Quali Servizi per le persone con disabilità complesse?

di Roberto Cerabolini*

labirintoNel panorama delle disabilità, che talvolta viene presentato come l’ambito nel quale minori sono stati gli effetti negativi della riduzione della spesa sociale, non tutti gli individui possono facilmente trovare accoglienza nei Servizi specifici.

E’ il caso di chi presenta disabilità complesse, o doppia diagnosi.

Il termine indica una condizione di bisogno che interessa le componenti organiche, funzionali, cognitive e comportamentali di una persona; si utilizza generalmente per segnalare una pluripatologia che complica il quadro di base di un’affezione o di una condizione di disabilità e riduce le opportunità riabilitative e di integrazione sociale. Si stima che questo riguardi l’1% della popolazione italiana, circa un quarto delle persone con disabilità.[1]

Le caratteristiche di tale popolazione rendono difficile la relazione con i Servizi, col risultato di disporre di scarsi dati epidemiologici specifici per un fenomeno multidimensionale. Nell’ambito della disabilità intellettiva (ID), precedenti studi hanno evidenziato le aree di vulnerabilità di queste persone rispetto alla popolazione generale. Esse presentano elevati rischi di sviluppare una psicopatologia: le ricerche hanno riportato che circa il 40% della popolazione con ritardo mentale soffre di problemi clinicamente significativi. Anche nel campo dei minori i dati sono simili: il disturbo psichiatrico è 3-4 volte più frequente nei giovani con ID che nella popolazione generale.[2]

Il contatto di queste persone con i Servizi è mediato soprattutto da caregivers e da operatori di base che si prendono cura della persona, sia per le barriere di vario genere che incontrano nell’accesso ai Servizi sia per la scarsa consapevolezza del disagio da parte dell’individuo.

La stessa determinazione del disagio e la sua valutazione risentono della scarsa collaborazione della persona, come pure delle difficoltà comunicative che derivano dall’assetto organizzativo dei servizi, disfunzionale rispetto alle possibilità di queste persone. Stabilire una terapia e organizzare un programma di intervento richiede in quest’ambito tempi e modi che travalicano i consueti standard di funzionamento dei Servizi, e risentono del grado di collaborazione che si instaura tra gli operatori, la persona ed i suoi familiari. La frequente presenza di disturbi comportamentali può costituire importanti barriere e generare rifiuto e stigmatizzazione.

L’accesso ai Servizi avviene con maggiore frequenza per il sopraggiungere di bisogni urgenti o di emergenze non contenibili da parte dell’ambiente di vita; gli operatori si trovano nella maggior parte dei casi scarsamente preparati ad una relazione efficace con individui in queste condizioni. Facilitare l’accesso ai servizi per tutte le persone con disabilità complessa e i loro familiari è un obiettivo prioritario, che si va affermando in conseguenza del drammatico riscontro segnalato da vari studi, che hanno evidenziato le disuguaglianze esistenti a scapito di questa popolazione.

“Per accesso si intende una situazione in cui la condizione di bisogno genera e rende necessaria una domanda di aiuto. (…) L’esperienza di accesso non si esaurisce nel chiedere risposta, anzi questo rappresenta soltanto il momento di attivazione. Sul versante tecnico e professionale gestione dell’accesso significa, infatti, accoglienza e ascolto della domanda, prima valutazione, identificazione delle condizioni per una presa in carico appropriata, in collaborazione con la persona e la famiglia…”[1]

Le disuguaglianze nell’accesso sono di natura economica, culturale, di autonomia e posizione sociale. Le attenzioni peculiari e la facilitazione dei percorsi costituiscono quindi una necessità tecnica per fornire in condizioni di equità le risposte ai bisogni reali di questi individui. Ciò comporta la necessità di considerare il rapporto tra bisogni e risposte attraverso interventi integrati, non settoriali e non separati tra loro. Tale necessità è anche dovuta alle difficoltà di comunicazione che sovente rendono difficile agli operatori comprendere lo stato reale della persona e individuare strumenti e percorsi per far fronte ai suoi bisogni. Il ricorso ai caregivers, in molti casi indispensabile per facilitare la comunicazione, soprattutto in ambito clinico, si presta però al condizionamento che deriva dal filtro della loro prospettiva, potenzialmente poco obiettiva. Per questo il coinvolgimento diretto della persona deve essere sempre cercato, utilizzando strumenti appropriati di interazione e comunicazione.[3] Al tempo stesso i familiari possono portare un prezioso il contributo nel ricostruire la storia anamnestica e la contestualizzazione dei comportamenti e dei problemi dell’individuo.

Le difficoltà di comunicazione derivano tuttavia anche dalla scarsa capacità di molti operatori nel gestire la relazione con persone poco collaboranti, e dalla mancata padronanza di sistemi necessari per facilitare la comunicazione. Inoltre la frequente rotazione degli operatori, all’interno dei servizi, costituisce un’ulteriore complessità. Conseguenze di tali difficoltà sono il prolungamento e il complicarsi di stati di disagio non trattato, con una degenerazione della qualità di vita e una accentuazione delle difficoltà relazionali, che conducono a un frequente ricorso a ricoveri delle persone con disabilità complessa in ospedale o in strutture residenziali ad alti livelli di assistenza.

