a capire meglio quale sarà l’assistenza economica degli anni futuri.

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