Archivi tag: comunicazione

Parole che diventano carichi

di Mattias Bassotto*

Questo breve intervento vuole promuovere una riflessione sul lessico usato da chi opera nel sociale, perché le parole usate dal professionista contribuiscono a restituirne l’immagine e a costruire la relazione con chi accede ai servizi.  

Nelle professioni sociali la dimensione relazionale-interpersonale è costante (Blandino, 2004) e uno degli strumenti che noi operatori abbiamo a disposizione per costruire la relazione con l’altro è il linguaggio verbale. Allegri, Palmieri e Zucca (2006) ritengono che porre attenzione al canale linguistico della persona (alle sue metafore, ai suoi modi di dire e alle parole usate) ci aiuta a esplorare la sua realtà soggettiva e a meglio comprendere il problema portato. Se questo è vero nella direzione professionista – utente, lo è anche in quella inversa. Con il presente scritto, intendo riflettere sulla centralità del lessico utilizzato dal lavoratore sociale, perché le parole usate e i modi di dire contribuiscono a dare l’immagine del professionista (e conseguentemente del servizio che rappresenta) e possono aiutare a diminuire il rapporto di subalternità percepito inevitabilmente da chi accede ai servizi.

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La comunicazione e le fake news in sanità

di Alessio Veronesi*

 

La comunicazione e il web

La comunicazione è la risorsa fondamentale della nostra società (Mondaferri V. 2009), e ovviamente le fake news rappresentano una risorsa comunicativa.

Nel momento in cui si parla di comunicazione, è fondamentale fare riferimento a due concetti ad essa correlati, ovvero quello di società e quello di cultura. In particolare per società, si intende un insieme di individui legati da relazioni strutturate sulla base di una cultura comune, mentre per cultura, si intende l’insieme dei modi di vita dei membri di una società o di gruppi di una società. Essa, ad esempio, include le abitudini alimentari, l’abbigliamento. Continua a leggere

“Mi cedi il posto per favore?”

di Patrizia Taccani*

 

“Da lunedì̀ scorso la nostra campagna comportamentale è entrata nel vivo con l’hashtag #cedilposto e diverse iniziative tra cui affissioni in metropolitana, spille disponibili presso gli Atm Point e online, annunci dai nostri altoparlanti. Uno sforzo che abbiamo messo in campo per invitare i passeggeri dei mezzi pubblici ad alzare lo sguardo e cedere il posto a chi ne ha più̀ bisogno.”

Sono tornata recentemente a guardare in internet i siti che si sono occupati di questa campagna di sensibilizzazione al suo inizio, nello scorso mese di giugno, e ne ho tratto la parte sopra virgolettata.

Ricordo che al momento della sua uscita con locandine abbondantemente collocate sui mezzi pubblici avevo provato una sorta di “orticaria psicologica”, un indefinibile fastidio unito a un certo senso di stupore per quella che da subito mi è parsa una buona dose di ingenuità da parte degli ideatori della campagna. Vista la mia tutt’altro che verde età e alla luce dei numerosi episodi in cui giovani – tra cui molti stranieri – in questi ultimi anni mi hanno ceduto il posto, avrei dovuto, invece, condividere l’idea di un aperto sollecito verso i più distratti nei confronti dell’età avanzata, della fragilità, del bisogno di un posto a sedere ad esempio per una donna incinta o con un bimbo piccolo in braccio. Eppure c’era qualcosa che non mi convinceva.

L’estate poi mi ha distratto con periodi di lontananza da Milano e il dopo-estate mi ha visto impegnata a pensare ad altro. Mi era sempre restato però, in un angolo della mente, il pensiero di fermarmi su questa questione di cosiddetta educativa comportamentale. Assidua utente dei mezzi pubblici, infatti, resto ogni volta inevitabilmente colpita dal perfetto allineamento delle teste dei passeggeri seduti, con gli occhi incatenati al piccolo/medio strumento di contatto con il mondo: il cellulare. Mi è capitato di fare giochi con me stessa, come contare in quanti eravamo in un vagone della metropolitana visivamente privi dell’aggeggio, e un pomeriggio dovetti trattenermi dal congratularmi ad alta voce con una giovane donna seduta parecchio più in là, palesemente immersa nei suoi pensieri, le mani libere posate in grembo. Eravamo in due – lei ed io tra decine di passeggeri – le uniche a non parlare al telefono, a non fissarlo, a non digitare freneticamente messaggi.

Le piccole locandine bianche e blu che iniziano con “…alza lo sguardo…” ora sono praticamente scomparse, e non credo ci sia modo di sapere quanto abbiano sollecitato i viaggiatori in Milano a modificare i loro comportamenti. Una lettrice di La Repubblica in quel periodo aveva scritto sfiduciatissima alla rubrica milanese Posta Celere dicendo che la sfida era doppia: quella di far alzare lo sguardo dal telefonino ai viaggiatori e quella di rammentare loro le normali regole di comportamento. Zita Dazzi, curatrice della rubrica, concludeva la sua risposta con molto più ottimismo, ipotizzando che tra i passeggeri uno su dieci avrebbe potuto restare colpito dall’invito e, quindi, ravvedersi.

Torno al mio senso di disagio di cui ho detto all’inizio. In parte lo attribuisco alla convinzione della estrema difficoltà nel poter “comunicare” efficacemente con una popolazione di tutte le età che in pochissimo tempo è riuscita a trasformare un luogo come un comune, vecchio mezzo di trasporto, “a succursale del proprio ufficio”, o anche a “stanza tutta per sé”, a seconda che il cellulare serva per anticipare o prolungare i tempi lavorativi, oppure venga usato per conversazioni personalissime, come questioni di cuore, di salute, di famiglia. Dei messaggi non so, ma posso immaginare che non si discostino troppo dalle due precedenti categorie. Resta aperta la questione dei giochi/passatempo, della lettura su tablet: anche qui l’immersione sembra totale e ciò che avviene intorno è solo elemento di disturbo. Persino la stazione MM usata ogni giorno – pur soavemente annunciata in duplice lingua – per alcuni sembra arrivare fastidiosamente troppo presto. Per fortuna la breve corsa verso l’uscita quasi sempre fa raggiungere e scavalcare la linea gialla sani e salvi.

Il nodo cruciale – ed è anche la ragione per cui ho deciso di scrivere questo post –  riguarda la questione della “spilletta” color blu cielo intenso con la scritta “Mi cedi il posto per favore?” Chi pensa di averne bisogno – specifica l’azienda di trasporti milanese – può richiederla agli ATM Point ma anche online sul sito e la riceverà gratuitamente a casa.

Sono d’accordo con un antico adagio che recita “Ciò che non si vede non esiste”. Parole più che mai attuali in tempi di ininterrotte esposizioni mediatiche. Mi sono immaginata indossare la decorative pin bianca e azzurra dopo una lunga ricerca del punto più visibile dove appuntarla (non troppo vicino alla sciarpa ondivaga, attenzione al risvolto del piumino, al centro fa molto bersaglio…) e successivamente, andare alla ricerca – difficilissima – del passeggero ritenuto a intuito il miglior interlocutore del messaggio non verbale di richiesta di aiuto.

“Mi cedi il posto per favore?”. La mia spilletta non ha voce, la sua richiesta è muta. Chi la deve ascoltare lo deve fare con gli occhi. E quindi, proseguendo con la fantasia, immagino il ragazzo che ho scelto come possibile ricevente del messaggio posare – in modo del tutto fortuito –  lo sguardo sul bottoncino bianco e blu e alzarsi di fretta, imbarazzato, e scusarsi. Con la spilletta.

Bravissimo. Ma non mi ha guardata, non mi ha vista. Io continuo a non esistere. Con i miei capelli bianchi, le rughe assolutamente non d’espressione ma da età avanzata, la spalla destra lievemente curva per il peso di una borsetta un po’ troppo carica. La prossima volta, quando cambierò giacca dimenticando – è cosa certa – la spilla su quella che indosso oggi, quel ragazzo mi cederà il posto?  Non so.

In ogni caso, lasciando l’onere della comunicazione alla spilletta mi sentirei ancora più fragile, più inabile: diventata incapace di usare le mie parole per fare una richiesta molto semplice.

Grazie ATM del pensiero. Ma ho deciso che continuerò con il vecchio metodo. Una cortese richiesta verbale (tra l’altro sono abituata a dare “del lei”, a meno che non mi trovi di fronte a un/a ragazzino/a), un caldo ringraziamento, il tutto seguito dalla gradevole sensazione di avere vissuto un fuggevole ma reale momento di rapporto umano.

p.s.  Sia chiaro, quello che ho scritto vale per me, non ho inteso scoraggiare i portatori di spilletta ATM, che tuttavia mi pare non siano numerosissimi: nel mio frequente uso di mezzi pubblici non ne ho mai incontrato uno. Eppure, salvo rari casi, non sto con gli occhi fissi sul cellulare.  Comunque in numero assoluto le spillette distribuite non sono poche: oltre tremila, dato fornitomi molto gentilmente dall’Ufficio Stampa dell’Azienda.

*Psicologa, formatrice, redattrice di Prospettive Sociali e Sanitarie

Informare, comunicare, documentare i servizi sociali territoriali. L’esperienza del Comune di Bologna


di Andrea Pancaldi*

E’ dal 2009, con l’apertura dei sei Sportelli sociali,  che il Comune di Bologna si è dotato di una redazione interna all’ambito dei servizi sociali (Area welfare) per gestire le attività di informazione ai cittadini e alla rete degli operatori sociali e dei soggetti con cui più attivamente collabora.  Nella redazione opera personale con formazione giornalistica, ma anche con esperienza di operatore sociale, sia nella PA che nel terzo settore.
Dal 2015 la redazione gestisce anche le attività informative dello Sportello lavoro, a testimonianza del tentativo, anche informativamente, di tenere insieme i principali fattori, perdita del lavoro  e della casa in primis, che determinano i processi di impoverimento nell’eta della crisi. Continua a leggere

PSS 2017: una rivista, un blog, una nuova newsletter, un nuovo e-book

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Ma le novità non si fermano qui

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