Il bisogno di Servizi specifici

In ambito sanitario, la necessità di organizzare in modo specifico, per le persone con disabilità complesse, le modalità di accesso alle strutture è stata affermata in modo chiaro e propositivo da un gruppo di lavoro costituito dai massimi esperti del settore.[4]

Anche in campo sociale si possono fare analoghe considerazioni. La risposta più tipica della rete dei servizi per la disabilità, quando riescono a intercettare le persone con disabilità complesse, è la collocazione in strutture semiresidenziali. In questi luoghi in cui degli “esperti” si occupano di loro, sono come parcheggiati in strade senza via di uscita, a volte con un’eccessiva approssimazione negli inquadramenti diagnostici e il ricorso ad una sovramedicazione con farmaci psicotropi. Ad esempio, nella popolazione ID la presenza di Disturbi Psicotici è del 1,5-2%, mentre la prescrizione di farmaci antipsicotici varia dal 20% al 40%.[5]

Servono strutture per queste persone con bisogni ‘speciali’ che non trovano accoglienza o soddisfacenti risposte né nei servizi standard per disabili né in quelli psichiatrici (o, in caso di minore età, in quelli socio-educativi). Particolarmente problematica è la condizione di chi vive solo, o che convive in famiglie multiproblematiche. In molti di questi casi l’intervento domiciliare, per quanto idealmente indicato, non è sufficiente per offrire un’adeguata qualità di vita, o non è praticabile per via delle interferenze dell’ambiente familiare.

Non è nemmeno facilmente utilizzabile il sistema della residenzialità: da un lato per la difficoltà ad accogliere una persona senza un preciso ed esclusivo riferimento ad una categoria definitoria (disabile/psichiatrico), dall’altro per il frequente rifiuto della vita comunitaria da parte dell’individuo stesso. Per superare tale remora è necessario un cammino condiviso con un operatore che acquisisca la fiducia della persona e l’accompagni in un percorso di autoconsapevolezza, da cui possa scaturire una scelta motivata per la residenzialità.

E’ quindi opportuno un intervento diurno per queste persone, che si collochi in un ambito intermedio tra domiciliarità, servizi diurni strutturati e strutture residenziali. Richiede una forte personalizzazione degli interventi, una modulazione flessibile delle attività e delle tempistiche, la disponibilità di gruppi accessibili con i quali entrare in contatto, la facilitazione e la “cura” dei rapporti interpersonali per la costruzione di una rete amicale e di prossimità (per l’uscita dalla condizione di solitudine e l’avvio dell’integrazione), la scoperta o riappropriazione delle abilità per un programma formativo, ove vi siano le condizioni. E’ parallelamente indispensabile un costante rapporto con la famiglia e l’ambiente di vita, che sovente esprimono proprie esigenze di supporto.

Sul versante degli operatori risultano indispensabili una specifica formazione e una costante supervisione, per rimuovere gli ostacoli legati alle difficoltà di comunicazione nonché alla presenza di modalità comportamentali sovente disadattive. Operare in condizioni difficili, ma con risultati soddisfacenti, potrebbe favorire una loro stabilità, particolarmente importante per la delicatezza delle relazioni personali con gli utenti. Altrettanto necessaria è la costituzione di reti multidisciplinari che pongano in relazione, fin dall’inizio, l’intervento educativo con quello sociale e medico-riabilitativo. Questo uno stretto coordinamento per ogni progetto in essere, per mantenere unità di obiettivi e compatibilità di metodi nella diversità degli interventi.

Sulla base di quanto detto, le modalità organizzative di un servizio che si faccia carico di persone con diagnosi complesse possono quindi configurarsi in varie forme e attività.

Interventi individuali e di gruppo, associati tra loro, svolti anche al domicilio degli utenti, possono costruire percorsi di integrazione, promuovere l’autoconsapevolezza e la partecipazione sociale dell’individuo.

Attività laboratoriali, specificamente dedicate ai bisogni di questi utenti, possono alternarsi a una loro partecipazione integrativa a laboratori aperti anche ad utenze diverse, sulla base degli interessi personali e delle capacità rilevate.

Una specifica attenzione dovrebbe riguardare la dimensione della socialità nel tempo libero dagli interventi, facilitando e supportando le aggregazioni per superare l’isolamento e l’inattività.

Infine, il supporto psicologico alla persona e alla famiglia rappresenta uno strumento che facilita (e talvolta rende possibile) l’avvio di processi integrativi, favorendo anche la costruzione di percorsi di residenzialità leggera.

Note

[1] Diritti delle persone con disabilità complessa nell’accesso ai servizi sanitari, Studi Zancan – 4/2011

[2] Cerabolini R. “La sofferenza psichica nelle persone con disabilità intellettiva” Prospettive Sociali e Sanitarie n. 4.1 anno XLIV, pag 10-13, novembre 2014

[3] Njccpsd, “Guidelines for meeting the communication needs of person with severe disabilities,” in Asha, 34, supplemento 7, pp. 575 – 589, 1992

[4] Conferenza di Consenso “I diritti delle persone con disabilità complessa nell’accesso ai servizi sanitari. Raccomandazioni cliniche e organizzative”. Padova 26/5/2011

[5] Ruggerini C. et al., “Sviluppo di ricerche empiriche finalizzate al miglioramento della efficacia della assistenza psichiatrica alle persone con ritardo mentale e disturbo mentale: i primi risultati”, in Atti del Congresso, Innovazione nei Progetti di Vita per le Persone con Disabilità Intellettiva: Esperienze, Ricerche e Proposte, Ruggerini C., Manzotti S., a cura di, VI Congresso Nazionale SIRM, Modena, 2008

*Psicoterapeuta presso “Fraternità e Amicizia” Coop.va Sociale Onlus, Milano

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *